s AN T I AG O LE OPERE DI GIORGIO VASARI LE VITE Tip. e Lit. Carnesecchi — Firenze, Piazza cl'Arno LE VITE DE'PIÜ ECCELLENTI PITTORI SGULTORI ED ARGHITETTORI SCRITTE DA GIORGIO VASARI PITTOBE ABETINO ^ CON NUOVE ANNOTAZIONI E COMMENTI D1 gaetano mlanesi Tomo I IN FIRENZE G. G. SANSONI, EDITORE G - "W fs»··à^''^^^*1%»'''» -■• jS■C'^íi irA.s·^''ú^ ^m''«íV i.L·i:^' '' f ^V V ,'K.- ^1,%'^ 'Víí|f«>ífv& ?i·'SÍ> e^" r. r' " '^''f í ^ ' , f ^*/ i .á-" ^ v.--ji~'^v^'*-:?.r-:^ií:f^»'4i¿ A,", V -•'.I í - 1 í'ls' #ñ?' . ^ > "^4 ^ y ;\.V„ Pu'-i l"->¿^¿v,'S¿^ è > . ..V... ^ ît %^K .iüíolí'r.: •► r L%^' ■!.'·^K'''*·^ ^ rV .Wíi '- rf''^ -o/ ^ ' '^ * ■:¿* Í%SÍ:SV'V''-r^^ iíís—' ■L·í·' .-^T »(-:► T »5.>s^,3ò« .· ..-iii?;# i^, ^i%f- SS^-i,' 1,%^ fe :?• . K-^ 12^') >v:.. sU Í/íi^^A W ÍÍ^lV - / rtw^vL. i :í" ? " v^ ^/#«iíA¥ílfelS^íffl\f.^v^V4■" 1® ^ -i. ?ííí^-iií4''>iMk *.« v5' %. * -^ ' ' ~ I \ -. ■?^. .j.".>-v*=:ír» t.íí&".i^. " t^ii» .'W •ofc-Ç'. 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Onde la Toscana, alla gloria che il tempo non potrà giammai cancel- lare, nè la invidia toglierle o menomare, di essere stata cagione e strumento principalissimo di quel felice risorgere ; puô ancora aggiungere l'altra di aver avuto nel Vasari « il primo pittore delle memorie antiche » delle nostre arti : imperciocchè nessuno innanzi di lui aveva pigliato a trattare con l'apparato, l'ordine, r ampiezza e le forme délia storia, questo nobilissimo argomento. E sebbene, posto ch'egli ebbe mano all'opera, gli mancassero gli ajuti promessi da que'letterati che.primi.lo avevano confor- tato a somigliante impresa; la quale a lui uomo di poche let- tere, ed uso a maneggiare i pennelli e il compasso, più chela penna, era cosa nuova e per molti rispetti assai malagevole; non- dimeno dopo pochi anni la condusse al desiderato fine, con im- mortale sua Iode e con grande utilità di questi studj. VI PREFAZIONE Ma il Vasari, scrittore bellissimo, raccontatore piacevole^ mirabile nelle descrizioni, e solenne maestro di tutto ciô che ap- partiene alla pratica ed al linguaggio delle arti, non va esente da molti e notabili difetti, i quali in parte derivarono in lui dal- r essere sfornito delle principali qualità che a ben trattare co- siffatta materia si richiedevano, ed in parte dalla scarsità degli scrittori e delle memorie che aveva alla mano : onde non è mara- viglia, se egli, trattando de'primi tempi delle arti risorte, riesce magro, disordinato ed incerto, cosï nel raccontd de'fatti, come nell'ordine loro. Nondimeno noi non dobbiamo essergli cosi severi giudici di questi difetti, come saremmo di altri scrittori che avessero avuto più ajuti di lui. Solo a'nostri giorni, essendosi cominciato ad applicare alla storia dell'arte i buoni canoni délia critica, si è potuto colla scorta delle antiche scritture e con lo studio più ac- curato de' monumenti correggere molti suoi errori e togliere via tanti dubbj ed inesattezze. E vuole giustizia che noi riconosciamo aver egli usato ogni maggiore industria nel raccogliere quanto la tradizione aveva conservato intorno alla storia de' primi se- coli dell'arte, e nel riferire molti aneddoti e particolari, che se non era egli, non sarebbero flno a noi pervenuti. Oltracciô egli procuro, visitando per due volte le principali città d'Italia, di avere dagli uomini eruditi di ciascun paese notizie ed informa- zioni che accrescessero e migliorassero quelle che nella prima edizione delle Vite, fatta in Firenze nel 1550, aveva dette. Onde non estante i suoi difetti, rimediati in gran parte dalle erudite ed ameróse fatiche di colore che presero ad il·lustraria, l'opera del Vasari sarà sempre tenuta in grandissime pregio non tanto per il molto bueno che ha in sè, quanto per la elegante ed ap- propriata forma, di che seppela rivestire. Le Vite, dope la seconda edizione più corretta ed ampliata fatta dal Vasari nel 1568, non ebbero nel seguente secolo che una sola e materiale ristampa di Bologna nel 1648. 11 primo che si mettesse alla gran fatica di correggerle fu monsignor Gio- vanni Bottari, il quale nel 1759 ne diede in Roma una splen- dida edizione di tre volumi in-4, corredata di erudite ed utili annotazioni, di cui si sono giovati poi tutti gli altri editori di queir opera. PREFAZIONE VII Nel 1845 ne fu incominciata una nuova in Firenze pel torchi di Felice Le Monnier e dopo undici anni condotta a fine da una Società di Amatori delle Belle Arti, formata dell'filustre Pa- dre Vincenzo Márchese de'Predicatori, di Cario mió fratello, di Cario Pini e di me. Ma dopochè fu puhblicato il quinto vo- lume, essa si ridusse a tre; essendole venuta a mancare l'utile e pregiata cooperazione del detto Padre Márchese, primo e solertissimo promotore della nostra impresa. E mi sia permesso con questa occasione di ricordare ancora che la nostra Società dovette patiré, or sono dieci anni, una perdita dolorosa ed irrimediabile. Cario Milanesi, che era stato uno de'nostri piii utili ed operosi compagni, fino dal 10 d'ago- sto 1867 non è più. Una crudele malattia d'intestini, dopo averio travagliato per tre anni, fattasi ribelle ad ogni cura, lo rapiva in Siena sua patria, quand'era ancora nel vigore degli anni e in tutta la forza delí' ingegno ; togliendoci cosí, e per sempre, il conforto e l'ajuto d'un fratello e di un amico carissimo. Nella quale impresa noi procedemmo con modi ed intendi- menti forse allora nuovi in Italia; i quali erano di accettare qualunque discussione sopra i punti tuttavia oscuri e contre- versi delia storia delí' arte, e di risolverli con piena liberta di giudizio, senza curarsi dell'altrui autorità, se alie testimonianze storiche od alie ragioni critiche contradicesse. Perciò la Società mossa dal solo amore del vero, e non passando giammai i ter- mini delia moderazione e delia buona creanza, combattè le vec- chie e le nueve opinioni, le false congetture, le incerte o cor- rotte tradizioni, cofia guida della cronologia, coll'esame diligente deir opere e delle maniere, e cofia giusta interpetrazione de' do- Gumenti e delle testimonianze antiche : parendo ben tempo, che la storia e 1' erudizione artistica dovesse usare di que' medesimi strumenti che pel passato erano stati di cosí grande ajuto ed utilità alie altre discipline. Vero è che cofi'accrescersi delle cognizioni fatte piíi certe e piti sicure, perché cavate dai documenti ricercati con assiduo studio e diligenza, la fede che un tempo era riposta nel Vasari é andata ogni giorno più scemandosi ; ed oggi siamo giunti a tale, che il seguitare la sua sola autorità, massime dove discorre de'primi due secoli dell'arte risorta, sarebbe cagione d'infiniti errori. VIII PREFAZIONE Nello spazio di ventidue anni, che tanti ne son corsi dal 1856, in oui fu compiuta l'edizione Vasariana del Le Monnier, fino ad oggi, le numeróse scritture, le più molto importanti, pubhlicate tra noi e fuori hanno accresciuto di tanto il patrimonio e le co- gnizioni interno alla storia generale e particolare dell'Arte in Italia, che ormai da molti è state conosciuto, la detta edizione, per non rispondere piii in tutto alio state presente di quelle cognizioni, aver bisogno grande d'esser rifatta. Coir intendimento adunque di soddisfare al desiderio più volte espresso da molti ed ancora di giovare agli studiosi della storia, si è accinto I'editore alia presente nueva edizione delle Vite, la quale sarà fatta nei tipi e nella forma in mode degno e più corrispondente alia importanza dell'Opera, ed insieme arricchita di molte nueve illustrazioni, di alcuni Commentarj e d'altro, dandone principalmente la cura a me, che avevo in pronto una abbondante mèsse di notizie raccolte nelle mie ricercbe da molti anni non mai intermesse negli Arcbivj e nelle Bibliotecbe fio- routine, con animo di servirmene in una sperata ristampa delle Vite. Alie quali nella presente edizione seguiranno gli altri scritti del Vasari, cioè i Ragionamenti e VEpistolario, accresciuto di pareccbie lettere inédito; tanto che si avranno riunite in un sol corpo tutte le opere del Biógrafo aretino : il che non era state fatto fino ad ora se non imperfettamente. La nuova edizione sarà condotta colle medesime norme che governarono l'ultima fiorentina, conservando gran parte delle illustrazioni, common- tarj ecc. che in quella si trovano. E qui mi pare di dover dicbiarare che sebbene il mio amico cav. Carlo Fini, impedito dalle molte e varie occupazioni, non abbia potuto prestare tutta l'opéra sua in questa nuova edizione, come aveva fatto nella precedente, mi ba nondimeno grandemente giovato ogni quai volta bo dovuto ricorrere alla molta sua intelligenza artística e alla singolare perizia nel conoscere le maniere degli anticbi maestri. Nel Febbrajo del 1878. G. Milanesi. ALL'ILL.»"' ED ECC."® SIGNORE 1 IL SIGNOR COSIMO DE'MEDICI Duca di Fiorenza SIGriOE MIO OSSEEVANDISSIMO ' Foiche la Eccellenza Yostra, segmndo in ció I'm'me degli illustrissimi suoi progenitori, e dalla naturale magnanimità sua incitata e spinta, non cessa di favorire e d! esaltare ogni soHe di virtù, dominque ella si trovi; ed ha specialmente pro- tezioni delVarti del disegno, inclinazione agli artefici d! esse y <^ognizmte e diletto delle belle e rare opere loro; penso, che -non le sarà se non grata questa fótica p^esa da me di scri- mre le vite, i lavori, le maniere e le condizioni di tutti quelli, che essendo giàppente, V hanno primierámente risuscitate, di poi di tempo in tempo accresciute, ornate e condotte finalmente a quel grado di hellezza e di maestà, dove elle si trovano ai ejiorni d'oggi. E perciocche questi tali sono stati quasi tutti Toscani, e la più parte suoi Fiorentini, e molti d'essi degli » Questa lettera in forma di dedicatoria precede alla prima edizione delle Yite^ fatta nel 1550 e intitolata AL SANTISSIMO B BEATISSIMO GIULIO III PONTEFICE MASSIMO PEOTETTOEE E RIMUNERATOEE DI QÜESTE EOCELLENTISSIME ARTI LE QUALI UMILISSIMAMENTE A SUA BEATITUDINE DEDICA B EACCOMANDA GIORGIO VASARI PITTORE ABETINO. 2 LETTERA DEDICATORIA DI GIORGIO VASARI illustrissimi antichi suoi con ogni sorte di prein) e di oncnñ incitcdi ed aiutcdi a metiere in opera; si può dire che net suo statOj anzi nella sua felicissima casa siano riñóte, e per he- nefízio dd suoi medesimi abhia il mondo queste hellissime aHi ricuperate, e che per esse nóbilitato e rimhellito si sia. Onde,- per Vobhligo che questo secolo, queste arti e questa sorta d'ar- tefíci, dehhono comunemente agli suoi ed a Lei, coiné erede delta virtù loro e del loro patrocinio verso queste professioni; e per quéllo che le dehho io particolarmente per aver imparato da loro, per esserle suddito, per esserle devoto, perché mi sono allevato sotto Ippolito cardinale de' Medid e sotto Ales- Sandro suo antecessore, e peixhé sono infinitamente tenuto alie felici ossa del Magnifico Ottaviano de'Medid, dal quale io fui sosteníalo, amalo e difeso mentre ch' e'visse; per tulle que- ste cose, dico, perché dalla grandezza del valore delta for- tuna sua verra motto di favore a quest' opera, e dall'intelli- genza ch'ella tiene del suo soggetto, meglio che da nessuno altro sarà considérala l'utililà di essa, è la fatica e la di- ligenza falta da me per condurla; mi é parso che all'Ec- cellenza Vostra solamente si convenga di dedicarla, e sotto V onoratissimo nome suo ho voluto che ella pervenga alie mani degli uomini. Degnisi adunque V Eccellenza Vostra d'accet- tarta, di favorirla, e (se dall'altezza dei suoi pensieri le sarà concesso) talvolta di leggerla, riguardando alia qua- tità dette cose che vi si traltano, ed alia pura mia inten- zione; la quale é stata di non procacciarmi lode come serit- tore, ma, come artefice, di lodar I'industria e awivar la memoria di quegli, che, avendo dato vita ed ornamento a queste professioni, non meritano che i nomi e V opere loro siano in tutto, cost come erano, in preda délia moHe o delia oblivione. Oltra che, in un tempo medesimo, con V esempio di tanti ralenti uomini, e con tante notizie di tante cose che da me sono state raccolte in questo libro, ho pensato di giovar non A COSIMO DE' MEDICI " DUGA DI FIORENZA 3 foco a'professori dt questi esercizj, e dilettare tutti gli altri che ne. hanno gusto e vaghezza. It che mi sono ingegnato di fare con quella accuratezza e con quella fede che si ricerca alia verità delia storia e delle cose che si scrivono. Ma se la scrittura, per essere incolta e cost naturale come io fa- vello, non è degna dello orecchio di Vostra Eccellenza nè de'meriti di tanti chiarissimi ingegni, scusimi, quanto a loi^o,. che la penna diun disegnatore, come furono essi ancora, non ha più forza di linearli e d' ombreggiarli. E quanto a Lei, mi hasti che Ella si degni di gradire la mia se^nplice fótica, considerando che la necessità di procacciarmi i bisogni delta vita, non mi ha concesso che io mi eserciti con cdtro mai che col pennello. Nè anche con questo son giunto a quel termine, al quale io m'imagino di potere aggiugnere ora, che la for- tuna mi promette pur tanto di favore, che, con più comodità e con più lode mia e più satisfazione altrui, potro forse, cosí col pennello come anco con la penna, spiegare al mondo i concetti miei, qualunque si siano. Perciocchè oltra lo aiuto e laprotezione che io dehho sperar dalla Eccellenza Vostra, come da mió signore e come fautore ddpmeri virtuosi, è pia- ciuto alla divina hontà d! eleggere per suo vicario in terra il santissimo e heatissimo Giulio III, pontefice massimo, ama- tore e riconoscitore d'ogni sorte virtù, e di queste eccellen- tissime e difficilissime arti specialmente; dalla cui somma liberalità atiendo risto^^o di molti anni consumati e di molte fatiche sparte fino a ora senza alcun frutto. E non pur io, che mi son dedicado per servo perpetuo alia Santità Sua, ma tutti gV ingegnosi artefici di questa età,non debbono aspettare onore e premio tale, ed occasione dt esercitarsi: talmente che io già mi rallegro di vedere queste arti arrivate nel suo tempo al supremo grado delia lor perfezione, e Boma ornata di tanti e nobili artefici, che annoverandoli con quelli di Fiorenza, che tutto giorno fa mettere in opera V Eccellenza Vostra, spero 4 LETTERA DEDICATORIA DI GIORGIO VASARI ecc. che chi verrà do'po noi amà da scrivere la quaHa età del mió volume, dotato d'altri maestri e d'altri magisteri, che non sono descrita da me; nélla compagnia de'quali io mi vo pre- parando con ogni studio di non esser degli ultimi, Intanto mi contento che ella abbia buona speranza di me, e migliore opinione di quella che senza alcuna mia colpa riha forse conceputa; desiderando che Ella mi lasci opprimere net suo concetto dalV altrui maligne relazioni, sino a tanto che la vita e le opere mié mostreranno ü contrario di quello che e' di- cono. Ora, con quello animo che io tengo d' onorarla e di ser' virla sempre, dedicándole questa mia rozza fatica, come ogni cdtra mia cosa e me medesimo l'ho dedicado, la supplico che non si sdegni di averne la protezione, o di mirar almeno alia demzione di chi gliela porge; e alia sua buona grazia rae- comandandomi, umilissimamente le bacio le mani. Di Vostra Eccellenza Umilissimo Servitore Giorgio Vasari, pittore aretino. ALLO ILL.-o ED ECC.^o SIGNOR COSIMO DE'MEDICI Duca di Fiorenza e Siena SIQKOR SÜO OSSEBVANDISSIMO " Ecco, dopo diciassette anni cKio présentai quasi abhoz- zcde a Vostra Eccellema illustrissima le Vite de'più celebri pütori, scultori ed architetti, che elle vi tornano innanzi, non pure del tuMo finite, ma tanto da quello che elVerano immti- tate, ed in guisa più adorne e ricche d'infinité opei^e, dette quali insino altora io non avevapotuio avere altra cognizione, che per mió aiuio non si pub in loro, quanio a me, alcuna cosa desiderare. Ecco, dico, che di nuovo si presentano, it- lustrissimo e veramente eccellentissimo sig. Duca, con Vag- giunta d'altri nobili e molii famosi atiefici, che da quel tempo insino a oggi sono dalle miserie di questa passati a miglior vita; e d'altri che, ancorchè fra noi vivario, hanno in queste professioni si faltamente operato, che degnissimi sono d'eterna memoria. E di vero, è a molli stato di nm picedla verdura, che io sia, per la benignità di Colui, a cui vivono tutte le cose, tanto vivuto, che io abbia questo libro quasi tutto falto di nuovo: perciocche, come ne ho moite cose leoate, che senza sapida ed in ' Quest'altra dedicatoria è posta innanzi alia seconda impressione delle Vite, fatta nel 1568, con molte correzioni ed aggiunte. 6 LETTERA DEDICATORIA DI GIORGIO VASARI mia assenza vi erano, non so corne, state ^oste, ed altre ri- mutate; cosí ve ne ho moite niili e necessarie, che mancavano, aggiunte. E se le effigie e ritratti che ho posti di tanti va- lenti uomini in questa opera (dei qudli una gran parte si som avuti con V aiuto e per mezzo di Vostra Eccellenza), non sono alcuna volta hen simili al vero, e non tutti hanno quella proprietà e simiglianza che suol dare la vivezza de' colori; non è però che il disegno ed i lineamenti non sieno stati tolti dal vero, e non siano e pivprj e naturali: senza che, essen- domeñe una gran parte stati mandati dagli amiei che ho in diversi luoghi, non sono tutti stati disegnati da huona mano. Non mi è anco stato in ció di piccolo incomodo la lontananza di chi ha queste teste intagliate; però che, se fussino stati gli intajgliatori appresso di me, si sarehhe per amentara intorno a ciò.potuto motto più diligenza, che non si è fatto, usare. Ma comunque sia, ahhiano i virtuosi e gli aHefici mstri, a comodo e henefizio de' quali mi sono messo a tanta fótica, di quanto ci averanno di huono e d'utile e di giovevole, ohhligo in tutto a Vostra Eccellenza illustrissima; poiche in stando io al set'vigio di Lei ho avuto, con l'ozio che le èpiaciuto di darmi, e col maneggio di motte, anzi infinite sue cose, como- dità di metiere insieme e dare al mondo tutto quello che al perfetto compimento di questa opera parea si richiedesse. E non sarehhe quasi impietà, non che ingratitudine, che io ad altri dedicassi queste Vite, o che gli artefici da altri che da voi riconoscessino quálunque cosa in esse avranno di giova- mento o piacere; guando, non pure col vostro aiuto e favore uscirono da prima ed ora di nuovo in luce, ma siete voi, ad imitazione degli avoli vostri, solo padre, signoi'·e ed único pro- tettore di esse nostre arti? Onde è hene degna e ragionevole cosa, che da quelle sieno fatte in vostro servigio, ed a vostra eterna e perpetua memoria, tante pitture e statue nohilissime, e tanti maravigliosi edifizj di tutte le maniere. Ma se tutti vi A CO SIMO DE'MEDICI DUCA DI FIORENZA E SIENA 7 siamo (che sicmo infinitamente) 'per quests e altre cagioni obUigaiissimi; quanto più vi debió io, che ho da voi sempre avuto (cosí al desio e buon volere avesse risposto Vingegno e la mano!) tante onorate occasioni di mostrare U mió poco saperCj che, qualunqiie egli sia, a grandissimo pezzo non ag- guaglia nel suo grado la grandezza delV animo vostro, e la veramente reale magnifícenza? Ma che fo io? è pur meglio che COSI me ne stia, che io mi metía a tentare quello che a quálunque e più alto e nóbile ingegno, non che al mió picco- lissimo, sarelhe del tutto impossibile. Accetti dunque Vostra Eccellenza illustrissima questo mió, anzi pur suo, libro delle Vite degli artefici del disegno; ed, a somiglianza del grande Iddio,più alV animo mió ed alie buone intenzioni che aW opera riguardando, da me prenda ben volentieri, non quello che io vorrei e d&verrei, ma quello chüo posso. Di Fiorenza, alU 9 di gennaio 1568. ^ Di Vostra Eccellenza Illustrissima Olhligatissímo Servitore Giorgio Faa-lk/. f I" AGLI AETEFIOI DEL DISEGNO 9 GIORGIO VASABI^ Eccelienti e carissimi artefici miei. Egli e stata sempre ianta la delettazione, con l'utile e con l'onore insieme, che io ho cavato neU'esercitarml cosï come ho saputo in questa nobilissima arte, che non solamente ho avnto un desiderio ardente d'esaltarla e celebrarla, e in tutti i modi a me possibili onorarla; ma ancora sono stato af- fezionatissimo a tutti quelli che di lei hanno preso il me- desimo placere, e Than saputa, con maggior felicità che forse non ho potuto io, esercitare. E di questo mio buono animo, e pieno di sincerissima affezione, mi pare anche fino a qui averne coito frutti corrispondenti, essendo stato da tutti vol amato e onorato sempre, ed essendosi con incredibile non so s' io dico domestichezza o fratellanza conversato fra noi ; avendo scambievolmente io a voi le cose mie, e voi a me mostrate le vostre, giovando Tuno aU'altro, ove I'occasioni si sono porte, e di consiglio e d'aiuto. Onde, e per questa amorevolezza, e molto piii per la eccellente virtù vostra, e non meno ancora per questa mia inclinazione, per natura e per elezione po- ' Proemio che nella, edizione del 1568 è posto a riscontro della dedicatoria qui avanti riferita. 10 GIORGIO VASARI tentissima, m'è parse sempre essere obbligatissimo a gio- varvi e servirvi in tutti quei modi ed in tutte quelle cose che io ho giudicato potervi arrecare o diletto o co- modo. A questo fine mandai fuora, l'anno 1550, le Vite de'nostri migliori e più famosi, mosso da una occasione in altro luogo accennata; ed ancora (per dire il vero) da un generoso sdegno, che tanta virtù fusse stata per tanto tempo ed ancora restasse sepolta. Questa mia fa- tica non pare che sia stata punto ingrata ; anzi in tanto accetta, che, oltre a quelle che da molte parti me n'è venuto dette e scritto, di un grandissime numero che allora se ne stampò, non se ne trova ai librai pure un volume. Onde, udendo io ogni giorno le richieste di molti amici, e conoscendo non meno i taciti desiderj di molti altri, mi sono di nuevo (ancor che nel mezzo d'impor- tantissime imprese) rimesso alla medesima fatica, con disegno nen solo d'aggiugnere questi che, essendo da quel tempo in qua passati a miglior vita, mi danno oc- casione di scrivere largamente la vita lore ; ma di sop- plire ancora quel che in quella prima opera fussi man- cato di perfezione ; avendo avuto spazio poi d' intendere molte cose meglio, e rivederne molte altre, non solo con il favore di questi illustrissimi miei signori (i quali servo) •che seno il vero refugio e protezione di tutte le virtù, ma con la comoditk, ancora che m'hanno data di ricercar fii nuevo tutta 1'Italia, e vedere ed intendere molte cose che prima non m' erano venute a notizia. Onde non tanto ho potuto correggere, quanto accrescere ancora tante cose, che molteVite si possono dire essere quasi rifatte di nuevo : come alcuna veramente delli antichi pure, che non ci era, si è di nuevo aggiunta. Ne m'è parse fatica, con :spesa e disagio grande, per maggiormente rinfrescare la memoria di quelli che io tanto enero, di ritrovare i ri- tratti, e mettergli innanzi alie Vite loro. E, per più con- tente di molti amici fuer dell'arte, ma all'arte affezio- AGLI ARTEFICI DEL DISEGNO 11 natissimi, ho ridotto in un compendio la maggior parte deir opere di quelli che ancor son vivi, e degni d'esser sempre per le loro virtù nominati : perché quel rispetto che altra volta mi ritenne,- a chi ben pensa, non ci ha luogo ; non mi si proponendo se non cose eccellenti e degne di Iode: e.potra forse essere questo uno sprone, che ciascun seguiti d'operare eccellentemente, e di avan- sarsi sempre di bene in meglio: di sorte che, chi scri- vera il rimanente di questa istoria, potrà farlo con piii grandezza e maesta, avendo occasione di contare quelle più rare e più perfette opere che di mano in mano, dal desiderio di eternità incominciate e dallo studio di si di- vini ingegni finite, vedrà per innanzi il mondo uscire delle vostre mani. Ed i giovani che vengono dietro stu- diando, incitati dalla gloria (quando l'utile non avesse tanta forza), s'accenderanno per avventura dall'esempio a divenire eccellenti. E perché questa opera venga del tutto perfetta, né s'abbia a cercare fuora cosa alcuna, ci ho aggiunto gran parte delle opere de'più celebrati artefici antichi, cosi greci come d' altre nazioni, la me- moria de' quali da Plinio e da altri scrittori é stata fino a' tempi nostri conservata ; ché senza la penna loro sa- rebbono, come molte altre, sepolte in sempiterna obli- vione. E ci potra forse anche questa considerazione ge- neralmente accrescer 1'animo a virtuosamente operare; e, vedendo la nobilth e grandezza dell'arte nostra, e quanto sia stata sempre da tutte le nazioni, e partico- larmente dai più nobili ingegni e signori più potenti, e pregiata e premiata, spingerci ed infiammarci tutti a la- sciare il mondo adorno d'opere, spessissime per numero, e per eccellenzia rarissime; onde, abbellito da noi, ci tenga in quel grado che egli ha tenuto quei sempre ma- ravigliosi e celebratissimi spiriti. Accettate dunque con animo grato queste mié fatiche, qualunque le sieno, da me amorevolmente, per gloria dell'arte ed onor degh 12 GIORGIO VASARI AGLI ARTEFICI DEL DISEGNO artefici, condotte al suc fina, e pigliatele per uno indizio 6 pegno certo dell'animo mió, di niuna altra cosa più desideroso che della grandezza e della gloria vostra; deUa quale, essendo ancor io ricevuto da voi nella compagnia vostra (di che e voi ringrazio, e per mió conto me no compiaccio non poco), mi parrh sempre in un certo modo partecipare. LETTERA DI G. B. ADEIANI A GIORGIO YASARI LETTEEA DI M. GIOVAMBATISTA DI M. MARCELLO ADRIAN! 15 a m. Giorgio Vasart NELLA. QUALE BREVEMENTE SI RACCONTA I NOMI E L' OPERE DE' PIÙ ECCELLENTI ARTEFICI ANTIOHI IN PITTURA, IN BRONZO ED IN MARMO, QUI AGGIONTI, ACCIÒ NON CI SI DESIDERI COSA ALGUNA DI QUELLE CHE APPARTENGHINO ALLA INTERA NOTIZIA E GLORIA DI QÜESTE NOBILISSIME ABTI. SOMMARIO : — I. Origine di questa Lettera. - II. Elogio di Giorgio Vasari. - III. Incer- tezza delle antiche notizie intorno i primi ooltivatori delle Arti, e segnatamente intorno gli Egizj. - IV. Dei Greci che primi si addestrarono al dipingere. - V. Cleofanto di Corinto. - VI. Polignoto e Apollodoro. - VII. Zeusi. - VIII e IX. Parrasio. - X. Timante. - XI. Eu- pompo. - XII e XIII. Apelle. - XIV. Aristide. - XV. Protogene, Nicofane, Nicomaco, ecc. - XVI. Ludio. - XVII. Pansia. - XVIII. Nicia ed altri. - XIX. Metrodoro. - XX. Ari- stolao, Menocare ; non che di alcune pittrici. - XXI. Pittori Romani. - XXII. Del modellare di terra. - XXIII. Di Lisistrato e d'altri che primi operarono di plástica. - XXIV. Del getto in bronze. Fidia e sue opere. - XXV. Policleto. - XXVI. Mirone ed altri. - XXVII. Lisippo, Euticrate e Tisicrate. - XXVIII. Prassitele. - XXIX. Altri minori artefici. — XXX. Del getto in opere minori. - XXXI. Statue colossali. - XXXII. Dei scultori in primi marmo. - XXXIII. Pidia. - XXXIV. Prassitele. - XXXV. Scopa. - XXXVI. Di alcuni contemporanei di Scopa; di Mirone e di Lisia. - XXXVII. Seguitano altri artefici minori. - XXXVIII. Mirmecide e Callicrate. - XXXIX. Statue erette in onore degli illustri cittadini. - XL. Differenza fra le greche statue e le romane. Delia Orificeria. - XLI. Conclusione. I. lo sono stato in dubbio, messer Giorgio carissimo, se quello, di che voi ed il molto reverendo don Vincenzo Borghini mi avete più volte ricerco, si devea metter in opera, o no: cioë il raccorre e brevemente raccontare coloro, che nella pittura e nella scultura ed in arti simi- glianti negli antichi tempi furono celebrati; de'quali il numero è grandissimo ; e a che tempo essi fecero fiorire Tarti loro, e delle opere di quelli le più onorate e le più famose; cosa che, s'io non m'inganno, ha in sè del pia- cevole assai, ma che più si converrebbe a coloro, i quali 16 LETTERA DI G. B. ADRIAN! in cotali arti fussero esercltati, o come pratichi ne po- tessero più propriamente ragionare. Imperoccliè egli ë forza, che nel dettare nna cosi fatta cosa, occorra bene spesso parlare di cosa che altri non sa cosi a pieno ; aven- do massimamente ciascuna arte cose e vocaboli speziali, i qnali non si sanno, e non s'intendono cosi appnnto, se non da coloro, i quali sono in esse ammaestrati. Në solo questa dubitanza, ma moite delle altre mi si facevano incontro, le quali tutte si sforzavano di levarmi da co- taie impresa : aile quali ho messo incontro primieramente Tamore che io meritamente vi porto, il quale mi co- stringe a far questo ed ogni altra cosa che vi sia in pia- cere; e di poi quelle di voi stesso inverso di me, il quale basterebbe solo a vincere questa ed ogni altra difficultà; avvisando che, amandomi voi come voi fate, non mi areste ricerco di cosa che mi fosse disdicevole: tale, che confidato nella affezione e giudizio vostro, mi sono miso a questa opera, la quale non sarà però në molto lunga, në molto faticosa, dovendosi per lo più raccontare, e bre- vemente, cose dette da altri; che altramente non si po- teva fare, trattandosi di quelle che in tutto ë fuori della memoria de'vivi, e che gih, tanti secoli sono, ë trapas- sato. Duolmi bene che, dovendosi ció, come io mi avviso, aggiugnere al vostro cosi bello, cosi vario, cosi copioso e d'ogni parte compiuto libro, non sia tale che e' gli possa arrecare alcuna orrevolezza. Ma mi gioverh pure, che, postogli a lato, mostrera meglio la bellezza di lui; per- ciocchë il vostro ë tale, che, e per le cose che entro vi si trattano, e per la leggiadria, con la quale voi l'avete scritto, e per le virtù dell'animo vostro, le quali chiare vi si scorgono, ë forza che egli sia sempre pregiato, e vi mostri a tutto il mondo intendente, gentile e cor- tese: virtù molto rade, e che poche volte in un mede- simo animo si accolgono, e massimamente d'artefice, dove l'invidia più che altrove suole mettere a fondo le sue A GIORGIO VASARI 17 radici; delia quale infermita il vostre libro vi mostra interamente sano ; nel quale voi, non so se intendente- mente più, ovvero più cortesemente, avete onorate que- ste arti, infra le manuali nobilissime e piacevolissime, ed insieme li maestri di quelle; tornando alia memoria degli uomini con molta fatica e lungo studio e spesa di tempo, da quanto tempo in qua dopo il disfacimento di Europa, e delle nobili arti e scienze, elle cominciassero a rinascere, a fiorire, e finalmente siano venute al colmo delia loro perfezione, dove veracemente io credo ch'elle siano arrivate; tale che (come delle altre eccellenze suole avvenire, e come altra fiata di queste medesime aweime) ë più da temerne la scesa, che da sperarne più alta la salita. Në vi ë bastato questa rada cortesia di mante- nere in vita coloro, i quali già molti anni erano morti, e di cui r opere erano gih più che smarrite, ed in breve per non si ritroVare në riconoscersi più li maestri che le avevano fatte, e con quelle cerco di procacciarsi nome; ma con nuova e non usata cortesia diligentemente avete ricerco de'ritratti delle loro imagini, e quelle con la bella arte vostra in fronte alie vite ed alie opere loro avete aggiunte, acciocchë coloro che dopo noi verranno, sap- piano non solo i costumi, le patrie, 1'opere, le maniere e ringegno de'nobili artefici, ma quasi se li veggano in- nanzi agli bcchi;^ cosa, la quale avanza di gran lunga ogni cortesia, la quale si sia usata inverso dei morti, cioë di coloro, da cui non si può più sperare cosa alcuna. II che ë tanto degno di maggior lode, che non ë quella che al presente vi posso dare io, quanto ella ë più rada, ed usata solamente (quanto io posso ritrarre dalle antiche ^ Accenna alia seconda edizione delle Vite fatta dal Vasar! in Firenze per i Giunti nel 1568, nella quale egli aggiunse i ritratti incisi in lesgno, e che noi nella presente edizione abbiamo creduto di non dover riprodurre, non avendosi, massi- mámente degli antichi, prova accertata della loro autenticitá, nè potendosi i piú raoderni, che sono pure i soli autèntic!, riconoscerli ne'loro original!, da cui fu- roño tratti, tanto essi nell'opera del Vasar! appariscono trasfigurati e infedeli. ViSAKi , Opere. — Vol. I. 18 LETTERA DI G. B. ADRIAN! memorie) da duoi nobilissimi e dottissimi cittadiiii ro- mani, Marco Varrone e Pomponio Attico; de'quali, Var- rene in un libro che egli scrisse degli uoinini chiari, oltre ai fatti loro pregiati e costumi laudevoli, aggiunse an- cora le imagini di forse settecento di loro: e Pomponio Attico símilmente, come si trova scritto, di cotali ritratti di persone onorate ne messe insieme un volume ; cotanto quelli animi gentili ebbero in pregio la memoria degli uomini grandi ed illustri, e tanto s'ingegnarono con ogni lor potere e con ogni maniera di onore far pregiati, chiari ed eterni i nomi e le imagini di coloro, i quali per loro virtù avevano meritato di viver seriapre. II. Voi adunque spinto da un generoso e bello animo, oltre al consueto degli artefici, avete fatto il simigliante inverso i vostri chiari artefici, illustri maestri, e nel vo- stro onorato mestiero pregiati compagni, ponendoci in- nanzi agli occhi quasi vivi i volti loro nel vostro cosi piacevole e ben disposto libro, insieme con le virtù e con ropere più pregiate di quelli; che pure non vi doveva parer poco, se dell'ingegno vostro si vivo e della mano si nobile e si pronta era ripiena della vostra arte ono- rata in pochi anni una gran parte d'Italia, e la nostra città in più luoghi adorna, ed il palazzo de'nostri illu- strissimi principi e signori fattone si a tutto il mondo ragguardevole, che egli non più della virtù e della gloria e della ricchezza debsuoi signori, che delharte vostra me- desima ne sarà, sempre che le pitture saranno in pregio, tenuto maraviglioso; mostrando in quelle, oltre a mille altri leggiadri e gravi ornamenti, i quali in quelle per tutto si veggono, le giuste imprese, le perigliose guerre, le fiere battaglie, e T onorate vittorie avute giù dal po- polo fiorentino, e novellamente dai nostri illustrissimi ■ principi, con le imagini istesse di quelli onorati capitani e franchi guerrieri e prudenti cittadini, i quali in quelle valerosamente e saviamente adoperarono: cosa che, non A GIORGIO VASARI "^9 solo diletta gli occIii de'riguardanti, ma molto r più alletta animo vago d'onore e di gloria ad opere Ma è somiglianti. non luogo al presente ragionar di voi, il quale da voi stesso con T opere in vita vi lodate a bastanza, e vie- più nei secoli avvenire ne sarete lodato ed i quali ammirato; senza alcuna animosità, che bene al spesso s'oppone vero, sinceramente ne giudicheranno. IIL Ma per venire a quelle che voi mi dice, che demándate, impossibil cosa sarebbe volere veracemente rac- contare chi fussero colore, i quali primieramente dettero principio a queste arti, non essendo la memoria loro per la lunghezza del tempo e per la varieta delle molti lingue e per altri casi, che seco porta il girar del alia notizia cielo, nostra trapassata; e medeshnamente di loro quale fusse prima, o più pregiata : pure all'una cosa ed air altra si può agevolmente sodisfare, parte con la me- moria degli antichi scrittori, e parte con le che congetture seco reca la ragione e T esempio delle cose ; che percioc- e' si conosce chiaramente, per quanto ne scrive Ero- doto, antichissimo istorico, il quale cercó molto paese e molte cose vide, e molte ne udi, e molte ne lesse; gli Egizj essere stati antichissimi di chi si abbi memoria, e della religione, qualunche fusse la loro, solenni osserva- tori; i quali li loro Iddii sotto varie figure di nuovi e diversi animali adoravano, e quelli in oro, in argento, ed in altro métallo, ed in pietre preziose, e quasi in ogni materia, che forma ricever potesse, rassembravano; delle quali imagini alcune insino alli nostri giorni si sono con- servato, massimamente essendo stati, come ancora se ne vede segnali manifesti, quoi popoli potentissimi e copiosi di uomini, ed i loro re ricchissimi ed oltre a modo desi- derosi di prolungare la memoria loro per secoli infiniti; ed oltre a questo di maraviglioso ingegno e d' industria singolare e scienza profonda, cosi nolle divine cose come nolle umane : il (^e si conosce da questo chiaramente, im- 20 LETTERA DI G. B. ADRIANI perocclië qnelli, clie fra gli Greci furono dipoi tennti savi e scienziati oltre agli altri uomini, andarono in Egitto, .e da' savi e da' sacerdoti di quella nazione moite cose ap- pararono, e le loro scienze aggrandirono, corne si dice aver fatto Pitagora, Democrito, Platone, e molti altri: che non pareva in quel tempo che potesse essere alcnno interamente scienziato, se al sapere di casa non si ag- giugneva délia scienza forestiera, che allora si teneva che régnasse in Egitto. Appresso costoro mi avviso io che fosse in gran pregio Tarte del ben disegnare e del coloriré e dello scolpire e del ritrarre in qualunche ma- ^ niera, ed ogni maniera di forme; perciocchè delTarchi- tettnra non si debbe dnbitare che essi non fussero gran maestri, vedendosi di loro arte ancora le piramidi ed altri edificj stupendi, che durano e che dureranno, come io mi penso, secoli infiniti : senza che e' pare che dietro agT imperj grandi ed aile ricchezze ed alla tranqnillità degli stati sempre seguitino le lettere e le scienze ed arti cotali apprasso, cosi nel comune come nel private: e qnesto non si debbe stimare che sia senza alcuna ra- gione; imperocchë, essendo T animo delTuomo, per mio avviso, per sua natura desideroso sempre d'alcuna cosa, në mai sazio, avviene che, conseguito state, ricchezze, diletto, virtù ed ogni altra cosa, che fra noi molto s'ap- prezza, viepiù desidera vita, come più di tutte cara, e quanto far più si puote lunghissima, e non solo nel corpo sno proprio, ma molto più nella memoria: il che fauno i fatti eccellenti primieramente, e poi coloro, i quali con la penna li raccontano e li celebranO : di che non piccola parte si debbe attribnire a'pittori, agli scultori, agli ar- ' Il Winkelmann è di contrario parère, perciocchè bene egli avverte, come di niuno artefice egiziano è giunta notizia fino a noi, se ne togli il solo Mennone, che egli crede scultore delle tre statue, le quali, siccome scrive Diodoro Siculo, erano neiringresso del templo di Tehe. Ma ció è negato da molti. (Storia delle Arti del disegno pressa gli Antichi, vol. I, lib. n, cap. 1 ). Nella pittura si trova sol ricor- dato un Filocle di Egitto, ma che visse ed operó in Grecia nei tempi remotissimi. A GIOEGIO VASARI 21 cliitettori, ed altri maestri, i qiiali hanno virtu, con le arti loro, di prolungare la figura, i fatti ed i nomi degli uomini, ritraendoli e scolpendoli. E perciò si vede cliia- rameute che quasi tutte quelle nazioni che hanno avuto imperio e sono state mansuete, e per conseguente, fa- cuità di poter ció fare, si sono ingegnate di fare la me- moria delle cose loro con tali argomenti lunga, quanto loro ë stato possibile. A questa cagione ancora, e forse la primiera, si vuole aggiugnere la religione ed il culto degli Dei, qualunque esso stato si sia, intorno al quale in huona parte coloro, che di ritrarre in qualunque modo hanno saputo Tarte, si sono esercitati. Questo, come poco innanzi dicemmo, veggiamo noi aver fatto gli Egizj, que- sto i Greci, questo i Latini, e gli antichi Toscani e gli moderni, e quasi ogni altra nazione, la quale per la re- ligionë e per la umanità sia stata celebrata; i quali le imagini di quelli, che essi sotto diversi colori adoravano, hanno prima semplicemente o nel legno intagliato o con rozza pittura adombrato o in qualunche altro modo ri- tratto; e, come nelle altre cose degli uomini suole av- venire, a poco a poco andandosi innalzando, queste an- cora, non solamente a divozione e santità, ma a pompa ed a magnificenza hanno recato ; come anco si conosce aver fatto Tarchitettura, la quale, dalle umili e private case semplicemente e senza arte múrate, a far templi e palazzi altissimi e teatri e logge con gran maestria e spesa si diede. Questi adunque pare che fussero i prin- cipj di COtali arti, le quali in tanta nobiltà e maraviglia degli uomini per ingegno dei loro maestri egregi sali- rono, che e'pare, che, non contenti dello imitar la na- tura, con quella alcuna volta abbiano voluto gareggiare. ]\£a di tutte queste, che moite sono, e che tutte pare che vengano da un medesimo fonte, quale sia più nobile non ë nostro intendimento di voler cercare al presente, ma si bene quali fussero quelli di chi sia rimasa memo- 22 LETTEEA DI G. B. ADRIANI ria, e clie in esse ebbero alcmio nome, e che primiera- mente le esercitarono. E però che ci pare che T origine di tutte cotali arti sia il disegno semplice, il quale ë parte di pittura, o che da quella ha principio, facendosi ció nel piano; parleremo primieramente de'pittori, e poi di coloro che di terra hanno formato, e di quelli che in bronzo o in altra materia nobile, fondendola, hanno ri- tratto, ed ultünamente di coloro, i quali nel marino, o in altra sorta di pietra con lo scarpello levandone hanno scolpito : fra i quali verranno ancora coloro, i quali dal rilevo pill alto o più basso hanno alcuno nome avuto. IV. Dicesi adunque, lasciando stare gli Egizj, dei quali non ë certezza alcuna, in Grecia la pittura avere avuto suo principio ; alcuni dicono in Sicione, ed alcuni in Co- rinto, ma tutti in questo convengono, ció essersi fatto prima semplicemente con una sola linea circondandoTom- bra d'alcuno, dipoi con alcuno colore con alquanto piii di fatica : la quale maniera di dipignere sempre ë stata, come semplicissima in uso, ed ancora ë; e qiiesta di- cono aver insegnato la prima volta, altri Filocle di Egitto ed altri Oleante da Corinto. I primi, che in questa si esercitarono, si trova essere stato Ardice da Corinto e Telefane Sicionio, li quali, non adoperando altro che un color solo, ombravano le lor figure dentro con alcune linee.^ E perciocchë, essendo Tarte loro ancor rozza, e le figure d'un color solo, non bene si conosceva di cui elle fnssero imagini, ebbero per costume di scrivervi a liië chi essi avevano voluto rassembrare. ' È mirabile la rispondenza delia pittura nella sua prima origine con l'ul- timo suo decadimento. Chi ha vedute le miniature di molti codici dei bassi tempi, trova ugualmente le figure tinte a un sol colore, e dintornate con una linea nem. Scrive Plinio che i Greci le dintornassero sovente con una linea rossa, di minio o cinabro, e che Zeusi in quella vece adoperasse una linea bianca. Questo método di dipingere, che i Greci appellavano monocromático^ era eziandio molto usitato dagli Etruschi. Nei tempi piú a noi vicini, rinnovellarono in parte questo antico costume, oltre gli artefici del trecento, anche Paolo Uccello, Masaccio, Filippino Lippi, dipingendo di terretta verde A GIORGIO YASARI 23 Y. n primo che trovasse i colori nel dipignerej come dicono aver fatto fede Arato, fii Cleofanto da Corinto; e questi non si sa cosi bene se ei fn quelle stesso, il quale disse Cornelio Nepote esser vennto con Demarato padre di Tarquinio Prisco, che fu re delli Eomani, quando, da Corinto sua patria partendosi, venue in Italia per paura di Cipselo prencipe di quella città, oppure un altro; co- mecchë a questo tempo in Italia fusse Tarte del dipi- gnere in buena riputazione, come si può congetturare agevolmente ; perciocchë in Ardea antichissima città, në inolto lontana da Roma, oltre al tempo di Vespasiano im- peradore si vedevano ancora in alcimo tempio nel mure coperto alcune pitture, le quali erano, molto innanzi che Roma fusse, state dipinte, si bene mantenute, che elle parevano di poco innanzi célérité. In Lanuvio parimente ne'medesimi tempi, cioë innanzi a Roma, e forse del me- desimo maestro, una Atalanta ed una Elena ignude di bellissima forma ciascuna, le quali lunghisshno tempo fu- rono consérvate intere dalla qualità del muro, dove erano state dipinte; awegnachë un Ponzio ufficiale di Gaie im- peradore, struggendosi di voglia d'averie, si fosse sfor- zato di torle quindi ed a casa sua pórtamele, e lo arebbe fatto se la forma del mure T avesse sofferto. Donde si può manifestamente conoscere, in quei tempi, e forse molto più che in Grecia e molto prima, la pittura essere stata in pregio in Italia.* Ma poichë le cose nostre sono in tutto perdute, e ci bisogna andaré mendicando le forestiere; seguiremo la incominciata istoria di raccontare gli altri ' Che gli Etruschi fosse-^o versati nelle Arti del disegno innanzi ai Greci o nel tempo medesimo, è quesüone fra gli eruditi; ma come nell'Egitto cosi nel- l'Etruria l'arte fu ieratica e convenzionale. II primitivo stile etrusco ha tanta somiglianza con l'egiziano, che il ch. Micali non dubita appellarlo Egizio-To- scanico. Ben è vero però che altro've lo stesso scrive, che il piú anti'co stile delia pittura nei vasi etruschi dérivasse originalmente dalla Grècia Asiática, la prima florida d'Arti; indi passasse nella scuola di Corinto, e di quivi anche in Etruria. (Storia degli antichi popoli Italiani, vol. II, cap. 25). 24 lettera di g. b. adriani di cotale arte maestri, quali da prima si dichino essere stati ; benehè ne i Greci ancora non hanno cosi bene di- stinto i tempi loro in qnesta parte ; perciocchè e' si dice essere stata molto in pregio una tavola, dove era dipinta nna battaglia de'Magneti con si bella arte, che Candaule re di Lidia T aveva comperata altro e tanto peso d'oro,^ il che venne a essere interno alia età di Eomolo pruno fondatore di Roma e primo re de'Romani, che gia era cotale arte in tanta stima ; onde siamo forzati confessaré l'origine di lei essere molto più antica, e parünente co- loro, i quali un solo colore adoperarono, l'eta de'qnali non cosí bene si ritrova, e parimente Igione, che per soprannome fu chiamato Monocromada da questo, per- ciocche con un solo colore dipinse : il quale aífermano essere state il primo, nelle cui figure si conoscesse il ma- stio dalla femmina; e símilmente Enmaro d'Atene, il quale s'ingegnò di ritrarre ogni figura; e quelle, che, dopo lui venendo, le cose da lui tróvate molto meglio tratto, Cimone Cleoneo, il quale prima dipinse le figure in iscorcio, ed i volti altri in giù, altri in su, ed altri altrove guardanti, e le membra parhnente con i suoi nodi distinse, che primo mostró le vene ne'corpi, e ne'vesti- menti le crespe. Paneo ancora fratello di quel Fidia no- bile statuario fece di assai bella arte la battaglia degli Ateniesi con i Persi a Maratona ; che già era a tale ve- ñuta l'arte, che nell'opera di cestui si videro prhnie- rameute ritratti i capitani nelle loro figure stesse. Mil- ciade ateniese, Callimaco e Cinegiro; e de'barbari Dario e Tisaferne. YT. Drieto al quale alquanti vennero, i quali qnesta arte fecero migliore, de'qnali non si ha certa notizia; * È mente deH'autore, a quanto sembra, favellare di un'opera di Bularco ricordata da Plinio. Questi soggiunge, che il prezzo dei dipinti venne a tale, che per un quadro di valente artefice appena bastavano le ricchezze di una intiera cittá. {Hist. Natu7\, lib. xxx, cap. 7). A GIORGIO VASARI 25 intra i quail fu Polignoto da Taso, il primo che le dipinse donne con vesti lucenti e di belli colorí, ed i capi di quelle con ornamenti varj e di nueve maniere adornó: e ció fu intorno agli anni 330 dopo Roma edificata. Per cestui ñi la pittura molto inalzata. Egli primo nelle figure umane mostró aprir la bocea, scoprire i denti, ed i volti da quella antica rozzezza fece parere più arrendevoli e piíi viví . Rimase di lui fra le altre una tavela, che si vide in Roma assai tempo nella loggia di Pompeo, nella quale era una bella figura armata con lo scudo, la norPbene quale si conosceva se scendeva o saliva. Egli medesimo a Delfo dipinse quel templo nobilissimo, egli in Atene la loggia che, dalla varietk delle dipinture che drento vi erano, fu chiamata la Varia;' e Tuno e Taltro di lavori fece questi in dono ; la qual liberalitk molto gli accrebbe la riputazione e la grazia appresso a tutti i popoli della Grecia; talmente che gli Anfizioni, che era un di consigho comune gran parte della Grecia, che a certi tempi trattare per delle bisogne pubbliche a Delfo si ragunava, stanziarono gli che dovunque egli andasse per la Grecia fosse graziosamente ricevuto e fattogli pubblicamente le A spese.^ questo tempo medesimo furono due altri pittori d'un medesimo nome, de' quali Micone il minore si dice essere stato padre di Timarete, il quale esercitó la medesima * Forse l'Atlriani allude aile pitture fatte nel Portico detto sîanaticOj anticamente PZe- e nei tempi posteriori, Pecile. Plutarco ei ha del conservati alcuni versi poeta Melanzio, il quale, celebrando questi esprime dipinti di Polignoto, cosi si : Ei la piazza Cecropia ornó a sue E i spese, templi degli Dei con dipinture, Che rappresentan degli eroi le imprese. {Vila di Cimone, paragr. iv). ^ In Atene dipinse nel templo di Castore e Polluce le loro e i giamenti nuziali geste, delle figlie di festeg- Leucippo. Nella Rocca di Achille di Atene, alcune storie di e Ulisse. Molti altri dipinti di Polignoto erano in Delfo : i dei celebri quali piú erano, la presa di Trola, e la discesa di Ulisse all'inferno. due Di quadri può vedersi la questi descrizione in Pausania, 2o. Descriptio Graeciae, lib. cap. x, 2o LETTERA DI G. B. ADRIANI arte della pittura. A qaesto tempo stesso, o poco più oltre, fur0110 Aglaofone, Cefisodoro, Frilo ed Evenore padre di Parrasio, di ciii- si parlerk a suo liiogo; e furono costoro assai cliiari, ma non tanto però, che essi meritino che per loro virtii o per loro opere si metta molto tempo, stndiandoci massimamente d'andaré alh eccellenza del- harte, alia quale arrecò poi gran chiarezza Apollodoro ateniese intorno airanno 345 da Poma edificata; il quale primo cominciò a dar fuori figure bellissime, ed arrecò a'quest'arte gloria grandissinia; di cui molti secoli poi «i vedeva in Asia a Pergamo una tavola entrovi mí sa- cerdote adorante, ed in un'altra uno Aiace percosso dalla saetta di Griove, di tanto eccessiva hellezza, che si dice innanzi a questa non si esser veduta opera di questa arte, la quale allettasse gli occhi de'riguardanti. VII. Per la porta da costui primieramente aperta entró Zensi di Eraclea dodici o tredici anni poscia, il quale con- dusse il pennello ad altíssima gloria, e di cui Apollodoro, quello stesso poco innanzi da noi raccontato, scrisse in versi. Parte sua, toltagli, pórtame seco Zeusi. Fece costui €011 questa arte ricchezza infinita, tale che, venendo egli alcuna volta ad Olimpia, là dove ogni cinque anni con- correva quasi tntta la Grecia a vedere i giuochi e gli spettacoli piibblici, per pompa a lettere d'oro nel man- tello portava scritto il nome suo, acció da ciascimo po- tesse esser conoscinto. Stimó egli cotante l'opere sue, che, giudicando non si dover trovare pregio pari a quelle, si mise neiranimo non di venderle, ma di donarle; e cosi donó una Atalanta al comune di Gergento,^ e Pane dio dei pastori ad Archelao re. Dipinse una Penelope, nella quale, oltre alia forma bellissima, si conoscevano ancora la pndicizia, la pazienza, ed altri bei costumi che in one- ♦ Devesi col Dati correggere questo luego deirAdriani, e leggere Almena e non Atalanta] cosi trovandosi veramente nel testo di Plinio. (Vedi lib. xxxv, cap. 9). A GIORGIO VASARI 21 sta donna si ricercano. Dipinse nn cainpione,. di qnelli che i Greci chiamano atleti, e di questa sna figura co- tanto si satisface, che egli stesso vi scrisse sotto quel ce- lebrato motto : Trove^^assi clii lo invidi, si, ma cJii il ras- semhd, no. Videsi di lui un Giove nel suo trono sedente con grandissima maesth con tutti li Dei interno; uno Er- cole nella zana che con ciascuna dalle mani strangolava un serpente, presente Anfitrione ed Almena madre, nella quale si scorgeva la paura stessa. Parva nondimeno che questo artefice facesse i capi dalle sue figure un poco grandetti. Fu contuttociò accurate molto ; tanto che do- vendo fare a neme de' Crotoniati una bella figura di fem- mina, dove parava che egli molto valesse, la quale si doveva consacrare al templo di Giunone, che egli aveva adórnate di molte altre nobili dipinture, chiese di avara comodità di vedare alcune dalle loro piti bella e meglio formate donzella ( che in quel tempo si teneva che Cro- tone, terra di Calavria, avesse la più bella gioventù del- l'une e dell'altre sesso, che al mondo si trovasse); di che egli fu tantosto compiaciuto : dalle quali egli elesse cinque le piu bella, i nomi dalle quaJi non furono poi taciuti da'poeti; come di tutte le altre bellissime, essendo state giudicate cotali da chi ne petava e sapeva meglio di tutti gli altri uomini giudicare; e dalle piti belle mem- bra di ciascuna ne formó una figura bellissima, la quale Elena voile che fosse, togliendo da ciascuna quelle che in lei giudicò perfettissimo. Dipinse in oltre di bianco solamente alcune al'tre figure molto celebrate. VIII. Aha medesima etk ed a lui nell'arte concorrenti furono Timante, Androcide, Eupompo e Parrasio, con cui (Parrasio dice) si dice Zeusi avere combattuto nel- I'arte in questo mode; che, mettendo Zeusi uve dipinte con si bell'arte, che gli uccelli a quelle volavano. Par- rasio messe innanzi un velo si sottilmente in una tavola dipinto come se egli ne coprisse una dipintura, che ere- 28 LETTERA Dl Q. B. ADRIANI denclolo Zeusi vero, non senza qnalche tema d'e.sser vinto, chiese che, levato quel velo, una volta si scoprisse la figura; ed accorgendosi dello inganno, nou senza riso, alio avversario si rese per vinto, confessando di buona coscienza la perdita sua, conciossiachè egli avesse ingan- nato gli uccelli, e Parrasio sè, cosi buon maestro. Dicesi il medesimo Zeusi aver dipinto un fanciullo, il quale poi; tava uve, alie quali volando gli augelli, seco stesso s'adi- rava, parendogli non aver dato a cotale figura intera perfezione, dicendo, se il fanciullo cosi bene fusse ritratto, come I'uve sono, gli augelli dovrebbono pur temerne. Mantennesi in Roma lungo tempo nella loggia di Filippo una Elena, e nel tempio della Concordia un Marsia le- gato, di maño del medesimo Zeusi. IX. Parrasio, come noi abbiamo detto, fiori in questa medesima età, e fu di Efeso città di Asia, il quale in moite cose accrebbe e nobilitò la pittura. Egli primo diede intera proporzione aile figure, egli primo con nuova sottigliezza e vivacità ritrasse i volti, e dette una certa leggiadria ai capelli, e grazia infinita e mai non più vista aile facce, ed a giudizio d'ogni uomo a lui si concesse la gloria del bene ed interamente finiré e negli ultimi termini far perfette le sue figure, percioccbè in cotale arte questo si tiene cbe sia la eccellenza. Dipignere bene i corpi ed il mezzo delle cose è bene assai, ma dove molti sono stati lodati; terminare e finir bene e con certa mae- stria rincbiudere dentro a se stessa una figura, questo è rado, e pocbi si sono trovati, li quali in ció sieno stati da commendare ; percioccbè Tultimo d'una figura debbe cbiudere se stesso talmente-, cbe ella spiccbi dal luogo dove ella è dipinta, e prometta molto più di quelle cbe nel vero ella ba, e cbe si vede : e cotale onore gli die- dero Antigono e Senocrate, i quali di cotale arte e delle opere della pittura ampiamente trattarono, non pure lo- dando ció in lui e moite altre cose, ma ancora celebran- A GIORGIO VASARI 29 donelo oltre a modo. Rimasero di lui e di suo stile in carte ed in tavole alcune adombrate figure, con le quali non poco si avanzarono poscia molti di cotale arte. Egli, come poco fa dicemmo, fu tale nel bene ed interamente finiré 1'opere sue, che, paragonato a se stesso, nel mezzo di loro apparisce molto minore. Dipinse con bellissima invenzione il genio, e come sarebbe a dire sotto una figura stessa la natura del popolo ateniese, quale ella era: dove in un subietto medesimo voile che apparisse il vario, riracondo, il clemente, il misericordioso, il su- X>€rbo, il pomposo, Tumile, il feroce, il timido e '1 fu- gace, che tale era la condizione e natura di quel popolo. Fu molto lodato di lui un capitano di nave armato di corazza; ed in una tavela, che era a Rodi, Meleagro, Ercole e Perseo, la quale abbronzata tre volte dalla saetta, e non iscolorita, accresceva la maraviglia. Dipinse ancora uno Archigallo;^ delia quale figura fu tanto vago Tiberio imperadore che, per potería vagheggiare a suo diletto, se la fece appiccare in camera. Yidesi di lui an- cora una balia di Creti col bambino in braccio, figura molto celebrata, e Filisco e Bacco con la Virtù appresso, e due vezzosissimi fanciullini, ne'quali si scorgeva chiara la semplicitk della età, e quella vita senza pensiero al- cuno. Dipinse inoltre un sacerdote sacrificante con un fanciullo appresso ministro del sacrificio con la grillanda e con r incensó. Ebbero gran fama due figure di lui ar- mate. Tuna che, in battaglia correndo, pareva che su- dasse, e Taltra che, per stanchezza ponendo giù l'arme, pareva che ansasse. Fu lodata anco di questo artefice me- desimo una tavola, dove era Enea, Castore e Polluce, e simigliantemente un'altra, dove era Telefo, Achille, Aga- mennone ed ülisse. Valse ancora molto nel bel par- ' L'Archigallo era il prefetto degli evirati sacerdoti di Diana, berio Efesina. Ti- pagó questo dipinto 60000 sestei'zi, cioè 1500 scudi. ( Plinio, 1. cit., lib. cap. 10 ). xxxv, £0 LETTERA DI G. B. ADRIANI lare/ ma fu superbo oltre a misura, loclando se stesso ar- rogantemente e Tarte sua, chiamandosi per soprannome or grazioso, ed ora con cotali altri nomi dicMaranti lui essere il primo, e convenirsegli il pregio di quelTarte e d'averia condotta a somma perfezione, e sopratutto d'es- sere disceso da Apollo; e che TErcole, il quale egli aveva dipinto a Lindo citta di Rodi, era tale quale egli diceva più volte essergli apparito in visione. Fu con tutto ció vinto a Samo la seconda volta da Timante, il che male agevolmente sopportò. Dipinse ancora per suo diporto in alcune picciole tavolette congiungimenti amorosi molto lascivi. X. In Timante, il quale fu al medesimo tempo, si co- nohbe una molto benigna natura: di cui intra le altre ebbe gran neme, e che è posta da quegli che insegnano Tarte del ben dire per esempio di convenevolezza, una tavola dove è dipinto il sacrificio che si fece di Ifigenia figliuola di Agamennone; la quale stava dinanzi alio al- tare per dover essere uccisa dal sacerdote, d'intomo a cui erano dipinti molti che a tal sacrificio intervenivano, e tutti aœai nel sembiante mesti, e tra gli altri Menelao zio della fanciulla alquanto più degli altri ; nè trovando nuovo modo di dolore che si convenisse a padre in cosi fiero spettacolo, avendo negli altri consumata tutta Tarte, con un lembo del mantello gli coperse il viso, quasi che esso non potesse patire di vedere si orribile crudeltà nella persona della figliuola; che cosi pareva che a padre si convenisse. Molte altre cose ancora rimasero di sua arte, le quali lungo tempo fecero fede delT eccellenza dello in- gegno e della mano di lui, come fu un Polifemo, in una picciola tavoletta, che dorme; del quale volendo che si ^ II testo di Plinio ha faecundtis artifecc, non giá facundus-, e il Dati che consultó moltissimi codici e lezioni di Plinio, sempre rinvenne faecundus ; il per- chè su questa semplice asserzione dell'Adriani non possiamo concederé a Par- rasio la Iode di bel parlatore. A GIORGIO VASARI 31 conoscesse la lunghezza, clipinse appresso alcmii satiri che con la verga loro gli misuravano il dito grosso delia mano; ed insomma in tutte 1'opere di questo artefice sempre s'intendeva molto più di quelle che nella pittura appariva; e, comecchë Tarte vi fusse grande, Tingegno sempre vi si conosceva maggiore. Bellissima figura fu tenuta di que- sto medesimo, e nella quale pareva che apparisse tutto quelle che puo far Tarte, uno di quei Semidei che gli an- tichi chiamarono Eroi, la quale poi a Boma lungo tempe fu ornamento grande del templo della Pace. XI. Questa medesima età produsse Eussenida che fu discepolo d'Aristide, pittore chiaro, ed Eupompo, il quale fu maestro di Panfilo, da cui dipoi imparó Apelle. Duró aseai di questo Eupompo una figura di gran neme rassem- hrante uno di quei campioni vincitori de' giuochi olimpici con la palma in mano. Fu egli di tanta autorità appresso i Grreci, che, dividendosi prima la pittura in due maniere. Tuna chiamata asiatica, Taltra greca, egli partendo la greca in due, di tutte ne fece tre, asiatica, sicionia ed attica. Da Panfilo fu la battaglia e la vittoria degli Ate- niesi a Fliunte dipinta, e dal medesimo, ülisse come ë descritto da Omero, in mare sopra una nave rozza a. guisa di federo.^ Fu di nazione Macedónico, ed il primo di COtale arte che fosse nelle lettere scienziato, e prin- cipalmente nelTaritmética e nella geometria, senza le quali scienze egli soleva dire non si potere nella pittura fare molto profitto. Insegnó a prezzo, në volle meno da ciascuno discepolo in dieci anni di uno talento, il qual salario gli pagarono Melanzio ed Apelle; e potë tanto Tesempio di questo artefice, che, prima in Sicione e poi in tutta la Grecia, fu stabilité che fra le prime cose, che s'insegnavano nelle scuole a'fanciulli nobili, fusse il di- ' Aristofane nel Pluto (atto ii, se. 3), fa menzione d'una storia de'figliuoli d'Ercole imploranti aiuto dagli Ateniesi centro Euristeo, dipinta da Panfilo nel Pecile, cioè nel Portico Vario. 32 LETTERA DI G. B. ADRIANI segnare, che va innanzi al coloriré; e che Tarte délia pittura si accettasse nel primo grado delle arti liberali. E nel vero, appresso i Greci sempre fa tenuta questa arte di molto onore, e fu esercitata non solo da'nobili, ma da persone onorate ancora, con espressa proibizione che i servi non si ammettessero per discepoli di cotale arte. Laonde non si trova che, në in pittura në in alcuno altro lavoro che da disegno proceda, sia alcuno nominato che fusse state servo. Ma innanzi a questi ultimi, de' quali noi abbiamo paríate, forse venti anni, si trova essere stati di qualche neme Echione e Terimanto.^ Di Echione furono in pregio queste figure : Bacco, la Tragedia e la Commedia in forma di donne, Semiramis, la quale di serva diveniva regina di Babilonia, una suocera che portava la facellina innanzi a una nuera che ne andava a marito, nel volto delia quale si scorgeva quella vergogna che a pulzella in cotale atto e tempo si richiede. XII. Ma a tutti i di sopra detti, e colore che di sotte si diranno, trapassò di gran lunga Apelle, che visse in- torno alla duodécima e centesima olimpiade, che dalla fondazione di Roma batte interno a 421 anno, në sola- mente nella perfezione delTarte, ma ancora nel numero delle figure ; perciocchë egli solo molto meglio di ciascuno e molto più ne dipinse, e più arrecò a tale arte d'aiuto, scrivendone ancora volumi, i quali di quella insegnarono la perfezione. Fu cestui maraviglioso nel fare le sue opere graziose ; ed avvengachë al suo tempo fussero maestri molto eccellenti, T opere dei quali egli soleva molto com- mondare ed ammirare, nondimeno a tutti diceva man- care quella leggiadria, la quale da' Greci e da noi ë chia- mata grazia, nelTaltre cose molti essere da quanto lui, ma in questa non aver pari. Di quest' altro si dava egli anche vanto che, riguardando i lavori di Protogene con ' II testo di Plinio (lib. xssv, cap. 10) ha Therimacus. A GIORGIO VASARl 33 maraviglia di fatica grande e di pensiero infinito, e com- inendandogli oltre a modo, in tutti diceva averio pareg- giato, e forse in alcuna parte essere da lui vinto, ma in questo senza dubbio essere da più, perciocchè Protogene non sapeva levar mai la mano d'in sui lavoro. II che, dette da cotale artefice, si vuole avere per ammaestra- mento, che spesse fiate nuoce la soverchia diligenza. Fu cestui non solamente nell'arte sua eccellentissimo mae- stro, ma d'animo ancora semplicissimo e molto sincero, come ne fa fede quelle che di lui e di Protogene dicono essere avvenuto. Dimorava Protogene nell'isola di Rodi sua patria, dove alcuna volta venendo Apelle con desi- derio grande di vedere 1'opere di lui, che le udiva molto lodare, ed egli solamente per fama lo conosceva, dirit- tamente si fece menare alia bottega dove ei lavorava, e giunsevi appunto in tempo che egli era ito altrove: dove, entrando Apelle, vide che egli aveva messo su una gran tavola per dipignerla, ed insieme una vecchia sola a guardia della bottega, la quale, demandándola Apelle del maestro, rispóse lui essere ito fuere. Demandó ella lui chi fusse quegli che ne demandava; questi, rispóse testamente Apelle; e, preso un pennello, tiró una linea di colore sopra quella tavola di maravigliosa sottigliezza, ed andó via. Torna Protogene, la vecchia gli conta il fatto, guarda egli, e, considerata la sottigliezza di quella linea, s'avvisó troppo bene ció non essere opera d'altri che di Apelle, che in altri non caderebbe opera tanto perfetta; e, preso il pennello, sopra quell'istessa d'Apelle, d'altro colore ne tiró un'altra più sottile, e disse alla vecchia: dirai a quel buono uomo, se ci torna, mostran- dogli questa, che questi è quegli che ei va cercando: e COSI, non molto poi, avvenne che tomato Apelle ed udito dalla vecchia il fatto, vergognando d'esser vinto, con un terzo colore parti quelle linee stesse per lungo il mezzo, non lasciando più luogo veruno ad alcuna sottigliezza: Vasabi Opere. — Vol. I. 34 LETTERA DI G. B. ADRIANI onde tomando Protogene, e considerato la cosa, e con- fessando d'essor vinto, corse al porto cercando d'Apelle e seco nel menò a casa. Questa tavola, senza altra dipin- tura vedervisi entro, fn tennta degna per questo fatto solo d'essor lungo tempo mantenuta viva, a fn poi, come cosa nobile, portata a Eoma, e nel palazzo degl'impera- dori veduta volentieri da ciascuno e sommamente ammi- rata, e più da coloro che ne potevano gindicare; tntto che non vi si vedesse altro che queste linee tanto sot- tili, che poi appena si potevano scorgere ; e fra le altre opere nobilissime fn tennta cara : e per quell'istesso, che entro altro non .vi si vedeva, allettava gli occhi de' ri- guardanti. Ebbe questo artefice in costume di non lasciar mai passaré un giomo solo, che almeno non tirasse una linea ed in qualche parte esercitasse l'arte sua; il che ^ poi venue in proverbio. Usava egli simihnente mettere r opere sue finite in pubblico, ed appresso star nascoso ascoltando quelle che altri ne dicesse, estimando il vulgo d'alcune cose essere buon conoscitore e poterne ben gin- dicare. Avvenne (come si dice) che un calzolaio accusò in una pianella d'una figura non so che difetto, e cono- scendo il maestro che e' diceva il vero, la racconciò. Tor- nando poi l'altro giorno il medesimo calzolaio, e vedendo il maestro avergli creduto nella pianella, cominciò a vo- 1er dire non so che di una delle gambe ; di che sdegnato Apelle, ed uscendo fuori disse, proverbiandolo, che al cal- zolaio non conveniva giudicar più su che la pianella;' il qual dette fu anco accettato per proverbio. Fu inoltre molto piacevole ed alia mano, e per questo oltre a modo caro ad Alessandro Magno, talmente che quel re lo an- dava spesso a visitare a bottega, prendendo diletto di vederlo lavorare ed insieme d'udirlo ragionare. Ed ebbe ' Nulla dies sine linea (Plinio , lib. xxxv, cap. 10). ^ Ne supra crepidam sutor (Plinio , loo. cit.). A GIORGIO VASARI ^5 tanto di grazia e di antorità appresso a questo re, ben- chë stizzoso e bizzarre, che ragionando esse alcune volte dell'arte di lui meno che saviamente, con bel modo grim- poneva silenzio, mostrandogli i fattorini che macinavano i colori ridersene. Ma quale Alessandro lo stimasse nel- Tarte si conobbe per questo, ch'egli proibi a ciascuno dipintore il ritrarlo, fuori che ad Apelle. E quanto egli 10 amasse ed avesse caro si vide per quest'altro; percioc- chë, avendogli imposto Alessandro che gli ritraesse nuda Cansace, una e la piti bella delle sue concubine, la quale esse amava molto, ed accorgendosi per segni manifesti che nel mirarla fiso Apelle s' era acceso delia bellezza di lei, concedendogli Alessandro tutto il suo affetto, glie ne fece dono, senza aver riguardo anco a lei, che, essendo amica di re e di Alessandro re, le convenne divenire amica d'un pittore. Furono alcunr che stimarono che quella Venere Dionea tanto celebrata fusse il ritratto di questa bella femmina. XIII. Fu questo Apelle molto umano inverso gli ar- tefici de'suoi tempi, ed il primo che dëtte riputazione alie opere di Protogene in Podi; perciocchë egli, come 11 più delle volte suele avvenire, tra i suoi cittadini non era stimato molto. E domandandogli Apelle alcuna volta quanto egli stimasse alcune sue figure, rispóse non so che piccola cosa; onde egli dette nome di voler per së comperar quelle che egli avea lavorato e lavorerebbe, per rivenderle per sue a prezzo molto maggiore; il che fece aprire gli occhi a'Eodiani, në voile cederle loro, se non aiTogevano al prezzo con non poco utile di quel pit- tore. E cosa incredibile quello che ë scritto di lui, cioë, che egli ritraeva si bene e si appunto le imagini altrui dal naturale, che uno di questi, che nel guardare in viso altrui fiso sogliono indovinare quello che ad alcuno sia avvenuto nel passato tempo, o debba avvenire nel futuro, i quali si chiamano fisionomanti, guardando alcun ritratto 35 LETTEEA DI G. B. ADRIANI fatto da Apelle, conobbe per quelle quanto quegli, di cui era il ritratto, dovesse vivere, o fusse vivuto. Dipiiise con un nuevo mode Antigene re, che l'une degli ecchi aveva mene, in maniera che il difette délia faccia non appa- risse ; perciecchë egli le dipinse col vise tante velte, quante bastó a celare in lui quel mancamente, nen parende però difette alcune nella figmra. Ebbere gran neme alcune imagini da lui fatte di persone che merivane : ma fra le melte sue p melte ledate opere, qual fesse la più perfetta non si sa bene. Auguste Cesare consacré al temple di Giulie sue padre quella Venere nebilissima, che per uscir del mare e da quell'atte stesse fu chiamata Anadiemene; la quale dai peeti greci fu mirabilmente celebrata ed illustrata; alla parte di cui che s'era cerretta, nen si trovó chi ardisse per mane ; il che fu grandissima gloria di cotai artefice. Egli medesime ceminció a quelli di Cee un'altra Venere, e ne fece il velte e la parte sevrana del pette, e si pensó, da quel che se ne vedeva, che egli arebbe e quella prima Dienea e se stesse in questa avan- zato. Morte cesi bella opera interreppe, në si trovó pei chi alia parte disegnata presumesse aggiugner colore. Dh pinse a quelli di Efese nel tempie della 1er Diana ancora un Alessandre Magno con la saetta di Gieve in mane, le dita del quale pareva che fussere di rilieve, e la saetta che uscisse fuer della tavela, e ne fu pagate di meneta d'ere, non a nevero, ma a misura. Dipinse melte altre figure di gran neme, e Clite familiar di Alessandre in atte di apprestarsi a battagha, con il paggie sue che gli la celata. Non bisegna demandare quante velte pergeva në in quante maniere e' ritraesse Alessandre, e Filippe sue padre, che furene infinite,' e quanti altri re e per- senaggi grandi ei dipignesse. In Rema si vide di lui Ca- store e Pelluce con la Vitteria, ed Alessandre trienfante ' È noto corne Alessandro non voleva essere ritratto in pittura che dal solo Apelle, in bronzo dal solo Lisippo, e nelle gemme dal solo Pirgotele. A GIOEGIO VASARI 37 con r imagine clella Guerra con le mani legate dietro al carro ; le cpali due tavole Augusto consacrò al suo Foro nolle parti più onorate di quelle, e Claudio poi, cancel- landone il volto di Alessandro, vi fece riporre quelle d'Au- gusto. Dipinse uno Free ignudo, quasi in lesse quest'opera vo- gareggiare con la natura. Dipinse ancora a prova con certi altri pittori un cavallo ; dove temendo del dizio gin- degli uomini, ed insospettito del favore inverse de'giudici i suoi avversarj, chiese che se ne stesse al dizio gin- de'cavalli stessi; ed, essendo menati i cavalli d'at- torno a'rifcrattidi ciascuno, ringhiarono a quel d'Apelle solamente; il qual giudizio fu stimato verissimo. Ritrasse Antigone in corazza con il cavallo dietro, ed in altre ma- niere moite: e di tutte le sue opere, quelli che di cesi fatte opere s'hitosero, giudicarono l'ottima essore un An- tigono a cavallo. Fu bella anco di lui una Diana, seconde che la dipinse in versi Omero; e pare che il dipintore in questo vincesse il poeta. Dipinse inoltre con nuevo modo e bella invenzione la Calunnia, prendendone que- sta occasione. Era egli in Alessandria in corte di Tolomeo re, e per la virtù sua in molto favore. Ebbevi dell'arte stessa chi l'invidiava; e cercando di farlo mal capitare, l'accusò di congiura contre a Tolomeo, di cosa, nella quale non solo non aveva colpa veruna Apelle, ma ne anco era da credere che un tal pensiero gli fusse mai caduto nel- l'anime. Fu nondimeno vicino al perderne la persona, credendo ció il re scioccamente : e porció, ripensando egli seco stesso al pericolo, il quale aveva corso, voile mostrare con Tarte sua che, e come, pericolosa fosse la Calunnia. E cosï dipinse un re a sedero, con orecchie lunghissime, e che porgeva innanzi la mano, da ciascuno de'lati del quale era una figura, il Sospetto e Tlgno- ranza. Dalla parte dinanzi veniva una femmina molto bella e bene addobbata con scinbiante fiero ed adirato ; e con essa con la sinistra teneva una facellina accesa e 38 LETTERA DI G. B. ADRIANI con la destra strascinava per i capelli un doloroso gio- vane, il quale pareva che con gil occlii e con le mani levate al cielo gridasse misericordia, e chiamasse li Dei testimonio della vita sua di nimia colpa macchiata. per Guidava costei una figura pallida nel volto e molto sozza, la quale pareva che pure allora da lunga infermita si sollevasse; questa si giudicò che fusse Tlnvidia. Dietro alia Calunnia, come sue serventi e di sua compagnia, seguivano due altre figure, seconde che si crede, che ras- sembravano ringanno e T Insidia. Dopo queste era la Penitenza atteggiata di dolore ed involta in panni bruni, la quale si batteva a pahne, e pareva che, dietro guar- dandosi, mostrasse la Verita in forma di donna mode- stissima e molto contegnosa. Questa tavela fu molto le- «data, e per la virtù del maestro, e per la leggiadria delfarte, e per la invenzione della cosa, la quale può molto giovare a coloro, li quali sono proposti ad udire le moite accuse degli uomini. Furono del medesimo artefice altre opere celebrate dagli scrittori, le quali si lasciano andaré che per brevità, essendosene raccontate forse più non bisognava. Trovó nelharte moite cose e molto utili, le quali giovarono molto a quelli che dipoi le appara- rono. Questo non si trovó giammai dopo lui chi lo sa- pesse adoperare; e questo fu un color bruno, o vemice che si debba chiamare, il quale egli sottilmente disten- deva sopra Topre già finite; il quale con la sua river- berazione destava la chiarezza in alcuni dei colori e li difendeva dalla polvere, e non appariva se non da chi ben presse il mirava; e ció faceva con isquisita ragione, acciocchè la chiarezza d'alcuni accesi colori meno offen- desse la vista di chi da lontano, come per vetro, li ri- guardasse, temperando ció col più e col meno, seconde giudicava 'convenmsi. XIV. Al medesnno tempo fu Aristide tebano, il quale, come si dice, fu il primo che dipignesse ranime e le pas- \ A GIORGIO VASARI sioni di quelle. Fu alquanto più rozzo nel coloriré. Ebbe gran nome una tavola di cestui, dove era la strage d'una fra terra ritratto, presa per forza, una moriva la di ferite, madre, ed quale appresso aveva il si trae figliuolo che car- pone va alia poppa, e nella madre che d figliuolo pareva temenza non bevesse con il latte il già morta. di lei Quest sangue a tavola, estimándola portare in Macedonia bellissima, fece a Pella sua patria Alessandro gno. Dipinse Ma- ancora la battaglia di Alessandro mettendo con i in una stessa tavola Persi, cento pattuito figure, avendo con Mnasone prima principe degli Elatensi ciascuna.^ cento per Di mine questo medesimo si tare altre potrebbono raccon- figure molto chiare, le quali ed altrove a Roma furono ed molto in pregio assai tempo, e fra uno informo, l'altre lodato infinitamente : tanto in perciocchë ei valse questa arte, che si dice il re Attalo aver perato com- una delle sue tavole cento talenti. ^ XV. Visse al medesimo tempo e fiori dito de'Rodiani, di Protogene sud- cui alquanto di sopra si molto nel disse, principio del povero suo mestiere, e di cui si egli dice che aveva da prima esercitato la pittura in cose e quasi aveva lavorato basse, a opera, dipignendo le fu diligente navi; ma molto, e nel dipignere tardo e nosi bene ne in fastidioso, esso si soddisfaceva. R vanto delle sue porta lo laliso, il quale opere insino al tempo di imperadore si guardava Vespasiano ancora a Roma nel Pace. Dicono templo delia che, nel tempo che egli faceva cotale non mangiò altro che opera, lupini medesimo dolci,''sodisfacendo a un tempo con essi alia fame ed alia sete per mantenere ' Sarebbero diecimila scudi: ma il testo di Mnasone Plinio ha fu minas eziandio üenas. piú Questo generoso con ciascuna a cui diede figura Asclepiodoro, dei cento dodici Dei mine hb. maggiori che gli per dipinse lo stesso xxxv, 10^. Aristide. cap. Potrebbe (Plinio non pertanto dubitarsi , nel che non errore sia testo incuria occorso per degli «ta amanuensi, sembrandoci qualche somma. veramente enorme que- ^ II catalogo dei dipinti di Aristide puó leggersi in Plinio, loe. cit. 40 LETTEEA DI G. B. ADRIANI ranimo ed i sensi pin saldi e non vinti d'alcun diletto. Quattro volte mise colore sopra colore a questa opera, riparo centro alla vecchiezza e schermo contre al tempo, acció consumandosi Tuno succedesse l'altro di mano in mano. Vedevasi in questa tavela stessa un cane di ma- in ravigliosa bellezza fatto dair arte ed insieme dal case cotai modo. Yoleva egli ritrarre interno alla bocca del cane quella schiuma, la quale fauno i cani faticati ed an- santi, ne poteva in alcun modo entre sodisfarvisi ; ora scambiava pennello, ora con la spugna scancellava i ce- lori, ora insieme gli mescolava, che arebbe pur volute che ella uscisse delia bocca dell'animale, e non che la di ñiora appiccata, në si contentava in modo ve- paresse, Tanto che, avendovi faticato interno runo. molto, në meglio l'ultiina volta che la prima, con istizza riuscendogli di trasse la spugna che egli aveva in mano piena quei colori nel luego stesso dove egli dipigneva. Maravighosa cosa fu a vedere : quelle, che non aveva potuto fare con tanto studio e fatica l'arte, lo fece il caso in un tratto solo. Perciocchë quelli colori vennero appiccati interno alia bocca del cane di maniera, che ella parve proprio schiuma che di bocca gli uscisse. Questo stesso dicono avvenuto a Neacle pittore nel fare medesimamente essere alia bocca d'un cavallo ansante, o avendolo la schiuma Protogene, o essendogli avvenuto il caso apparato da medesimo. Questa figma di Protogene fu quella che di- fese Redi da Demetrio re, il quale fieramente con grande esercito la combatteva/ Perciocchë, potendo agevolmente prendere la terra dalla parte dove si guardava questa tavola, che era luogo men forte, dubitando il re che la non venisse arsa nella furia de'soldati, volse 1'impeto dell'oste altrove, ed intanto gli trapassò l'occasione di vincere la terra. Stavasi in questo tempo Protogene in villetta quasi sotto le mura della città, cioë dentro una sua com- alie forze di Demetrio e nel suo campo; në per A GIORGIO VASARI 41 "battere che si facesse, ne per pericolo che e' portasse lasciò mai di laverare. E chiainato una fiata dal re, e domandato in su che egli sifidasse, che cesi gli pareva star sicuro fuer delle mura, rispóse: perciocchë egli sa- peva molto bene che Demetrio aveva guerra con i Eo- diani, e non con le arti. Fece Demetrio, piacendogli la risposta di qnesto artefice, guardare ch' e' non fosse da alcuno noiato o offeso. E, perche egli non si avesse a scio- perare, spesso andava a visitarlo; e, tralasciata la cura delle armi e dell'oste, moite volte stava a vederlo di- pignere fra i romori del campo ed il percuotere delle mura. E quinci si disse poi che quella dipintura, che egli allora aveva fra mano, fu lavorata sotto il coltello. E questo fu quel Satmo di maravigliosa bellezza, il quale, perciocchë egli appoggiandosi a una colonna si riposava, ebbs nome il Satire riposantesi; il quale, quasi nulle altro pensiero le toccasse; mirava fiso una sampogna che egli teneva in mano. Sopra quella colonna aveva anco quel maestro dipinta una quaglia, tanto pronta e tanto bella, che non era alcuno che senza meraviglia la riguar- dasse: alia quale le dimestiche tutte cantavano, invitan- delà a combattere. Moite altre opere di questo artefice si lasciano indietro, per andaré agli altri che ebbero di pregio cotale arte. Era i quali fti al medesimo tempo Asele- piodoro, il quale nella proporzione valse un mondo; e però da Apelle era in questo maravigliosamente lodato. Ebbe da Mnasone principe degli Elatensi, per dodici Dei dipintigli, trecento mine per ciascuno. Era questi mérita d'esser raccontato Mcomaco figliuolo o discepolo di Ari- stodemo, il quale dipinse Proserpina rapita la daPlutone; qual tavola era in Eoma nel Campidoglio sopra la cappella delia Gioventù. E nel medesimo luogo un'altra pur di sua mano, dove si vedeva una Vittoria, la in quale alto ne portava un carro insieme con i cavalli. Dipinse anco Apollo e Diana e Eea madre degli Dei sedente sopra 42 LETTERA DI G. B. ADRIANI ïin leone. Medesimamente alciine giovenche con alquanti satiri appresso in atto di volere involándole trafagar via, ed una Scilla che era a Roma nel teinpio della Pace. Niuno di lui in questa arte fu più presto di mano : e si dice che, avendo to!to a dipignere an sepolcro, che faceva fare a Teleste poeta Aristrato prencipe de'Sicionj, in termine di non molto tempo, ed essendo venato tardi alf opera, e cracciandosene e minacciandolo Aristrato; egli in po- chissimi giorni lo dette compito con prestezza e destrezza maravigliosa. Discepoli saoi farono Aristide fratello sao, ed Aristocle figliaolo, e Filosseno d' Eretria; di cai si dice essere stata ana tavola fatta per Cassandro re, entrevi ritratta la battaglia d'Alessandro coniPersi; la qaal fa tale, che non mérita d'essere lasciata indietro per al- caA altra. Fece molte altre cose ancora, imitando la pre- stezza del maestro, e trovando naove vie e più brevi di dipignere. A qaesti si aggiangono híicofaiie gentile e pa- lito artefice, e Perseo discepolo d'Apelle, il quale molto fa da meno del maestro; Farono al medesimo tempo al- cani altri, che, partendosi da qaella maniera grande di qaesti detti di sopra, esercitarono Tingegno e Tarte in cose molto pia basse, ma che farono tenate in pregio assai, nè meno stimate delle altre. Tra i qaali fa Pireo, che dipigneva e ritraeva botteghe di barbieri, di cal- zolai, taverne, asini, lavoratori, e cosi fatte cose, onde egli trasse anco il soprannome, che si chiamava il dipin- tore delle cose basse; le qaali nondimeno, per essere la- vorate con bella arte, non erano stimate meno che le magnifiche e le onorate. Altri fa che dipinse molto bene le scene delle commedie, e da qaesto ebbe nome; ed altri altre diverse cose, variando assai dalli gravi e celebrati pittori, non senza grande utile loro, e diletto altrai. XVI. Fa anco poi alTetà di Augusto an Ludio, il primo che cominciasse a dipignere per le mura con pia- cevolissimo aspetto ville, logge, giardini, spalliere fron- A GIORGIO VASARI 43 zute, selve, boschetti, vivai, laghi, riviere, liti e voli piace- imagini di viandanti, di navigaiiti, di vetturali, ed altre simili cose in bella prospettiva,^ altri che cacciavano, pescavano, vendemmiavano, feminine che fra correvano, e, queste incite piacevolezze e cose da ridere mescolate.^ Ma e'pare che non sieno stati celebrati di qnesti cotali alcnni, tanto quanto qnegli antichi, i quali in tavole so- lamente dipinsero, e perciò è in grandissima riverenza Tantichith; perciocchë quei primi artefici non vano Tarte adopera- loro se non in cose che si potessero tramu- tare, e fiiggire le guerre e gli incendj e Taltre ed rovme; agli antichi tempi in Grecia, në in pubblico në in private, non si trova mura dipinte da nobili artefici. Pro- togene visse in una sua casetta con poco d'orto senza ornamento alcuno di sua arte. Apelle niuno muro dipinse giammai. Tutta Tarte di questi solenni maestri si dava alii comuni, ed il pittor buono era cosa tato. pubblica Ebbe ripu- alcun nome poco mnanzi alia età d'Augusto un Arellio, il quale fu tanto dissoluto nelT amere delle femmine, che mai non fu senza; e perciò dipignendo Dee, sempre vi si ricpnosceva drento alcuna delle da lui le amate, e meretrici stesse. XVII. Tra questi detti di sopra non si vuol lasciar in- dietro Pansia Sicionio, discepolo di quel Panfilo che fu anco maestro d'Apelle; il quale pare che fosse il che primo cominciò a dipignere per le case i palchi e le volte: il che innanti non s'era usato. Dipigneva cestui per lo ' Sembra che contro di Ludio fossero dirette le lagnanze di Vitruvio e di Luciano, su 1' uso invalso presso i Romani in quella età di alia preferiré il pittura storica; paese dappoichè egli fu il primo che in Roma coltivasse con buono successo questo genere di pittura. ^ Plinio ci ha conservato una iscrizione apposta ad un dipinto di Ludio nel tempio di Giunone in Ardea, che ne piace riportare: Dignis digna loca picturis condecoravit, Reginae JunonLs supremae coniugis teraplum, Marcus Ludius Elotas .¡Etolia oriundus, Quem nunc et post semper ob artem banc Ardea laudat. (Lib. XXXV, cap. 10). 44 LETTERA DI G. B. ADRIANI più tavolette picciole, e massimamente fanciulli; il che i suoi avversarj clicevano farsi da lui, perciocchè quel modo di lavorare era molto lungo, onde egli, per acqui- stare nome di sollecito e presto dipintere, quando voglia o bisogno gliene venisse, fece in un giorno solo una ta- vola, la quale da questo fu chiamata il lavoro d'un solo giorno, entrovi un fanciul dipinto molto bello. Fu inna- morato costui in sua giovanezza d'una fanciuïletta di sua terra che faceva grillande di fieri, e recò nell'arte una infinità di fieri di mille maniere, quasi facendo con lei, cui egli amava, a gara; ed in ultime dipinse lei con una grillanda di fieri in mano, la quale ella tesseva: e questa tavela fu stimata di grandissime prezzo, e da colei, che v'era entro dipinta, ebbe neme la Grillandatessente; il ritratto della quale, di mano d'un altre buen maestro, comperò Lucullo in Atene due talenti. Fece questo arte- fice medesimo alcune altre opere molto magnifiche, come fu un sacrificio di buoi, del quale se ne adornó in Eoma la loggia di Pompeo Magno; aH'eccellenza della quale opera ed aH'invenzione si seno provati d'arrivare molti, ma niuno vi aggiunse giammai. Egli primieramente, vo- leudo mostrare con bella arte la grandezza d'un bue, lo dipinse non per lo lungo, ma in iscorcio ed in tal ma- niera, che la lunghezza vi appariva giustissima; e poi, conciossiache tutti coloro che vogliono far parere in piano alcuna cosa di rilievo, adoperano color chiaro e bruno mescolandoli insieme con certa ragione e proporzione; egli lo dipinse tutto di color bruno, e del medesimo fece apparir l'ombre del corpo: grande arte certamente, nel piano far parere le cose di rilievo, e nel rotto intere. Yisse costui in Sicione, che lungo tempo fu questa terra quasi la casa della pittura, ed onde tutte le nobili ta- vole, che molte ve ne ebbe per debito del comune pe- gnorate, furono poi pórtate a Eoma da Scauro edile per adornare nella sua magnifica festa il Foro romano. Dopo A GIORGIO VASARI 45 questo, Pausia Eufranore da Ismo avanzó tutti gil altri di sua eta/ e visse interno agli anni della olinipiade 124, che batte interno air anno di Rema 430, avvenga che egli laverasse anco in marme, in métallo, ed in argente ce- lessi ed altre figure; che fu moite agevele ad miprendere qualunche si fusse di queste arti, ma bene le esercitava con melta fatica: ed in tutte fu uguahnente ledate. Ebbe vante d'essere il prime che alie imagini degli erei desse tale maesta, quale a quelli si conviene; e che nelle sue figure usasse ettimamente le preperzieni, cemecchë nel fare i cerpi allé sue figure paresse un poce settile, e ne' capi e nelle mani maggier del devere. L'opere di lui più ledate sene una battaglia di cavalieri, dedici Dei, un Tesee, sepra il quale soleva dire, il sue essere sciute pa- di carne, e quel di Parrasie di rose. Vedevasi del medesime a Efese una tavela moite nebile deve era il IJlisse, quale, fingendesi stelte, metteva a giege un bue ed un cavalle, e Palamede che nascendeva la spada in un fascie di legne. XVin. Al medesime tempe fu Ciclia, una tavela di cui contenente gli Argenauti compere Ortensie eratere, credo, quarantaquattre talenti, ed a questa sola a Tu- scole sua villa fabbricè una cappelletta. Di Eufranere fu discepele Antidote, di cui si diceva essere in Atene une con le scude in atte di cembattere, une che giecava alla lotta, une che suenava il fiante, ledati eccessivamente. Pu cestui per së chiare assai, ma moite più per essere state sue discepele Mcia Ateniese, quegli che cesi bene dipinse le feminine, ed il chiare e le scure nelle sue cesi opere bene rassembrò, di maniera che le opere di lui tutte '* Ignoriamo se di questo seconde Pausia, ovvero del primo, intenda Pausania favellare ove scrive, che in Epidauro, in un edificio lapio, presso il di Escu- dipinse tempio un Amore, il quale, gittato l'arco e gli strali, sonava la ■''i ritrasse lira; e ugualmente una giovane ebra, la quale bevendo ad un vaso di nñetteva vetro in quelle il suo volto. {Descript. Graeciae, lib. n, cap. 27). 46 LETTERA DI G. B. ADRIAEI parevano nel piano rilevate, nel che egli si sforzò e valse molto. L'opere di costni molto chiare fiirono una Nemea, la quale a Eoma da Sillano fu portata d'Asia; medesi- mámente un Bacco, il quale era nel templo delia Con- cordia, uno lacinto, il quale Cesare August., piacendogli oltre modo, portó seco a Eoma d'Alessandria, poichè esso l'ebbe presa; e perciò Tiberio Cesare nel templo di lui 10 consacrò a Diana. A Efeso dipinse il sepolcro molto celebrato di Megalisia sacerdotessa di Diana; in Atene r inferno d' Omero che nella greca lingua si cbiama bíecia, 11 quale egli dipinse con tanta attenzione d'animo, e con tanto affetto, che bene spesso demandava i suoi fami- liari, se egli quella mattina aveva desmato, o no; la qual pittura, potendola vendere, alcuni dicono a Attalo re, ed altri a Tolomeo, sessanta talenti, volle piuttosto farne dono alia patria sua.^ Dipinse inoltre figure molto mag- giori del naturale, ció furono Calipso, lo, Andromeda, Alessandro che a Eoma si vedeva nella loggia di Pompeo, ed un'altra Calipso a sedere. Fu nel ritrarre le bestie maraviglioso, ed i cani principalmente. Questi è quel Niela, di cui soleva dire Prassitele, domandato qual delle sue figure di marmo egli avesse per migliore: quelle, a cui Niela aveva posto 1' ultima mano : tanto dava egli a quella ultima politura, con la quale si finiscono le statue. Fu giudicato pari a questo Niela, e forse maggiore, uno Atenione Maronite, discepolo di Glaucone da Corinto, tutto che nel coloriré fusse alquanto più austero, ma tale nondimeno che quella severitb dilettava, e che nell'arte di lui si mostrava molto sapere. Dipinse nel templo di Cerere Fleusina nell'Attica Filarco, ed in Atene quel ' Il Winkelmann scrive, la Necromanzia di Omero cosi detta ^ perché rappre- il principale del libro dell' Odissea che ha tal titolO; cioè il senta tratto colloquio di Ulisse col cieca indovino Tiresia nell'inferno. {^Storia deWArte^ ecc., vol. II, lib. ix, cap. 3). La stessa storia, per autorità di Pausania, fu ripetutamente di- pinte da Polignoto in Delfo. (Loc. cit., lib. x, cap. 28). ^ Plinto , lib. xxxv, cap. 11. A GIORGIO VASAR: 47 gran numero di femmine, che in certi sacrifizj anclavano a processione con canestri in capo. Diedegli gran nome un cavallo dipinto, con uno che lo menava; e medesi- mámente Achille, il quale, sotto abito femminile nascoso, era trovato da Ulisse; e, se egli non fusse morto molto giovane, non aveva pari alcuno. XIX. Fu anco quasi a questa età medesima in Atene Metrodoro filosofo insiememente e pittore, e grande nel- l'una e neir altra professione, di maniera che, poichè Paolo Emilio ebbe vinto e preso Perse re di Macedonia, chiedendo agli Ateniesi che gli procacciassero un filosofo che insegnasse a' figliuoli, ed un pittore che gli adornasse il trionfo, gli Ateniesi di común parere gli mandarono Metrodoro solo, giudicandolo sufficiente all'una cosa ed air altra : il che approve Paolo medesimo. Fu anco poí al tempo di Giulio Cesare dittatore uno Timomaco di Bi- sanzio, il quale dipinse uno Aiace ed una Medea, le quali tavole furono vendute ottanta talenti. Di questo mede- simo fu molto lodato uno Oreste ed una Ifigenia, e Lecito, maestro di esercitare i giovani nelle palestre, ed ancora alcuni Ateniesi in mantello, altri in atto di altri aringare ed a sedere: e, comecche in tutte queste sii lodato opere molto, pare nondimeno che l'arte lo favorisse molto più nel Gorgone. XX. Di quel Pausia detto di sopra fu figliuolo e di- scepolo Aristolao pittore molto severo, del quale furono opere Epaminonda, Pericle, Medea, la Teseo il Virtù, ed ritratto della plebe di Atene, ed un sacrificio di buoi. Ebbe ancora a chi piacque Menocare di istesso discepolo quello Pausia, la virtù e diligenza del quale intendevano solamente coloro che erano dell' arte. Fu rozzo nel colo- ïire, ma abbondante molto. Tra le opere di cui sono ce- lebrate queste: Esculapio con le figliuole, Igia, e Pane, Egle e quella figura neghittosa che chiamarono che è Ocno, un povero uomo che tesse una fuñe di stramba, ed 48 LETTERA DI G. B. ADRIANI un asino drieco che la si mangia, non accorgendosene egli. E questi, che noi insino a qui abbiamo raccontati, furono di cotale arte tenuti i principali. Aggiugneran- nosi alcuni altri che si scordarono, appresso, non già per ordine di tempo, non si potendo rinvenire Teta loro cosi appunto: corne Aristoclide, il quale ornó il tempio del Deifico Apollo, ed Antifilo, di cui è inolto lodato un fanciullo che soffia nel fuoco, tale che tutta una stanza se ne alluma : medesimamente una bottega di lana, dove :si veggono molte feminine in diverse maniere sollecitar oiascuna il suo lavoro; un Tolomeo in caccia e un Sátiro bellissimo con pelle di pantera indosso. Aristofane ancora è in huon nome per un Anceo ferito dal cignale, con Astipale dolente oltra modo, ed inoltre per una tavela entrevi Priamo, la semplice Credenza, Tlnganno, Uhsse € Deifoho. Androhio ancora diphasé una Scilla mostro ma- rino che tagliava T ancore del navilio de'Persi; Artemone una Danae in mare portata da' venti, ed alcuni corsali, i quali con istupore la rimiravano; la regina Stratonica, un Ercole ed una Deianira. Ma oltre a modo furono di lui chiare quelle che erano in Roma nelle logge di Ottavia; ció furono un Ercole nel monte Eta, che nella pira ardendo lasciando in terra Tumano, era ricevuto in cielo nel di- e vino consesso di comun parère degli Dei; e la storia di Net- tuno e d'Ercole interne a Laomedonte. Alcidamo anco di- pinse Diosippo che ne' giuochi olimpici alla lotta insieme e aile senza pugna aveva vinto, come era in proverbio, polvero. Uno Cresiloco, il quale fu discepolo d'Apelle, ritrasse Giove; e nel vero con poca riverenza in atto di voler partorire Bacco, lagnantesi a guisa di femmina fra le mani delle levatrici, con molte delle Dee interno, le quali dolenti e lacrimanti ministravano al parto. Uno Cleside, parendogli aver ricevuto ingiuria da Stratonica regina, non essendo state da lei accettato come pareva se gli convenisse, dipinse il Diletto m forma di femmina A GIORGIO VASARI 49 insieme con nn pescatore, che si diceva essere amato dalla regina, e lasciò questa tavela in Efeso in puhhlico, e, noleggiata una nave, con gran prestezza favorito dai venti fuggi via. La regina non voile che ella fosse quindi levata, comecchë questo artefice I'avesse molto bene rassemhrata in quella figura, ed il pescatore altresi ri- tratto al naturale. Nicearco dipinse Venere e Cupido fra le Grazie, ed uno Ercole mesto in atto di pentirsi della pazzia. Nealce dipinse una battaglia navale nel Mlo fra i Persi e gli Egizj, e, perciocchë le acque del Mlo per la grandezza di quel fiume rassemhrano il mare, accioc- chë la cosa fosse riconosciuta, con bel tróvate e grazia meravigliosa, dipinse alia riva uno asinello che heveva e poco più oltre un gran cocodrillo in aguato per pren- derlo. Filisco dipinse una hottega d'un dipintore, con tutti i suoi ordigni, ed un fanciullo che soffiava nel fuoco. Teodoro un che si soffiava il naso ; il medesimo dipinse Oreste che uccideva la madre ed Egisto adultero, ed in più tavole la guerra Troianh, la quale era in Koma nella loggia di Filippo, ed una Cassandra nel templo della Con- cordia. Leonzio dipinse Epicure filosofo pensóse, e D eme- trio re. Taurisco, uno di coloro che scagliavano in aria il disco, una Clitennestra, uno Polinice, il quale si apprestava per tornare nello state, ed un Capaneo. Non si deve lascia- re indietro uno Erigono macinatore di colorí nella bottega di Nealce, il quale salse in tanta eccellenza di quest'arte, che non solo egli fu di gran pregio, ma di lui ancora ri- mase discepolo quel Pausia, di cui di sopra abbiamo dette che fu molto chiaro nel dipingere. Bella cosa ë ancora, e degna d'essere raccontata, che molte opere ultime e non finite di cotali maestri furono più stimate e più te- ñute care e con maggior placero e meraviglia riguardate, che le perfettissime e l'intere : quale fu l'Iride di Aristide, i Gemelli di Nicomaco, la Medea di Timomaco e la Ve- nere di Apelle, di cui disopra dicemmo. Queste tavole fu- Vasari , Opere. — Vol f. 4 LETTERA DI G. B. ADRIANI ^0 roiio in grandissimo pregio e sommamente dilettàrono, vedendosi in loro, per i disegni rimasi, i pensieri delPar- tefice; e qaello che di loro mancava, con un certo pia- cevol displaceré, più si aveva caro che il perfetto di moite belle e da huon maestri opere compiutamente fornite. E questi voglio che insino a qui, fra gli altri quasi infiniti che in cotale arte fiorirono, mi basti avere raccontati, li quali per lo più o furono Greci, o delle parti alla Gre- cia vicine/ Ebbero ancora di cotale arte pregio alcune donne, le quali di loro ingegno e maestria abbellirono Tarte del ben dipignere; infra le quali Timarete, figliuola di Micone pittore, dipmse una Diana, la quale in Efeso fu fra le moite e molto nobili ed antiche tavole celebrata ; Irena figliuola e discepola di Gratino dipinse una fan- ciulla nel templo di Cerero in Attica; Alcistene uno sal- tatore, Aristarte, figliuola e discepola di ISiearco, uno Esculapio. Marzia di Marco Varrone nella sua giovanezza adoperò il pennello e ritrasse figure, massimamente di femmine, e la sua istessa dallo specchio; e, secondo si dice, niuna mano menò mai più veloce pennello, e tra- passò di gran lunga Sopilo e Dionisio pittori délia sua età, i quali di loro arte molti luoghi empierono ed adornarono. Dipinse anco una Olimpiade, delia quale non rimase altra memoria se non cfr ella fu maestra di Antobolo. XXI. Fu in qualche pregio anco appresso i Romani cotale arte, poseía che i Fabj onorati cittadini non sde- gnarono aver soprannome il Dipintore. Tra i quali il primo, che cosi fu per soprannome chiamato, dipinse il ^ templo della Salute T anno 553 dalla fondazione di Roma, ' Un lungo catalogo può vedersi in Plinio, al lib. xxxv, cap. 16. Ricorderemo solo fra i naolti, Agatarco, il quale dipinse la casa di Alcibiade; un Aristo- un il ritrasse Alcibiade e Nemea; un Androclide Ciziceno, al quale dalla fonte, quale città di Tebe fu ingiunto di ritrarre alcune imprese patrie. Di costoro è fatta men- zione in Plutarco nella vita di Alcibiade, § xiii; e di Pelopida, § xix. ^ Crediamo sia un errore sfuggito all'Adriani. Nell'edizione di Plinio da noi consultata si ha Tanno cccci- A GIOEGIO VA SARI 51 la quale dipintura duró oltre alPetk di molti imperadori, ed insino che quel tempio fu abbruciato. ^ Fu ancora in qualche nome Pacuvio poeta, dalla cui mano fu adorno il tempio di Ercole nella piazza del Mercato de' buoi. Cestui, come si diceva, fu figliuolo d'una sorella di En- nio poeta, e fu chiara in lui cotale arte molto più per essere stata accompagnata dalla poesia. Dopo costero non trovo io in Boma da persone nobili cotale arte essere stata esercitata, se gia non ci piacesse mettere in que- sto numero Turpilio cavalier romano, il quale a Verona dipinse molle cose, le quali molto tempo durarono. La- vorava cestui con la sinistra mano, il che di niuno altro si sa essere avvenuto ; di cui opera furono molto lodate alcune picciole tavolette. Aterio Labeone ancora, il quale era state pretore ed aveva tenuto il governo delia vincia pro- di ISTarbona, dipinse. Ma questo studio negli ultimi tempi appresso i Romani era venuto in dispregio e repu- tato vile. ® Non voglio però lasciar di dire quelle che di cotale arte giudicassero i primi maggior cittadini di Roma. Perciocchë a Q. Pedio, ñipóte di quel Pedio che era state consolo ed aveva trionfato, e che da Griulio Cesare nel testamento era state lasciato in parte erede con Augu- sto, essendo nato mutolo, fu giudicato da Messala, quel grande oratore, della cui famiglia era Tavela di quel fan- ciullo mutolo, che si dovesse insegnare a dipignere (il che fu confermato da Augusto); il quale saliva di cotale arte in gran nome, se in breve non avesse finite i giorni suoi. Pare che T opere di pittura cominciassero in Roma ' Cioè sotto rimperio di Claudio. Valerio Massimo deride G. Fabio, egii perché uomo consolare, e che piú volte avea trionfato, volgesse l'ingegno e la mano alia pittura, che egli per disprezzo appella sórdido studio. ^ (Lib. viii, Che cap. 14). veramente i Romani tenessero a vile la pittura, come dice si l'Adriani, prova dalla citata autorità di Valerio Massimo, e dal sapersi che i Romani lasciavano quest' arte agli schiavi ; onde lagnavasi Plinio a' suoi di che la non est pittura spectata lionestis manibus (lib. xxxv, cap. 4), laddove i Greci era vietato presso agli schiavi esercitarla. LETTERA DI G. B. ADRIANI ad essere in pregio al tempo di Valerio Massimo, qnando Messala il primo pose nella curia di Ostilio, dove si stri- gneva il senate, una battaglia dipinta, nella quale egli aveva in Cilicia vinto i Cartaginesi e lerone re Tanno dalla fondazione di Roma 490. Fece questo medesimo poi L. Scipione, il quale consacrò nel Campidoglio una tavela, dove era dipinta la vittoria cbe egli aveva avuto in Asia. E si dice che il fratello Scipione Affricano l'ebb'e molto a maie, conciofussecosachë in quella battaglia medesima il figliuol di lui fusse rimaste prigione. Giovò molto al- r essere fatto console a Ostilio Mancino il mettere in pubblico una simil tavela, dove era dipinto il sito e l'as- sedio di Cartagine ; che se le arrecò a grande ingiuria il seconde Affricano, il quale consolo l'aveva soggiogata; perciocchë Mancino stava presente, mostrando al pópele, che desiderava di intenderle, cosa per cosa, e questa pub- blica cortesia, come noi diciamo, ad ottenere il somme magistrate gli fece gran favore. Fu dipoi molti anni l'or- namento della scena di Appio Pulcro tenuto meraviglioso, il quale si dice che fu di si bella prospettiva, che le cor- nacchie, credendolo vero, al tetto dipinto volavano per sopra posarvisi.' Ma le dipinture forestiere, per quanto io ritraggo, allora cominciarono ad essere care e tenute maravigliose, quando L. Mummio, il quale per aver vinta I'Acaia, parte della Grecia, ebbe soprannome 1'Acalco, consacré al templo di Cerero una tavela di Aristide; per- ciocchë nel vendere la preda, avendo tenuto poco conto di molte cose nobili, ed udendo dire che Attalo re 1'aveva incantata un gran numero di denari, maravigliandosi del pregio, ed estimando per cagione d'esso che in quella tavela dovesse essere alcuna virtù, forse a lui nascosa, ' Oltre i citati pittori romani, si potrebbero ricordare eziandio un Amulio dei che dipinse la Accio casa aurea di Nerone; Gornelio Pino ed Prisco, quali da erano le pitture nel templo della Virtù e dell'Onore, restaúrate Vespasiano; non che un Arellio, che fieri alcun tempe prima di Augusto. A GIOEGIO VASAEI 53 voile che la vendita si stornasse, dolendosene e lamen- tandosene molto quel re. E qiiesta tavola, delle forestiere, si crede che fasse la prima che si recasse in puhblico. Ma Cesare dittatore dipoi diede loro grandissima riputa- viione, avendo, oltre a moite altre, consacratx) nel tem- pio di Yenere, origine di sua famiglia, un Aiace ed una Medea, figure hellissime. Dopo lui, Marco Agrippa, piut- tosto rozzo di simili leggiadrie che altrimenti, comperò da quelli di Cizico di Asia due tavole, Aiace e Venere, e le mise in pubhlico, ed egli stesso con lungo e bel ser- mone s'ingegnò di persuadere, acciocchè ciascuno ne potesse prendere diletto, e che più se ne adomasse la citth, che tutte cotali opere si dovessero recare a comune; ü che era molto meglio che, quasi in perpetuo esilio, per i contadi e nelle ville de'privati lasciarle invecchiare e perdersi. Oltre a queste poi. Cesare Augusto nella più bella ed ornata parte del suo Foro pose due tavole bel- lissime, l'imagine delia Guerra legata al carro del trion- fante Alessandro, di mano di Apelle, ed i Gemelli e la Vittoria. Dopo costoro, recandosi la cosa ad onore e ma- gnificenza, farono molti, i quali nei loro magnifici templi ed ampie loggie ed altri superbi edificj pubblici infinite ne consacrarono. Ed ando tanto oltre la cosa, ed a tanto onore se la recarono (potendo ció che volevano i pren- cipi romani ed i possenti cittadini) che in brieve tutta la Grecia e l'Asia ed altre parti del mondo ne furono spogliate, e Koma non solo in pubblico, ma in privato ancora, se ne rivesti e se ne adornó, durando questa sfirenata voglia molto, e moite etadi, e molti imperadori se ne abbellirono. E come questo avvenne nelle cose di- pinte, cosí , e molto più, nelle statue di bronze e di marino, delle quali a ftoma ne fu pórtate d'altronde, e ne fu fatto si gran numero, che si teneva per certo che vi fusse più statue che uomini; delle arti delle quali e de'mae- stri più nobili di esse è tempo omai che, come abbiamo 54 LETTERA DI G. B. ADRIANI fatto de' pittori e delle pitture, cosï anco alciine cose ne diciamo, quanto però pare che al nostro proponimento si convenga. XXn. E perocchè egli pare che il ritrarre di terra sia comnne a moite arti, non si potendo cosï bene divi- sare nella mente dello artefice, ne cosï ben disegnare le figure, le qnali si deono formare; diremo che questa arte sia madre di tutte quelle che in tntto o in parte in qua- hinche modo rilevano, massimamente che noi troviamo che queste figure di terra in qnei primi secoli fnrono in molto onore, ed a Eoma massimamente, qnando i cit- tadini vi erano rozzi ed il comnne povero, dove ebbero molte imagini di qnelli Dei, che essi adoravano, di terra cotta; e ne'sacrificj appresso di loro fnrono in uso i vasi di terra. E molto più si crede che piacesse alii Dei la semplicith e povertk di qnei secoli, che Toro e l'argento e la pompa di coloro, li qnali poi vennero. II primo che si dice aver ritratto di terra fn Dibutade Sicionio, che faceva le pentole in Corinto, e ció per opera d'nna sua figlinola, la quale, essendo innamorata d'un giovane che da lei si doveva partiré, si dice che a Inme di lucerna con alcnne linee aveva dipinta l'ombra delia faccia di celui, cni ella amava, drento alla quale poi il padre, es- sendogli piacinto il fatto ed il disegno della figlinola, di terra ne ritrasse l'imagine, rilevandola alqnanto dal muro; e qnesta figura poi ascintta, con altri suoi lavori, mise nella fornace; e dicono che ella fu consecrata al templo delle Ninfe, e che ella duró poi insino al tempo che Mum- mió consolo romano disfece Corinto. ^ Altri dicono che in Samo isola fu primieramente trovata questa arte da ' Nel L. furono sacco di Corinto dato dai Romani sotto Mummio, traspor- insigni capolavori dell'arte greca; solo lasciarono nella de- tati a Roma i piú predata città le statue più antiche e quelle di legno, fra le quali era un Bacco indorato con il volto colorito di rosso ; un Bellerofonte di legno con le estremitá lib. II, di Ercole Dédalo. Pausania marmo; e un pur di legno creduto opera di ( , cap. 2 e 4). A GIORGIO VASARI 55 ano Ideoco Keto ed mi Teodoro molto innanzi a questo detto di * sopra, ed inoltre, che Demarato padre di Tar- quinio Prisco, ® faggendosi da Corinto sua patria, aveva portato seco in Italia arte cotale, conducendo in sua com- pagnia Eucirapo ed Eutigrammo maestri di far terra, e che da costero cotale arte si sparse poi per ITtalia, ed in Toscana fieri molto e molto tempo.® XXin. n prime poi che ritraesse le imagini degli uo- mini col gesso stemperato, e dal cave poi facesse le figure di cera, riformandole meglio, si dice essere state Lisistrato Sicionio fratello di Lisippo. E questi fu il primo che ritraesse dal vivo, essendosi sforzati innanzi a lui gli altri maestri di far le statue lore più belle che essi potes- sere. E fu questo mode di formare di terra tanto comune, che niuno, per buon maestro che ei fusse, si mise a fare statue di bronze, fondendolo, o di marmo o di altra no- bile materia, levandone, che prima non ne facesse di terra i modelh. Onde si può credere che questa arte, come più semplice e molto utile, fusse molto prima che quella, la quale cominciò in bronze a ritrarre. Furono in questa maniera di figure di terra cotta molto lodati Di- mofilo e Gorgaso, i quali parimente furono dipintori, ed a Koma dell' una e dell' altra loro arte adornarono il tem- pie di Cerere, lasciandovi versi scritti, significanti che la destra parte del templo era opera di Dimofilo, la sini- stra di Gorgaso. E Marco Yarrone scrive che innanzi a costero tutte opere cotali, che ne' templi a Koma si vede- vano, erano state fatte da'Toscani,e che, quando si ' Per Tautoritá di Diodoro Siculo e di Diogene Laerzio si tiene che due fossero i Teodori di Samo, uno flglio di Reto, l'altro di Teleclo. Quest'ultimo fioriva nelle Olimpiadi lv e lviii ; il primo si crede intorno P Olimpiada l . Di costoro puô vedersi Pausania, al lib. viii, cap. 14, e Plinio, lib. xxxv, cap. 12. Plinio , lib. xxxv, cap. 12; Plutarco, Vita di Publicóla, § x. ® II Niebuhr ed il Micali dubitarono di questo racconto di Plinio, tenendo per più verosimile che la plástica fosse nota agli Etruschi innanzi ai Greci medesimi. ' Ante hanc aedem tuscanica omnia in aedïbus fuisse. ( Plinio , lib. xxxv, cap. 15). 56 LETTERA DI G. B. ADRIANI rifece il tempio di Cerere, moite di quelle imagini gre- cKe erano state del mm'O da alcuni levate, i quali, rin- cMudendole dentro a tavolette d'asse, le portarono via. Calcostene fece anco in Atene moite imagini di terra; e dalla sua bottega quel luego, che in Atene fu poi cotante celebrate, e dove furono poste tante statue, da cotale arte fu chiamato Cerámico. Il medesimo Marco Varrone lasciò scritto che a sue tempo in Roma fu un buen mae- stro di cotale arte, il quale egli molto bene conosceva, ed era chiamato Possonio; il quale oltre a moite opere egregie ritrasse di terra alcuni pesci, si belli e si somi- glianti, che non gli areste saputo discernere dai veri e dai vivi. Loda il medesimo Varrone molto un amico di Lucullo, i modelli del quale si solevano vendere più cari che alcun' altra opera di qualunche artefice, e che di chiamò Gre- mano di costui fu quella bella Venere che si nitrice, la quale innanzi che fusse interamente compiuta, avendone fretta Cesare, fu dedicata e consacrata nel Foro. Di mano di questo medesimo un modello di gesso d'un vaso grande da vino, che voleva far lavorare Ottavio, cavalier romano, si vende un talento. Loda molto Var- roñe il dette Prassitele, il quale disse che questa arte di far di terra era madre di ogni altra che in marmo o in bronze faccia figure di rilievo, o in quale altra si voglia materia; e che quel nobile maestro non si mise mai a fare opera alcuna cotale, che prima di terra non ne fa- cesse il modello. Dice il medesimo autore che questa arte fu molto onorata in Italia, e speciahnente in Toscana. Onde Tarquinio Prisco re de' Romani chiamò un Turiano maestro molto celebrato, a cui gli dette a far quel Giove di terra cotta che si deveva adorare e consacrare nel Campidoglio, e similmente, i quattro cavalli aggiogati, i quali si vedevano sopra il tempio; e si credeva ancora che del medesimo maestro fusse opera quelle Ercole che lungo tempo si vide a Roma, e, dalla materia di che egli A GIORGIO VASARI 57 era, fa chiamato rErcole di terra cotta. Ma perciocchë questa arte, comecchë da per se ella sia molto nobile ed origine delle piii onorate, tuttavia, perocche la materia in che ella lavera ë vile, e 1'opere di essa possono volmente age- ricever danno e guastarsi, e per lo pin a fine si fa di quelle che si fondano di bronze e si lavorano di inarmo, e perocchë colore che in essa si esercitarono e vî ebber nome sono*anco in queste altre chiari, lasceremo di ragionare più di lei, e verremo a dire di colore che di bronze ritraendo, furono in maggior pregio; che voler ragionare di tutti sarebbe cosa senza fine. XXIV. Furono appresso i Greci, i quali queste artî molto più che alcun'altra nazione, e molto più nobihnente resercitarono, in pregio alcune maniere di métallo Tuna dair altra diíferenti, seconde la lega di quelle. E quinci avvenne che alcune figure d'esso si chiamarono corintie, altre deliace, ed altre eginetiche: ^ non che il métallo di questa o di quella sorte in queste o in quel luego per natura si facesse, ma per arte, mescolando il rame chi con oro, chi con argento, e Chi con istagno, e chi più e chi meno, le quali misture gli davano poi proprio colore, & più e men pregio, ed inoltre il proprio neme. Ma fu in maggiore stima il métallo di Corinto, o fusse in vasella- mento o fusse in figure, le quali furono di tal di pregio, e- si rara ed eccessiva bellezza, che molti grandi uomini, quando andavano attorno, le portavano per tutto seco; e si trova scritto che Alessandro Magno, quando era in campo, reggeva il suo padiglione con istatue di métallo di Corinto, le quali poi furono pórtate a Eoma. II primo, che fusse chiaro in questa sorte di lavoro, si dice essere stato quel Fidia Ateniese cotanto celebrato, il quale, oltre alio aver fatto nel templo Olímpico quel Giove dello averio ' Scrive Plinio che piú erano stimate le deliace, le ultimo quindi e da le eginetiche, corintie; e soggiunge che le statue di Mirone per consueto sono in tallo me- eginetico, e quelle di Policleto in métallo deliaco. (Lib. xxxiv, cap. 2). 58 LETTERA DI G. B. ADRIANI si grande e si venerando, ' fece anco moite statue di bronze; ed avvegnacliè avanti a lui quest'arte fusse stata inolto in pregio ed in Grecia ed in Toscana ed altrove; nondimeno si giudicò che egli di cotante avanzasse cia- scuno che in taie arte avesse lavorato, che tutti gli altri ne divenissero escuri e ne perdessero il nome. Fieri questo nobile artefice, seconde il conte de'Greci, neU'olimpiade ottantatreesima, che batte al conte de'Eomani interne air anno trecentesimo dope la fondazione di Roma; e duró Farte in buena riputazione dope Fidia forse centocin- ® quanta anni, e poco più, seguendo sempre molti disce- poli i primi maestri, i quali in questo spazio furono quasi che senza numero; e queste due o tre etadi produssero il fiore di questa arte, benchè alcuna volta poi essendo caduta, risorgesse, ma non mai con tanta nobiltà në con tanto favore: Feccellenza della quale mi sforzerò porre in queste carte, seconde che io trovo da altri esserne state scritto. E prima si dice che furono fatte sette Amaz- zoni, le quali si consecrarono in quel tanto celebrate tem- pie di Diana Efesia a concorrenza da nobihssimi artefici, benchè non tutte in mi medesimo tempe; la bellezza e la perfezione delle quali non si potende cosi bene da cia- scuno estimare, essendo ciascuna d'esse degna molto di essere commendata, giudicarono quella dover essere la migliore e la più bella, che i piii degli artefici, che alcuna ne avessero fatta, commendassero più dopo la sua pro- ^ Narra Plutarco, che Paolo Emilio avendo veduto in Olimpia il mirando simulacro di Glove scolpito da Fidia, esclamasse esser quello veramente il Glove descritto da Omero. {Vita di Paolo Emilio, § xxi). ^ L'Olimpiade lxxxiii , nella quale ebbe cominciamento la guerra pelopon- nesiaca, segna 1'época piú felice della greca scultura. Noveravansi in essa, Fidia, Policleto, Scopa, Pitagora, Mirone, ecc. Lo stesso vuol dirsi delle altre arti, e segnatamente dell'architettura, la quale per il favore di Pericle crebbe si mirabilmente e si perfezionó. Direttore di tutte le fabbriche che per sua cura Plutarco. I'autoritá di ergevano, era lo stesso Fidia, come narra Sappiamo per del Tucidide, che Pericle, in molti sontuosi edifizj da lui eretti col danaro pub- accusa blico, onde n'ebbe avea spesi ben undid milioni e centomila lire, grave dagli Ateniesi. ( Plutarco, Vita di Pericle, § xiii e xv). A GIORGIO VASARI 59 pria. E cosi tocco 11 prime vanto a quella di il seconde Policleto, a quella di Fidia, il terze a quelle di Grésilla; ^ e cesi di mane in mane, seconde queste erdine, l'altre ebbere la propria leda; e queste giudizie fu riputate ve- rissime, ed a queste pei stette ciascune, avendele tali. Fidia per eltre a quel Gieve d'averie che nei la dicemme, quale opera fu di tanto eccessiva bellezza che niune si trovó che con ella ardisse di gareggiare, ed eltre a una Minerva pur d' averie che si guardava in Atene nel temple di quella Dea,® ed eltre a quella Amazzene, fece anee di bronze una Minerva di bellissima forma; la dalla bellezza quale fula Bella chiamata, ed un'altra la ancora, quale da Paele Emilio fu al temple della Fortuna con- sacrata, e due altre figure greche con il mantelle, le Quinte Catule quali pese nel medesime temple. Fece di più una figura di statura di colosse, ed egli medesime ceminciò e mostró, come si dice, a laverare con le scarpelle di basse rileve. XXV. Venne dope Fidia Peliclete da Siciene, della cui" mane fu quel morbide e delicate gievane di bronze con la benda interne al cape, e che da quella ha il il neme, quale fu stimate e cemperate cento talenti; e del me- desime ance fu quel gievinette fiero e di cerpe il robuste, quale dalla asta che ei teneva in mane, come suena la greca favella, fu Derifere nominate. Fece ancor egli quella nebil figura, la quale fu chiamata il Eegele della arte, dalla quale gli artefici, come da legge giustissima, ' Alcuni scrivono Ctesilao; nella nostra edizione di Plinio si ha (Basilea Cresila. 1530), ^ Questa statua, alta 26 cubiti, aveva le parti ignude del corpo in e il averio, panneggiamento di oro ; del qüal métallo Fidia vi adoperó ben talenti. É quaranta noto che il talento attico di que' tempi valeva intorno Narra a 600 scudi. Plutarco che Fidia sendo accusato di aver derubato dato porzione dell'oro che gli avevano gli Ateniesi per fonderla, fu condannato alia quale mori carcere, nella di malattia, o come altri scrive, di veleno per datogli dagli aver di avversarj campo calunniar Pericle. Mori Vita nell'Olimpiada lxxxvii. di Pericle, (Plutarco, § xxv). 60 LETTERA DI G. B, ADRIANI solevano prendere le misure delle membra e delle fat- tezze che essi intendevano di fare, estimando qnella in tntte le parti sue perfettissima/ Fece ancora uno che si stropicciava, ed uno ignudo che andava sopra un pië solo, e due fanciulletti nudi che giocavano ai dadi, i quali da questo ebbero il nome, i quali poi lungo tempo si videro a Eoma nel palazzo di Tito imperadore: délia quale opera non si vide mai la più compiuta. Fece medesimamente un Mercurio che si mostrava in Lisimachia, ed uno Er- cole che era in Eoma con Anteo insieme, il quale egli, in aria sostenendolo e stringendolo, uccideva; ed oltre a queste molte altre, le quali, come opere di ottimo mae- stro, furono per tutto estimate perfettissime; onde si tiene per fermo che egli desse ultimo compimento a questa arte. Fu proprio di questo nobile artefice temperare e con tale arte sospendere le sue figure, che elle sopra un pië solo tutte si reggessero, o almeno che-paresse." XXVI. Quasi alla medesima età fu anco celebrato in- finitamente Mirone per quella bella giovenca che egli formó di bronzo, la quale fu in versi lodati molto com- mendata.® Fece anco un cane di maravigliosa bellezza, ed giovane che scagliava in aria il disco, ed un sa- uno tiro, il quale pareva che stupisse al suono delia sampogna, ed una Minerva, ed alcuni vincitori de'giuochi delfici, i 1 Osservô il Winkelmann che era siífattamente regolare e proporzionata la osser- disposizione delle parti nelle statue dei Greci, che malgrado délia differenza nelle di Mirone, di Policleto e di Lisippo, tutte sem- vata già an ticamente opere bravano uscite dalla stessa scuola. (^Storia delle Arti, ecc., vol. I, lib. v, cap. 5, pag. 350). ^ La più grande e la più tamosa opera di Policleto tu la statua colossale di Giunone in Argo, d'averio e d'oro insieme, délia quale ragiona Pausania al lib. ii, cap. 17. di Mi- ® Vedi YAntologia Greca, lib. iv, cap. 7. Dissero di questa giovenca che a lei muggissero i tori, ed accorressero i torelli per poppare. Fu poi rone, di Mirone, e collocata trasportata in Roma, con quattro buoi, opera similmente animali neir atrio del tempio di Apollo edifícate da Augusto. Nello scolpire gli Niela i ebbero eziandio rinomanza presse i Greci, Calamide per 1 cavalli. per cani e Menecmo per i vitelli. ( Plinio , lib. xxxiv, cap. 8). A GIORGIO VASAEI 61 quali per aver vinto a due o a tutti, Pentarli o Panera- tisti si solevano cliiamare. Fece anco quel belle Ercole cbe era in Roma dal Circo Massimo in casa Pompeo Ma- gno. Fece i sepòlcri delia cicala e del grillo, come ne'suoi versi lasciò scritto Erina poetessa. Fece quelle Apollo, il quale, avendolo involate Antonio triumviro a quelli di Efeso, fu lore da Augusto renduto, essendogli ció in so- gno ricordato. Fu tenuto che cestui per la varietà delle maniere delle figure, o per il maggior numero che egli ne fece, e per le proporzioni di tutte le sue opere, fusse più diligente e più accorto di quei di prima; ma par bene che nel fare i corpi ponesse maggiore studio, che nel ri- trarre F anime e nel dare spirito aile figure, e che ne'ca- pelli e nelle barbe non fusse più lodato, che si fusse stata l'antica rozzezza degli altri. Fu vinto da Pitagora Italiano da Reggie in una figura fatta da lui e posta nel tempio di Apollo a Delfo, la quale rassembrava uno di quei campioni che alla lotta ed alie pugna insiememente com- battevano, e che si chiamavano Pancratisti.^ Vinselo an- che Leonzio, il quale a Delfo a concorrenza pose alcune figure di giocatori olimpici. lolpo similmente il vinseinuna bella figura d'un fanciuUo che teneva un libro, e d'un altre che portava frutte: le quali figure ad Olimpia poi si vedevano, dove le più nobili e le più ragguardevoli di tutta la Grecia si consacravano. Di questo medesimo artefice era a Siracusa un zoppo, il quale, dolendosi nello andaré, pa- reva che a chi il mirava parimente porgesse dolore. Fece ancora uno Apollo, il quale con l'arco uccideva il ser- pente. Questi il primo molto più artificiosamente e con maggior sottigliezza ritrasse ne'corpi le vene ed i nervi ed i capelli, e ne fu molto commendato. Fu un altro Pi- tagora da Samo, il quale primieramente si esercitò nella ' II medesimo artefice lavoró anche in bronzo, e di métallo tistene questo fece Ora- cireneo con una Vittoria sur un cocchio, dei lib. quali parla Pausania, nel VI, cap. 18. 62 LETTERA DI G. B. ADRIANI pittura, e poi si diede a ritrarre nel bronzo, e di volto e di statura si dice che era molto somigliante a quel dette poco fa che fu da Eeggio, e ñipóte di sorella, e parimente discepolo; di mano di cui a Eoma si videro alcune imagini di Fortuna nel templo della istessa Iddea, molto belle, mezze ignude, e perciò commendate, e molto volentieri vedute. XXVn. Dopo costero fieri Lisippo, il quale lavorò un gran numero di figure, e più molto che alcuno altro; il che si confermò alla morte sua, perciocchè del pregio di eia- scuna soleva serbarsi una moneta d'oro, e quella in sicuro luego tener guardata; e si dice che gli eredi suoi ne tro- varono seicento died, ed a tal numero si tiene che ar- rivassero le figure da lui fatte e lavorate; la qual cosa appena par che si possa credere: ma nel vero, che egli in questo ogni altro artefice vincesse non si può dubitare; e fra le opere lodate di lui sommamente piacque quella figura, la quale pose Agrippa alio entrare delle sue stufe, della quale invaghi cotanto Tiberio imperadore, che ben- che in moite cose solesse vincere il suo appetito, mas- simamente nel principio del suo imperio, in questo non- dimeno non sipotette tenere, che, mettendovene un'altra simile, non facesse quella quindi levare, ed in camera sua portarla: la quale fu con tanta instanza da tutto il popolo romano nel teatro e eon tanti gridi richiesta, e che ella quivi si riponesse donde ella era stata levata, che Tiberio, benche molto l'avesse cara, ne voile fare il popolb romano contento, ritomandola al suo luogo. Era questa imagine d'une che si stropicciava, figura che troppo bene conve- niva al luogo, dove Agrippa l'aveva destinata. Fu molto celebrate questo artefice in una figura d'una femmina cantatrice ebbra, e in alcuni cani e cacciatori maravi- gliosamente ritratti; ma molto più per un carro del Sole con quattro cavalli, che egli fece a richiesta de'Rodiani. Eitrasse questo nobile artefice Alessandro Magno in moite a giorgio vasar: 63 maniere, cominciandosi da puerizia, e d'età in età se- guitando; una delle quali statue piacendo oltre a modo a Nerone, la fece tutta coprire d'oro, la quale es- sendone poi, stata spogliata, fu tenuta molto più cara veden- dovisi entro le ferite e le fessure, dove era stato Toro commesso. Eitrasse il medesimo anche Efestione, molto intrínseco d'Alessandro, la quai figura alcuni crederono che fusse di mano di' Policleto, ma ciocchè s'ingannarono, per- Policleto fu forse cento anni innanzi ad Alessan- dro. Il medesimo fece quella caccia di Alessandro, la fu quale poi consacrata a D elfo nel templo di Apollo/ Fece inoltre in Atene una schiera di Satiri. Eitrasse con arte maravigliosa, rassembrandoli vivi, Alessandro tutti Magno e gli amici suoi/ le quali figure Metello, poichè ebhe vinta la Macedonia, fece traportare a Eoma. Fece ancora carri con quattro cavalli in moite maniere : e si tiene per certo che egli arrecasse a questa arte molta perfezione, e nei capelli, i quali ritrasse molto meglio che non ave- vano fatto i più antichi, e nelle teste, le quah egli fece molto minori di loro. Fece anco i corpi più assettati e più sottili, di maniera che la grandezza nelle statue riva n'appa- più lunga: nelle quali egli osservò sempre maravi- gliosa proporzione, partendosi dalla grossezza degli antichi ; e soleva dire che innanzi a lui i maestri di cotale arte ave- * Scrive Plutarco, che non pure Lisippo, ma Leocare ritraesse di questa caccia Alessandro, e che fu per cura di Cratero che venne Delfo. Chi posta nel templo di amasse di leggerne la descrizione, puó vederla nella Vita di Alessan- dro, § XXXVIII in fine. ^ Allude verosímilmente l'Adriani a ció che narra Plutarco, cioè, che nella battaglia data da Alessandro contro l'esercito di Darlo sulle sponde del avendo 11 Granico, primo perduti soli 34 uomini, a tutti fece erigere statue di rame per opera di Lisippo. Secondo Quinto Gurzio, Alessandro concesse un tale onore a soli 25 cavalieri oppressi dalla moltitudine del Persiani. Queste statue furono erette in Dia, città delia Macedonia, onde più tardi il console Q. Metello le fece trasportare a Roma. Il Dacier si meraviglia che Lisippo in si breve tesse tempo lavorare po- tante statue, sapendosi che Alessandro, il quale dopo fatto non visse quel che soli died anni, poté vederle ultimate. ( Plutarco, Vita di Alessan- dro, § xiv). 64 LETTERA DI G. B. ADRIANI vano fatto le figure seconde che elle erano, ed egli seconde che elle parevano. Fu proprio di questo artefice in tutte quante le opere sue osservare ogni sottigliezza con gran- dissima diligenza e grazia/ Kiinasero di lui alcuni figliuoli, nhiari in questa arte medesima, e sopra gli altri Euticrate, ni quale più piacque la fermezza del padre che la leggia- dria, e s'ingegnò più di piacere nel grave e nel severo, che nel dolce e nel piacevole dilettare, dove il padre massimamente fu celebrate. Di cestui fu in gran nome rErcole che era a Delfo, ed Alessandro cacciatore, ela battaglia de'Tespiensi, ed un ritratto di Trofonio al suo cracolo. Ebbe per discepolo Tisicrate, anch'esso da Si- cieñe, e s'apprese molto alia maniera di Lisippo, talmente che alcune figure appena si riconoscevano se elle erano delfuno o dell'altro maestro, come fu un vecchio Tebano, Demetrio re, Peuceste, quelle che campó in battaglia e difese Alessandro Magno; e furono questi cetali cotante ^timati, ed in tanto pregio tenuti, che chi ha scritto di cotali cose gli leda eccessivamente; come anco un Telefane Foceo, il quale peraltro non fu appena conosciuto, percioc- che in Tessaglia, laddove egli era quasi sempre vivuto, ropere sue erano state sepolte. Nondimeno, per giudizio di alcuni scrittori, fu posto a paro di Policleto e di Mi- rene e di Pitagora. E molto lodata di lui una Larissa, uno Apollo, ed un campione vincitore a tutti i cinque giuochi. Alcuni dissero che egli tíon ë state in bocea de'Greci, pe- rocchë egli si diede a lavorare in tutto per Dario e per Xerse, re barbari, e che nei loro regni fini la vita. XXVIII. Prassitele ancora, avvegnachë nel lavorare in marmo, come poco poi diremo, fusse tenuto maggior maestro, e perciò vi abbia avuto drento gran neme, non- dimeno lavorò anche in bronze molto eccessivamente, * Pausania ricorda eziandio di Lisippo una statua di bronzo rappresentante Cupido, posseduta già dai Tespiensi. Ma fraie tante sue opere di bronzo la più celebre è il colosso che fece per i Tarentini, alto 40 cubiti. A GIORGIO VASARl 65 come ne fece fede la rapiña di Proserpina fatta da lui^ c l'Ebrietà, ed uno Bacco ed un Sátiro insieme, di si ma- ravigliosa bellezza, che si chiamò il Celebrate/ ed alcune ultre figure, le quali erano a Roma nel tempio délia Fe- licith, ed una bella Venere, la quale al tempo di Claudio imperadore, ardendo il tempio, si guastò; la quale era :a nulla altra seconda. Fece moite altre figure lodate, ed Armodio ed Aristogitone, che in Atene uccisero il tiranno; le quali figure avendosele Xerse di Grecia pórtate nel re- ^no suo, Alessandro, poichè ebbe vinto la Persia, le ri- mandó graziosamente agli Ateniesi ; ed inoltre uno Apollo giovinetto, che con barco teso stava per trarre a una lucertola, la quale gli veniva incontro, e da quelle atto ebbe nome la figura, che si chiamò lucertola uccidente. Yidonsi di lui parimente due bellissime figure. Tuna ras- •sembrante una onesta mogliera che piangeva, e T altra una femmina di mondo che rideva, e si crede che questa fusse quella Frine, famosissima meretrice, e nel volto di quella onesta donna pareva T amere che ella portava al mari to, ed in quelle delia disonesta femmina l'ingordo prezzo che ella chiedeva agli amanti. Pare che anco fusse ritratta la cortesia di questo artefice in quel carre de'quat- tro cavalli che fece Calamide cotante celebrate, percioc- chë questo artefice in formar cavalli non trovó mai pari, ma nel fare le figure umane non fu tante felice. Egli adunque ail'opera di Calamide, la quale era imperfetta, diede il compimento, aggiungendovi il guidator de'ca- valli, di arte maravigliosa. Fu anco molto chiaro in que- st'arte un Ificle, il quale, oltre ad altre figure, fece a nome degli Ateniesi una bella liona con questa occasione. Era in Atene una femmina chiamata Liona, molto fami- ^ Di questo Sátiro di Prassitele in Roma se ne uoveravano piü di trenta «copie, stimandosi Topera piú perfetta di questo artefice. Nel ritrarre i satiri ebbero altresi molta rinomanza Pratino, Aristia ed un certo Eschilo. ( Pausania, iib. ii, cap. 13). Vasari , Opere. — Vol. I. 5 66 LETTERA DI G. B. ADRIANI liare di Aristogitone e di Armodio per conto di amore^ i quali in Atene, nccidendo il tiranno, vollono tornare il popolo nella sua libertà; costei, essendo consapevole délia congiura, fu presa, e con crudelissimi tormenti in- sino a morte lacerata non confesso mai cosa alcnna di cotai conginra: laonde volendo poi gli Ateniesi pur fare onore a questa femmina, per non far ció a una meretrice, imposono a questo artefice che ritraesse una liona, ed acciocchë in questa figura si riconoscesse il fatto ed il valor di lei, vollono che esse la facesse senza lingua. Briaxi fece uno Apolline, un Seleuco re, ed un Batte che adorava, ed una lunone, i quali si videro a Roma nel tempio delia Concordia. Clesila ritrasse uno ferito a morte, nella qual figura si conosceva quanto ancora restasse di vita, e quel Pericle ateniese, il quale per soprannome fu chiamato il Celeste. Cefisodoro fece nel porto degli Ateniesi una Mi- nerva maravigliosa, ed uno altare nel tempio di Griove nel medesimo porto. Canaco fece uno Apollo che si chiamò Filesio, ed un cervio con tanta arte sopra i piedi sospeso, che sotto, or da una, or da un'altra .parte, si poteva ti- rare un sottilissimo filo. Fece medesimamente alcuni fan- ciulli a cavallo, come se al palio a tutta briglia corressero. Uno Cherea ritrasse Alessandro Magno e Filippo suo pa- dre, e Clesila uno armato di asta, ed un'Amazzone ferita. Un Demetrio ritrasse Lisimaca, la quale era stata sacer- dotessa di Minerva ben sessantaquattro anni, ed una Minerva che si chiamò Musica, perocchë i draghi, i quali erano ritratti nello scudo di quella Dea, erano talmente fatti, che, quando erano percossi, al suono della cetera rispondeano: il medesimo un Sarmone a cavallo, il quale aveva scritto dell'arte del cavalcaré. Un Dédalo fra questi fu molto celebrato,' il quale fece düoi fanciulletti, i quali l'un l'altro nel bagno si stropicciavano. Di EufranOre fu un Paride, il quale fu molto lodato, che in un subietto medesimo si riconosceva il giudice delle Dee, l'amante a gioegio vasari 67 cli Elena, e rucciclitore d'Achille. Del medesimo era a Koma una Minerva di sotto al Campidoglio, che si chia- inava Catuleiana, perocchë ve I'aveva consagrata Lutazio Catulo, ed una figura delia Buena Ventura, la quale con Tuna delle mani teñeva una tazza, e con l'altra spighe di grano e di papaveri. Il m-edesimo fece una Latona, che di poco pareva che fusse uscita di parto, e si vedeva a Roma nel tempio della Concordia, la quale teñeva in hrac- cío i suoi figliuolini ApoUo e Diana. Fece inoltre due figure in forma di colosse. Tuna era la Virtude e Taltra Clito, rispetto alla quieta e leggiera opera dell'animo e delia mano sola del dipintore. Panno, appresso, grandissimo fondamento sopra 1' essere le cose tanto più nobili e più perfette, quanto elle si accostano più al vero: e dicono che la scultura imita la forma vera, e mostra le sue cose, girandole interno, a tutte le vedute; dove la pittura, per essere spianata con semplicissimi lineamenti di pennello, e non avere che un lume solo, non mostra che una ap- parenza sola. We hanno rispetto a dire molti di loro, che la scultura ë tanto superiore alia pittura, quanto il vero ^ In alcune edizioni antecedent! aquella dell'Audin, per rispetto alia gram- raatica, non troppo rispettata dal Vasari, fu sostituito: che di rado si trovan» congiunti insieme. PROEMIO OI TUTTA L' OPERA 05 alia bugia. Ma per T ultima e più forte ragione che adducono, alio scultore è necessario non solamente la del perfezione gindizio ordinaria come al pittore, ma assoliita e su- bita; di maniera ch'ella conosca sin dentro a'marmi Pin- tero appunto di quella figura ch' essi intendono di cavarne, e possa, senza altro modello, prima far moite fette parti che per- e'le accompagni ed unisca insieme, come ha fatto divinamente Michelagnolo : avvengachë, mancando di sta que- felicita di giudizio, fauno agevolmente e spesso di quegli inconvenienti che non hanno rimedio, e che, fatti, son sempre testimoni degli errori dello scarpello, o del poco giudizio dello scultore. La qual cosa non avviene a'pittori; perciocchë, ad ogni errore di pennello o man- camento di giudizio che venisse lor fatto, hanno tempo, conoscendoli da per loro o avvertiti da altri, a ricoprirli e medicarli con il medesimo pennello che Pavevafatto; il quale, nelle mani loro, ha questo vantaggio dagli scar- pelli dello scultore, ch'egli non solo sana, come faceva il ferro delia lancia d'Achille, ma lascia senza margine le sue ferite. III. Aile quali cose rispondendo i pittori non senza sdegno, dicono primieramente : che, volendo gli scultori considerare la cosa in sagrestia, la prima nobilta ë la loro; e che gli scultori s'ingannano di grau lunga a chia- mare opera loro la statua del primo padre, essendo stata fatta di terra: Parte délia quai operazione, mediante il suo levare e porre, non ë manco de'pittori che d'altri; e fu chiamata da'Greci e fictoria da'Latini, e da Prassitele fu giudicata madre delia scultura, del getto e del cesello; cosa che fa la scultura veramente ñipóte alla pittura, conciossiachë la plastice e la pittura naschino insieme e subito dal disegno. Ed esaminata fuori di sa- grestia, dicono, che tante sono e si varie le opinioni dei tempi, che male si può credere più all'una che all'altra; e che, considerate finalmente questa nobiltù dove e'vo- 96 PROEMIO DI TUTTA L' OPERA gliono, neiruno de'luoghi pèrdono e nelPaltro non vin- cono: siccome nel proemio delle Vite piii chiaramente potra vedersi. Appresso, per riscontro dell'arti congeneri e sottoposte alia scultura, dicono averno molte pin di loro. Perché la pittura abbraccia Tinvenzione dell'istoria, la difficilissinia arte degli scorti, tutti i corpi dell'arcbitet- tura per poter far i casamenti e la prospettiva, il coloriré a tempera, rarte del lavorare in fresco, différente e vario da tutti gli altri; similmente il lavorar a olio, in legno, in pietra, in tele, ed il miniare, arte différente da tuttoj le finestre di vetro, il musaico de'vetri, il commetter le tarsie di colori, facendone istorie con i legni tinti, che è pittura; lo sgraffire le case con il ferro; il niello e le stampe di rame, membri delia pittura; gli smalti degli orefici, il commetter l'oro alla damascbina, il dipigner le figure invetriate, e fare neVasi di terra istorie ed altre figure cbe tengono albacqua, il tessere i broccati con le figure e fiori, e la bellissima invenzione degli arazzi tessuti, cbe fa comoditb e grandezza, potendo portar la pittura in ogni luogo e salvatico e domestico: senza cbe, in ogni genere cbe bisogna esercitarsi, il disegno cb'è disegno nostro, l'adopra ognuno. Siccbè molti più membri ba la pittura e più utili, cbe non ba la scultura. Non niegano reternità, poicbè cosi la cbiamano, delle seul- ture; ma dicono questo non esser privilegio cbe faccia Tarte più nobile cb'ella si sia di sua natura, per esser semplicemente delia materia; e cbe se la lungbezza della vita desse alTanima nobiltà, il pino tra le piante, e il cervio tra gli animali, arebbon T anima oltramodo più nobile cbe non ba Tuoino: nonostante cbe ei potessino addurre una simile eternitb e nobiltà di materia ne'mu- saici loro, per vedersene degli anticbissimi quanto le più anticbe sculture cbe siano in Eoma, ed essendosi usato di farli di gioie e pietre fini. E quanto al piccolo o mi- nor nimiero loro, afíermano cbe ció non è perché Tarte PROEMIO DI TUTTA L'OPERA 97 ricerchi miglior disposizione di corpo ed il giudizio mag- giore, ma che ei dipende in tntto dalla povertà delle sustanze loro, e dal poco favore, o avarizia che vogliamo chiamarla, degli uomini ricchi, i qnali non fanno loro co- modith de'marmi, në danno occasione dilavorare come si piló credere, e vedesi che si fece, ne'tempi antichi, quando la scnltura venne al sommo grado. Ed ë mani- festo, che chi non può consumare o gittar via una pie- cola quantité di marmi e pietre forti, le qnali costano pur assai, non può fare quella pratica, nell'arte che si conviene: chi non vi fa la pratica non 1'impara: e chi non l'impara, non può far bene. Per la qual cosa dovreb- bono escusare piuttosto con queste cagioni la imperte- zione e il poco numero degli eccellenti, che cercare di trarre da esse, sotto un altro colore, la nobiltk. Quanto a'maggiori pregi delle sculture, rispondono che, quando i loro fussino bene minori, non hanno a compartirli, con- tentandosi di un putto che macini loro i colori e porga i pennelli o le predelle di poca spesa; dove gli scultori, oltre alia valuta grande della materia, vogliono di molti aiuti, e mettono pin tempo in una sola figura che non fanno essi in moite e moite; per il che appariscono i pregi loro essere più della qualità e durazione di essa materia, degli aiuti ch'ella vuole a condursi e del tempo che vi si mette a lavorarla, che dell'eccellenza dell'arte stessa: e quando questa non serva në si trovi prezzo maggiore, come sarebbe facil cosa a chi volesse diligen- temente considerarla, trovino un prezzo maggiore del maraviglioso, bello e vivo dono, che alla virtuosissima ed eccellentissima opera d'Apelle fece Alessandro il Magno, donandogli non tesori grandissimi o stato, ma la sua amata e bellissima Campaspe; ed avvertiscano di più, che Ales- Sandro era giovane, innamorato di lei, e naturalmente agli affetti di Venere sottoposto, e re insieme e greco; e poi ne facciano quel giudizio che piace loro. Agli amori ViSAni, Opere. — V.il. I. 7 98 PROEMIO DI TUTTA L'OPERA di Pigmalione, e di quegli altri scellerati, non degni pin d'essere uomini, citati per prova delia nobiltà dell'arte ^ non sanno che si rispondere; se da una grandissima cecita di mente, e da una sopra ogni natural modo sfrenata libídine, si può fare argumento di nobiltà: e di quel non so chi allegato dagli scultori d'aver fatto la scultura d'oro e la pittura d'argento, come di sopra, consentono che se egli avesse dato tanto segno di giudizioso, quanto di ricco, non sarebbe da disputarla: e concludono final- mente, che Tantico vello delToro, per celebrate che e'sia, non vestí però altro che un montone senza intelletto; per il che në il testimonio delle ricchezze, në quelle delle voglie disoneste, ma delle lettere, delTesercizio, della bontà e del giudizio, son quelli a chi si debbe attendere. Në rispondono altro alia difficolta delTavere i marmi o i metalli, se non che questo nasce dalla povertà propria e dal poco favore de'potenti, come si ë dette, e non da grado di maggiore nobiltà. AIT estreme fatiche del corpa ed a'pericoli proprj e delTopere loro, ridendo, e senza alcun disagio, rispondono, che, se le fatiche ed i pericoli maggiori arguiscono maggiore nobiltà. Tarte del cavare i marmi dalle viscere de'monti, per adoperare i conj, i pali e le mazze, sarà piü nobile della scultura; quella del fabro avánzerá Torefice, e quella del murare Tarchi- tettura. E dicono appresso, che le vere difficultà stanno più nelT animo che nel corpo; onde quelle cose che di lor natura hanno bisogno di studio e di sapero maggiore, son più nobili ed eccellenti di quelle che più si servono della forza del corpo; e che, valendosi i pittori della virtù delTanimo più di loro, questo primo onore si appartiene alia pittura. Agli scultori bastano le seste o le squadre a ritrovare e riportare tutte le proporzioni e misure che eglino hanno di bisogno: a'pittori ë necessario, oltre al sapere ben adoperare i sopraddetti strumenti, una ac- curata cognizione di prospettiva, per avere a porre mille PROEMIO DI TUTTA L'OPERA 99 altre cose che paesi o casamenti; oltra che hisogna aver maggior giudicio per la qiialita delle figure in una storia, dove può nascer più errori che in una sola statua. Alio scultore hasta aver notizia delle vere forme e fattezze de'corpi solidi e palpahili e sottoposti in tutto al tatto, e di quei soli ancora che hanno chi li regge. Al pittore è necessario non solo conoscere le forme di tutti i corpi retti e non retti, ma di tutti i trasparenti ed impalpahili ; ed oltra questo, hisogna che sappino i colori che conven- gono a'detti corpi: la moltitudine e la varieta de'quali, quanto ella sia umversalmente e proceda quasi in infinito^ lo dimostrano meglio che altro i fiori ed i frutti, oltre a'mi- nerali; cognizione sommamente difficile ad acquistarsi ed a mantenersi, per la infinita varietà loro. Dicono ancora, che dove la seultura, per l'inohhedienza ed imperfezione della materia, non rappresenta gli aífetti dell'animo se non con il moto, il quale non si stende però molto in lei, e con la fazione stessa de'memhri, në anche tutti; i pittori gli dimostrano con tutti i moti, che sono infiniti; con la fazione di tutte le memhra, per sottilissime che elle siano; ma, che più? con il fiato stesso e con gli spiriti della vita; e che, a maggior perfezione del dimostrare non solamente le passioni e gli aífetti dell'animo, ma ancora gli acci- denti avvenire, come fanno i naturali, oltre alla lunga pratica dell'arte, hisogna loro avere una intera cognizione d'essa fisionomia; della quale hasta solo alio scultore la parte che considera la quantifia e forma dei memhri, senza curarsi della qualità de'colori; la cognizione dei quali chi giudica dagli occhi, conosce quanto ella sia utile e necessària alla vera imitazione della natura, alla quale chi più si accosta ë più perfetto. Appresso soggiungono, che dove la scultura, levando a poco a poco, in un me- desimo tempo dù fondo ed acquista rilievo a quelle cose che hanno corpo di lor natura, e servesi del tatto e del vedere; i pittori in due tempi danno rilievo e fondo al 100 PEOEMIO DI TÜTTA L'OPERA piano con Taiuto di un senso solo: la qual cosa, qnando ella è stata fatta da persona intelligente delirarte, con piacevolissimo inganno ha fatto rimanere molti grandi uomini, per non dire degli animali; il che non si ë mai veduto delia scultura, per non imitare la natura in quella maniera che si possa dire tanto perfetta quanto ë la loro. E finalmente, per rispondere a quella intera ed assoluta perfezione di giudizio che si richiede alia scultura, per non aver modo di aggiungere dove ella leva, aífermando prima che tali errori sono, come ei dicono, incorreggibili, në si può rimediare loro senza le toppe, le quali, cosi come ne'panni sono cose da poveri di roba; nelle sculture e nelle pitture símilmente sono cose da poveri d'ingegno e di giudizio : di poi che la pazienza, con un tempo con- veniente, mediante i modelli, le centine, le squadre, le seste, ed altri mille ingegni e strumenti da riportare, non solamente gli difendono dagli errori, ma fanno con- dur loro il tutto alla sua perfezione: concludono che que- sta difficulta, ch'ei mettono per la maggiore, ë nulla o poco, rispetto a quelle che hanno i pittori nel lavorare in fresco; e che la detta perfezione di giudizio non ë punto più necessària agli scultori che a'pittori, bastando a quelli condurre i modelli buoni di cera, di terra o d'altro, come a questi i loro disegni in simil materie pure o ne'car- toni; e che finalmente quella parte che riduce a poco a loro i modelli ne' marmi, ë piuttosto pazienza che poco altro. Ma chiamisi giudizio, come vogliono gli scultori, se egli ë più necessario a chi lavora in fresco, che a chi scarpella ne'marmi: perciocchë in quelle non solamente non ha luego në la pazienza në il tempo, per essere ca- pitalissimi inimici deirunione deUa calcina e de'colori, ma perchë l'occhio non vede i colori veri insino a che la calcina non ë ben secca, në la mano vi può aver giu- dizio d'altro che del molle o secco; di maniera che chi lo dicesse lavorare al buio, o cogli occhiali di colori di- PROEMIO DI TUTTA L' OPERA 101 versi dal vero, non credo che errasse di molto; anzi non dubito punto che tal nome non se li convenga più che al lavoro d'incavo, al quale per occhiali, ma giusti e buoni, serve la cera: e dicono che a questo lavoro ë necessario avere un giudizio risoluto, che antivegga la fine nel molle, e quale egli abbia a tornar poi secco. Oltra che non si può abbandonare il lavoro, mentre che la calcina tiene del fresco, e bisogna risolutamente fare in un giorno quello che fa la scultura in un mese ; e chi non ha questo gin- dizio e questa eccellenza, si vede, nella fine del lavoro suo 0 col tempo, le toppe, le macchie, i rimessi, ed i colori soprapposti o ritocchi a secco; che ë cosa vilissima; perchë vi si scuoprono poi le muffe, e fauno conoscere la insufficienza ed il poco sapere dello artefice suo, sic- come fauno hruttezza i pezzi rimessi nella scultura; senza che, quando accade lavare le figure a fresco, come spesso dopo qualche tempo avviene per rinnovarle, quello che ë lavorato a fresco rimane, e quello che a secco ë stato ritocco, ë dalla spugna hagnata portato via. Soggiun- gono ancora, che dove gli scultori fauno insieme due o tre figure al più d'un marmo solo, essi ne fauno moite in una tavola sola, con quelle tante e si varie vedute, che coloro dicono che ha una statua sola, ricompensando con la varietà delle positure, scorci ed attitudini loro, il potersi vedere intorno intorno quelle degli scultori: come già fece Giorgione da Castelfranco in una sua pit- tura, la quale, voltando le spalle ed avendo due specchi, uno da ciascun lato, ed una fonte d'acqua a'piedi, mostra nel dipinto il dietro, nella fonte il dinanzi, e negli spec- chi i lati; cosa che non ha mai potuto far la scultura. Affermano oltra di ció, che la pittura non lascia elemento alcuno che non sia ornato e ripieno di tutte le eccelleoze che la natura ha dato loro; dando la sua luce o le sue tenehre all'aria con tutte le sue varietà ed impressioni, ed empiendola insieme di tutte le sorti degli uccelli; alie 102 PROEMIO DI TUTTA L'OPERA acqne, la trasparenza, i pesci, i niuschi, le scliiiime, il variare delle onde, le navi e Paître sue passioni; alla terra, i monti, i piani, le piante, i frutti, i fieri, gli ani- mali, gli edifizj, con tanta moltitudine di cose e varietà delle forme loro e dei veri colori, che la natura stessa molte volte n'ha maraviglia; e dando finalmente al fuoco tanto di caldo e di luce, che e'si vede manifestamente ardere le cose, e quasi tremolando nelle sue fiamme ren- dere in parte luminose le più escure tenebre della nette, Per le quali cose par loro potere giustamente conchiudere, e dire che, contrapposte le difficulta degli scultori alie loro, le fatiche del corpo alie fatiche delPanimo, laimi- tazione circa la forma sola, alia imitazione delPapparenza circa la quantitk e'la qualith che viene alPocchio, il poco numero delle cose, dove la scultura può dimostrare e di- mostra la virtù sua, alio infinito di quelle che la pittura ci rappresenta, oltre il .conservarle perfettamente alio intelletto, e farne parte in quei luoghi che la natura non ha fatto ella, e contrappesato finalmente le cose del- Puna alie cose delPaltra; la nobilta della scultura, quanto alPingegno, alia invenzione ed al giudizio degli artefici suoi, non corrisponde a gran pezzo a quella che ha e mérita la pittura. E questo ë quelle che per Puna e per P altra parte mi ë venuto agli orecchi degno di consi- derazione. IV. Ma perchë a me pare che gli scultori abbiano par- lato con troppo ardire, e i pittori con troppo sdegno; per avere io assai tempo considerate le cose della scultura ed essermi esercitato sempre nella pittura, quantunque piccolo sia forse il frutto che se ne vede; nondimeno, e per quel tanto ch' egli ë, e per la impresa di questi scritti, giu- dicando mio debito dimostrare il giudizio che nelP animo mio ne ho fatto sempre (e vaglia Pautorità mia quanto ella può), dirò sopra tal disputa sicuramente e breve- mente il parer mio; persuadendomi di non sottentrare a PROEMIO DI TUTTA L'OPERA 103 €arico alcuno di prosunzione o d'ignoranza, non trattando io deirarti altrui come hanno già fatto molti rire nel per appa- vulgo intelligenti di tutte le cose mediante le lettere; e come, tra gli altri, avvenne a Formione ripatetico in pe- Efeso, che, ad ostentazione della eloquenza sua, predicando e disputando della virtù e parti dello ec- cellente capitano, non meno della prosunzione che della ignoranza sua fece ridere Annibale. Dico adunque, che la scultura e la pittura per il vero sono sorelle, nate di un padre, che è il disegno, in un sol parto e ad un tempo; e non preeedono Tuna all'altra, se non quanto la virtù e la forza di coloro che le portano addosso, fa Tuno passaré artefice innanzi all'altro, e non per differenze o grado di nobilth che veramente si trovi infra di loro. E, sebbene per la diversith dell'essenza loro hanno molte agevolezze, non sono elleno però në tante në di maniera ch'elle non vengano giustamente contrappesate insieme, e non si conosca la passione o la caparbieta, piuttosto che il giudizio, di chi vuole che l'una avanzi l'altra. Laonde a ragione si può dire che un'anima medesima regga due corpi; ed io per questo conchiudo che mal fanno coloro che s'ingegnano di disunirle e di l'una separarle dairaltra. Della qual cosa volendoci forse sgan- nare il cielo, e mostrarci la fratellanza e la unione di queste due nobilissime arti, ha in divérsi tempi fattoci nascere molti scultori che hanno dipinto, e molti pittori che hanno fatto delle sculture; come si vedrù nella Vita di Antonio del Pollaiolo, di Lionardo da Vinci, e di molti altri di giù passati. Ma nella nostra età ci ha prodotto la bonth divina Michelagnolo Buonarroti, nel quale amen- due queste arti si perfette rilucono, e si simili ed unite insieme appariscono, che i pittori delle sue pitture stu- piscono, e gli scultori le sculture fatte da lui ammirano e riveriscono sommamente. A cestui, perchë egli non avesse forse a cercare da altro maestro dove agiatamente col- 10-1 PEOEMIO DI TUTTA L'OPERA locare le figure fatte da lui, ha la natura donato si fat- tamente la scienza deirarchitettura, che, senza avere hi- sogno d'altrui, può e vale da se solo ed a queste ed a quelle immagini da lui formate dare onorato luogo e ad esse conveniente; di maniera che egli meritamente debhe esser detto scultore único, pittore sommo ed eccellen- tissimo architettore, anzi dell'architettura vero maestro. E hen possiamo certo affermare, che e'non errano punto coloro che lo chiamano divino; poiche divinamente \id. egli in se solo raccolte le tre piü lodevoli arti e le più in- gegnose che si trovino tra'mortali, e con esse, ad esempio d'une Iddio, infinitamente ci può giovare. E tanto hasti per la disputa fatta dalle parti, e per la nostra opinione. E, tornando oramai al primo proposito, dico che, volendo, per quanto si estendono le forze mié, trarre dalla vora- cissima bocea del tempo i nomi degli scultori, pittori ed architetti che da Cimabue in qua sono stati in Italia di qualche eccellenza notabile, e desiderando che questa mia fatica sia non meno utile che io me la sia proposta piace- vole; mi pare necessario, avanti che e'si venga all'istoria, fare sotto brevita una Introduzione a quelle tre arti nelle quali valsero coloro, di chi io debbo scrivere le Yite; a cagione che ogni gentile spirito intenda primieramente le cose pin notabili delle loro professioni; ed appresso, con piacere ed utile maggiore, possa conoscere apertamente in che e'fussero tra sé differenti, e di quanto ornamento e comodità alie patrie loro, e a chiunque volle valersi della industria e sapero di quelli. V. Comincerommi dunque dall'Architettura, come dalla più universale e più necessària ed utile agli uomini, ed al servizio e ornamento della quale sono l'altre due; e brevemente dimostrerrò la diversità delle pietre, le ma- niere o modi dell'edificare, con le loro proporzioni, ed a che si conoscano le buone fabbriche e bene hítese. Ap- presse, ragionando della seul tura, diró come le statue si PROEMIO Dl TUTTA L'OPERA 105 lavorino, la forma e la proporzione che si aspetta loro^ e quail siano le buone sculture, con tutti gli ammaestra- menti più segreti e più necessarj. Ultimamente, discor- rendo delia pittura, dirò del disegno, del modi del co- lorire, del perfettamente condurre le cose, della qualita di essa pittura e di qualunche cosa che da questa de- penda, de'musaici d'ogni sorte, del niello, degli smalti, de'lavori alia damaschina, e finalmente poi delle stampo delle pitture. E cosi mi persuado che queste fatiche mié diletteranno coloro che non sono di questi esercizj, e diletteranno e gioveranno a chi ne ha fatto professione. Perché, oltra che nella Introduzione rivedranno i modi dello operare, e nelle Vite di essi artefici impareranno dove siano 1'opere loro, e a conoscere agevolmente la. perfezione o imperfezione di quelle, e discernere tra ma- niera e maniera; e'potranno accorgersi ancora, quanta meriti lode ed onore chi con le virtù di si nobili arti ac- compagna onesti costumi e bontà di vita; ed ac'cesi di quelle laudi che hanno conseguite i si fatti, si alzeranno essi ancora alia vera gloria. Nè si cavera poco frutto della storia, vera guida e maestra delle nostre azioni, leggendo la varia diversity di infiniti casi occorsi agli artefici, qual- che volta per colpa loro e molte altre della fortuna. Re- sterebbemi a fare scusa dello avere alie volte usato qual- che voce non ben toscana : della qual cosa non vo' parlare, avendo avuto sempre più cura di usare le voci e i vocaboli particolari e proprj delle nostre arti, che i leggiadri o scelti della delicatezza degli scrittori. Siami lecito adun- que usare nella propria lingua le proprie voci dei nostri artefici, e contentisi ognuno della buona volontà mia:. la quale si ë mossa a fare questo efiëtto, non per inse- gnare ad altri, che non so per me, ma per desiderio di conservare almanco questa memoria degli artefici celebrati più ; poichë in tante decine di anni non ho saputo vedere ancora chi n'abbia fatto molto ricordo. Concios- 106 PROEMIO DI TUTTA L'OPERA siachë io ho piuttosto volute con queste rozze fatiche mie, ombreggiando gli egregj fatti loro, render loro in qualche parte Tobbligo che io tengo alie opere loro, che mi sono state maestre ad imparare quel tanto che io so, che malignamente, vivendo in ozio, esser censore delle opere altrui, acensándole e riprendendole, come alcuni spesso costumano. Ma egli è oggimai tempo di venire alio effetto. I INTRODUZIONE DI GIORGIO VASARIPITTORE ARETINO 107 ALLE TRE ARTI DEL DiSEGNO CIOB ARCHITETTUEA, SCULTURA E PITTUEA DELL' ARCHITETTUEA Capitolo I Délie diverse pietre che servono a^U Architetti per gli ornamenti, e per le statue alia Scultura, doe: Del porfido; del serpentino ; del del cipoUaccio; mischio; del granito; del granito bigio; delta pietra del dei paragone; marmi trasparenti; dei marmi hianchi, venati, dpolUni, saligni, campanini; del travertino ; délia lavagna; del perepigno ; delta pietra d'Isehia; délia pietra serena; delia pietra forte. Quanto sia grande T utile che ne apporta Tarchitet- tura, non accade a me raccontarlo, per trovarsi molti scrittori, i quali diligentissimamente ed a lungo n'hanno trattato. E per questo, lasciando da una parte le le calcine, arene, i legnami, i ferramenti, e T modo del fondare, e tutto quelle che si adopera alla fabbrica, e le Tacque, regioni e i siti, largamente gih descritti da Vitruvio* e dal nostro Leon Battista Alberti; * ragionerò solamente, ' De' libri di Vitruvio intorno 2l \YArchitettura è oggi a vedersi, rezione del per la cor- testo, la copia e la varietà delle illustrazioni ecc., l'edizione del leni Po- e dello Stratico, data in Udine con diligenze squisite dai fratelli Ad Mattiuzzi. essa è or fatta succedere una versione novella de' libri medesimi, che lingua per la non sarà forse anteposta in tutto a tutte le antecedenti, ma per le dichia- razioni de'passi diíficili,le giunte importan ti ecc., di cui dal traduttore Viviani) è (Quirico arricchita, riuscirà sicuramente la piü utile. ^ II suo latino trattato dell'Architettura fu cogli altri Pittura due, pur latini, delia e Scultura, tradotto toscanamente da Cosimo Bartoli. Un trattatello to- 108 INTRODUZIONE per servizio de'nostri artefici e di qualunque ama di sa- pare, come debbono essere umversalmente le fabbriche, e quanto di proporzione unite e di corpi, per conseguiré quella graziata bellezza che si desidera; e brevemente raccorrò insieme tutto quelle che mi parrà necessario a questo proposito. Ed acciocchë più manifestamente ap- parisca la grandissima difficulta del lavorar delle pietre che son durissime e forti, ragioneremo distintamente, ma con brevita, di ciascuna sorte di quelle che maneg- giano i nostri artefici, e primieramente del porfido. Que- sto ë una pietra rossa con minutissimi schizzi bianchi, condotta neir Italia già dalbEgitto, dove comunemente si crede che nel cavarla ella sia più teñera che quando ella ë stata, fuori della cava, alia pioggia, al ghiaccio e al sole; perchë tutte queste cose la fauno più dura e più difficile a lavorarla. Di questa se ne veggono infinite opere la- vorate, parte con gli scarpelli, parte segate, e parte con mote e con smerigli consúmate a poco a poco; come se ne vede in diversi luoghi diversamente più cose : cioë qua- dri, tondi ed altri pezzi spianati per far pavimenti, e cosï statue per gli edificj, ed ancora grandissimo numero di colonne e picciole e grandi, e fontane con tëste di varie maschere, intagliate con grandissima diligenza. Veggonsi ancora oggi sepolture con figure di basso e mezzo rilievo, condotte con gran fatica; come al templo di Bacco fuor di Eoma, a Sant'Agnesa la sepoltura che e' dicono di santa Costanza, figliuola di Costantino imperadore;' dove son dentro molti fanciulli con pampani ed uve, che fauno fede della difficulta ch'ebbe chi lavorò nella durezza di veramente áureo intorno alia prima dell'arti or nomínate, si trovera nel scano e trattato dell'Agricoltura d'uno de'nostri piú leggiadri scrittori, Gian Vittorio Soderini, che il Sarchiani pubblicó non molti anni sono, e ch'è finora pochis- simo conosciuto. * al tempio alia sepoltura, di oui qui si parla, e all'opinione, se- Intorno e condo la quale santa Costanza è fatta figliuola di Costantino, vedi il tomo III delle Sculture e Pitture sacre traite da' cimiteri. DELL' ARCHITETTÜRA 109 qiiella pietra. Il medesimo si vede in un pilo a San Gio- vanni Laterano vicino alla Porta Santa, che è storiatop ed ewi dentro gran numero di figure. Vedesi ancora sulla piazza delia Eitonda una bellissima cassa fatta per se- poltnra ^ la quale ë lavorata con grande industria e fa- tica, ed ë per la sua forma di grandissima grazia e di somma bellezza, e molto varia dalf altre; ed in casa di Egizio e di Fabio Sasso ne soleva essere una figura a se- dere di braccia tre e mezzo, condotta a'di nostri, con il resto deiraltre statue, in casa Farnese. Nel cortile an- cora di casa La Valle, sopra una finestra, una lupa molto eccellente; e nel lor giardino i due prigioni legati del medesimo pórfido, i quali son quattro braccia d'altezza r uno, lavorati dagli antichi con grandissimo giudicio : i quali sono oggi lodati straordinariamente da tutte le per- soné eccellenti, conoscendosi la difficolth che hanno avuto a condurli per la durezza della pietra. A'di nostri non s'ë mai condotto pietre di questa sorte a perfezione al- cuna, per avere gli artefici nostri perduto il modo deV temperare i ferri, e cosi gli altri strumenti da condurle.® Vero ë che se ne va segando con lo smeriglio rocchi di colonne e molti pezzi per accomodarli in ispartimenti per piani, e cosi in altri varj ornamenti per fabbriche, an- dándolo consumando a poco a poco con una sega di rame senza denti tirata dalle braccia di due uomini; la quale con lo smeriglio ridotto in polvero e con T acqua che con- * Questo pilo (o urna) a'giorni del Bottari e del Della Valle, notatori principali an- delle Vite del Vasari, trovavasi in un claustro, e molto malconcio. Indi fu restaurato per adórname i) Museo Glementino. * Fu quindi posta sul sepolcro di Clemente XII in San Giovanni nella Laterano, cappella della casa Gorsini. ' Le arche sepolcrali dei re Normanni che si vedono a e a Monrsale, attestano che anche nel medio-evo Palermo l'arte di lavorare il pórfido era conosciuta. Nè è da credere che queste urne siano reliquie dell'antichità, perché esse nella metà inferiere hanno la forma di bagnarola, il che non fu mai usato dai Greci e dai Romani, i quali dettero ai loro sarcofagi costantemente la cubo figura di un regolare. (Gosi il duca di Serra di Falco nella sua Duomo di magnifica Monreale opera sul ecc., Palermo, 1838, in-foglio). 110 INTEODUZIONE timTamente la tenga molle, finalmente pur lo ricicle. E sebbene si sono in diversi tempi provati molti begli in- gegni per trovare il modo di lavorarlo che usarono gli antichi, tntto è stato in vano: e Leon Battista Alberti, il quale fu il primo che cominciasse a far prova di lavo- rarlo, non però in cose di molto momento, non truovó fra môlti che ne mise in pruova, alcuna tempera che facesse meglio che il sangue di becco; perche, sebbene levava poco di quella pietra durissima nel lavorarla e sfavillava sempre fuoco, gli servi nondimeno di maniera, che fece fare nella soglia della porta principale di santa Maria JS ovella di Fiorenza le diciotto lettere antiche, che assai grandi e ben misurate si veggono dalla parte dinanzi in un pezzo di porfido; le quali lettere dicono bernakdo okicellaeio/ E perche il taglio dello scarpello non gli faceva gli spigoli, në dava alb opera quel pulhnento e quel fine che le era necessario, fece fare un mulinello a braccia con un ma- nico a guisa di stidione, che agevolmente si maneggiava, appuntandosi uno il detto manico al petto, e nella ingi- nocchiatura mettendo le mani per girarlo : e nella punta, dove era o scarpello o trapano, avendo messo alcune ro- telline di rame, maggiori e minori secondo il bisogno, quelle imbrattate di smeriglio, con levare a poco a poco e spianare, facevano la pelle e gli spigoli, mentre con la mano si girava destrámente il detto mulinello. Ma con tutte queste diligenze, non fece però Leon Battista altri lavori: perch' era tanto il tempo che si perdeva, che man- cando loro l'animo, non si mise altramente mano a statue, vasi, 0 altre cose sottili. Altri poi, che si sono messi a spianare pietre e rappezzar colonne col medesimo segreto, * Bernardo Rucellai, celebre per que'suoi Orti, ov'accoglieva l'ultima Acca- demia Platónica, e che dal suc cognome (preso dall'oricello) furon detti oricel- larj- autore di due libri latini, stimati dottissimi, sulla città di Roma e sui Magi- strati Romani, e di due commentarj storici, pur latini, sulla discesa di Carlo VIII in Italia e sulla Guerra di Pisa, che Erasmo, il quale li vide manoscritti, chiamô degni di Sallustio; e non ultimo fra i nostri autori di Canti Carnascialeschi. DELL' ARCHITETTüRA 1.11 hanno fatto in questo modo. Fannosi per qnesto eifetto alcune martella gravi e grosse, con le punte temperate d'acciaio, fortissimamente col sangue di becco, e layo- rate a guisa di punte di diamanti; con le quali minutamente picchiando. in sul pórfido, e scantonandolo a il poco a meglio che poco si può, si riduce pur finalmente o a tondo o a piano, come più aggrada air artefice, con fatica e tempo non picciolo; ma non già a forma di statue, che di non abhiamo questo la maniera; e se gli dh il pulimento con lo smeriglio e col cuoio, strofinaxidolo, che viene di lustro molto pulitamente lavorato e finito. Ed ancorchè ogni giorno si vadino piü assottigliando gl'ingegni umani, e nuove cose investigando, nondimeno anco i moderni, che in diversi tempi hanno per intagliare il pérfido nuovi provato modi, diverse tempre ed acciai molto ben hanno purgati, (come si disse di sopra), infino a pochi anni sono, fa- ticato invano. E pur Taimo 1553, avendo il signer Ascanio Colonna donato a papa Giulio III una tazza antica di fido por- bellissima, larga sette braccia, il pontefice per órname la sua vigna ordinò, mancándole alcuni pezzi, che la fusse restauraba : perché mettendosi mano alT opera, e pruo- vandosi molte cose per consiglio di Michelagnolo Buo- narroti e di altri eccellentissimi maestri, dopo molta lun- ghezza di tempo fu disperata Timpresa, massimamente non si potendo in modo nessuno salvare alcuni canti vivi, come il bisogno richiedeva.* E Michelagnolo, pur avvezzo alia durezza dei sassi, insieme con gli altri se ne tolse giù, në si fece altre. Finalmente, poichë niuna altra cosa in questi nostri tempi mancava alla perfezione delle no- stre arti, che il modo di lavorare perfettamente il perfide, ' Questa tazza alfine restaurata, dopo essere stata un delia Certosa, pezzo sulla fu piazza trasferita nel cortile delle statue a Pío Belvedere, indi nel Museo Clementino o Capitolino. Non è a confondersi al coll'altra Vaticano; grandissima oh' è ove pure, fra altre tazze, è la famosa di giallo antico, reduce da 112 INTRODÜZIONE acciocchë ne anco qnesto si abbia a disiderare, si ë in questo modo ritrovato. Avendo, l'anno 1555, il signor duca Cosimo condotto dal suo palazzo e giardino de' Pitti una bellissima di acqua nel cortile del suo principale palazzo Firenze, per farvi una fonte di straordinaria bellezza, tro- vati fra i suoi rottami alcuni pezzi di porfido assai grandi, ordinò che di quelli si facesse una tazza col suo piede per la detta fonte; e per agevolar al maestro il modo di lavorar il porfido, fece di non so che erbe stillar un' acqua di tanta virtù, che spegnendovi dentro i ferri bollenti, fa loro una tempera durissima. Con questo segreto, adunque, se- condo '1 disegno fatto da me, condusseFrancesco del Tadda, intagliator da Fiesole, la tazza della detta fonte, che ë larga due braccia e mezzo di diámetro, ed insieme il suo piede, in quel modo che oggi ella si vede nel detto pa- lazzo. n Tadda, parendoli che il segreto datogli dal duca fusse rarissime, si mise a far prova d'intagliar alcuna cosa; e gli riusci cosi bene, che in poco tempo ha fatto in tre ovati di mezzo rilievo, grandi quanto il naturale, il ritratto d'esso signor duca Cosimo, quelle della duchessa Leonora, ed una testa di Gesii Cristo, con tanta perfe- zione, che i capelli e le barbe, che sono difficilissimi nel- rintaglio, sono condotti di maniera che gli antichi non * stanno punto meglio. Di queste opere ragionando il signor Duca con Michelagnolo, quando Sua Eccellenza fu in Roma, non vofea creder il Buonarroti che cosi fusse; perchë, avendo io, d'ordine del Duca, mandata la testa del Cristo a Roma, fu veduta con molta maraviglia da Mi- chelagnolo, il quale la lodò assai, e si rallegrò molto di veder ne' tempi nostri la scultura arricchita di questo ra- * Francesco Ferrucci, detto il Tadda, fece altri simili lavori che qui non sono ricordati; fra i quali molte teste di G. C. e della V.ergine, e due ritratti dal di fra Girolamo Savonarola. Ne è memori^ nella Storia delle Pietre scritta del Riccio domenicano, che manoscritta possedeva il chiar. P. Agostino prof. Tar- gioni di Firenze ed oggi si conserva tra i codici della Palatina, unita alia Ma- gliabechiana. Vedi cap. 1, fol. 6. DELL' ARCHITETTURA 113 rissimo dono, cotanto invano insino a oggi desiderato. Ha finito últimamente il Tadda la testa di Cosimo veccliio de'Medici in uno ovato, come i detti di sopra, ed liafatto e fa continuamente moite altre somiglianti opere. Kestami a dire del porfido, che, per essersi oggi smarrite le cave di quelle, ë perciò necessario servirsi di spoglie di frammenti antichi, e di rocchi di colonne e di altri pezzi, e che però hisogna a chi lo lavera avvertire se ha avuto il fuoco; perciò che, quando Tha avuto, sebbene non perde in tutto il sue colore në si disfò., manca nondimeno pure assai di quella vivezza che ë sua propria, e non piglia mai cosi bene il pulimento, come quando non l'ha avuto; e, che ë peggio, quelle che ha avuto il fuoco si schianta facil- mente quando si lavera. E da sapere ancora, quanto alla natura del porfido, che messe nella fornace non si cuece, e non lascia intieramente cuocer le pietre che gli sono interno; anzi, quanto a së, incrudelisce: come ne dime- strano le due colonne che i Pisani, l'anno 1117, dona- reno a'Fiorentini dopo Tacquisto di Maiorica, le quali seno oggi alia porta principale del templo di San Gio- vanni,"non molto bene pulite e senza colore per avere avuto il fuoco, come nelle sue storie racconta Giovanni Villani.* Succédé al porfido il serpentino, il quale ë pietra di color verde, scuretta alquanto, con alcune crocette dentro giallette e lunghe per tutta la pietra, della quale nel me- desimo modo si vagliono gli artefici per far colonne e piani per pavimenti per le fabbriche; ma di questa sorte non s'ë mai veduto figure lavorate, ma si bene infinito numero di base per le colonne, e piedi di tavole, ed altri lavori più materiali. Perchë questa sorte di pietra si schianta, ancorchë sia dura più che il porfido, e riesce a lavorarla più dolce e men faticosa che il porfido: e ca- ' Vedi le sue Storie, lib. iv, cap. 30. ViSARi, Q Opere. — Vol. I. 114 INTRODUZIONE vasi in Egitto e nella Grecia: e la sua salclezza ne'pezzi non è molto grande; conciossiachè di serpentino non si è mai vednto opera alcnna in maggior pezzo di braccia tre per ogni verso, e sono state tavole e pezzi di pavi- menti. Si ë trovato ancora qnalche colonna, ma non molto grossa në larga; e similmente alcune maschere e men- sole lavorate, ma figure non mai. Qnesta pietra si lavora nel medesimo modo che si lavora il porfido. Più teñera poi di qnesta ë il cipollaccio, pietra che si cava in diversi luoghi; il quale ë di color verde acerbo e gialletto, ed ha dentro alcune macchie nere quadre, picciole e grandi e cosi bianche, alquanto grossette; e si veggono di qnesta sorte in più luoghi colonne grosse e sottili, e porte ed altri ornamenti, ma non figure. Di que- sta pietra ë una fonte in Roma in Belvedere, cioë una nicchia in un canto del giardino, dove sono le statue del Niló e del Tevere: la qual nicchia fece far papa Cle- mente YII col disegno di Michelagnolo per ornamento d'un fiume antico, acció in questo campo fatto a guisa di scogli apparisca, come veramente fa, molto bello. Di qnesta pietra si fauno ancora, segándola, tavole, tondi, ovati, ed altre cose simili, che in pavimenti e in altre forme plane fauno con l'altre pietre bellissima accompa- gnatura e molto vago componimento. Questa piglia il pu- limento come il porfido ed il serpentino, ed ancora si sega come r altre sorti di pietra dette di sopra; e se ne tro- vano in Roma infiniti pezzi sotterrati nelle mine, che giornalmente vengono a luce; e delle cose antiche se ne sono fatte opere moderne, porte ed altre sorte d'orna- menti, che fauno, dove elle si mettono, ornamento e gran- dissima bellezza. Ecci un'altra pietra chiamata mischio, dalla mescolanza di diverse pietre congélate insieme e fatto tutt'una dal tempo e dalla crudezza dell'acque. E di questa sorte se ne trova copiosamente in diversi luoghi; come ne'monti DELL' ARCÏÏITETTUEA 115 di Yeroiia, in quelli di Carrara, ed in qnei di Prato in Toscana, e nei monti deirimprnneta nel contado di Fi- renze. Ma i più belli ed i migliori si sono trovati, non ha inolto, a San Giusto a Monterantoli,^ lontano da Fio- renza cinqne miglia; e di questi me n"ha fatto il signer duca Cosimo ornare tutte le stanze nuove del palazzo in porte e camini, che sono riusciti molto belli; e per lo giar- dino deTitti se ne sono dal medesimo luogo cavate co- lonne di braccia sette, bellissime: ed io resto maravigliato che in questa pietra si sia trovata tanta saldezza. Qnesta pietra, perche tiene *d'alberese, piglia bellissime pnli- mente, e trae in colore di paonazzo rossigno, macchiato. di vene bianche e giallicce. Ma i più fini sono nella Grecia e neirEgitto, dove sono molto più duri che i nostri ita- liani: e di questa ragion di pietra se ne trova di tanti colori, quanto la natura lor madre s'è di continuo dilet- tata e diletta di condurre a perfezione. Di questi si fatti inischi se ne veggono in Roma ne' tempi nostri opere an- tiche e moderne; come colonne, vasi, fontane, ornamenti di porte, e diverse incrostature per gli edificj, e molti pezzi ne'pavimenti. Se ne vede diverse sorti di più co- lori; chi tira al giallo ed al rosso, alcuni al bianco ed al nero, altri al bigio ed al bianco, pezzato di rosso e ve- nato di più colori; cosi certi rossi, verdi, neri e bianchi: che sono orientali: e di questa sorte di pietra n'ha un pilo antichissimo, largo braccia quattro e mezzo, il si- gnor Duca al suo giardino de'Pitti; che è cosa rarissima, per esser, come s'è detto, orientale di mischio bellissimo e molto duro a lavorarsi. E cotali pietre sono tutte di specie più dura e più bella di colore e più fine, come ne fanno fede oggi due colonne di braccia dodici di altezza nella entrata di San Pietro in Roma, le quali reggono le prime navate; ed una n' è da una banda, l'altra dal- ' Oggi Monte Martiri nella Val d'Ema. 116 INTRODUZIONE raltra. Di questa sorte, qualla ch'è ne'monti di Yerona, è molto più teñera che Torientale infinitamente, e tira in color ceciato: e queste sorti si lavorano tntte bene a'giorni nostri con le tempere e co'ferri siccome le pietre nostrali, e se ne fa e finestra e colonne, e fontana e pa- vimenti, e stipiti par le porte e cornici; coma ne rende testimonianza la Lombardia, anzi tutta T Italia. Trovasi un^ altra sorte di pietra durissima, molto più ruvida e picchiata di neri e bianchi, e talvolta di rossi, dal tiglio e dalla grana di qualla, comunemente detta gra- nito, dalla quale si trova nello Egittb saldezze grandissime, e da cávame altezze incredibili: coma oggi si veggono in , Eoma negli obelischi, aguglie, piramidi, colonne, ed in que' grandissimi vasi de' bagni che abbiamo a S. Pietro in Vincola e a S. Salvadora deb Lauro e a S. Marco, edin colonne quasi infinite, che per la durezza e saldezza loro non hanno temuto fuoco në ferro ; ed il tempo istesso che tutte le cose caccia a terra, non solamente non le ha di- strutte, ma neppur cangiato il colore. E par questa cagione gli Egizj se ne servivano per i loro morti, scrivendo in queste aguglie, coi caratteri loro strani, la vita de'grandi, per mantener la memoria dalla nobiltá e virtù di qualli. Venivane d'Egitto medesimamente di un' altra ragione bigio, il quale trae più in verdiccio i neri ed i picchiati bianchi; molto duro certamente, ma non si, che i nostri scarpellini, per la fabbrica di S. Pietro, non abbiano dalle spoglie che hanno trovato messe in opera, fatto si che, con le tempere de' ferri che ci sono al presente, hanno ridotte le colonne e l'altre cose a qualla sottigliezza che hanno voluto, e datogli bellissimo pulimento come al pérfido. Di questo granito bigio ë dotata la Italia in moite parti; ma le maggiori saldezze che si trovino sono nell'isola del- l'Elba, dove i Eomani tennero di continuo uomini a ca- vare infinito numero di questa pietra. E di questa serte ne sono parte le colonne del portico dalla Ritonda, le quali DELL' ARCHITETTURA 117 son moite belle e di grandezza straordinaria; e vedesi che nella cava, quando si taglia, è più tenero assai che quando è stato cavato, e che vi si lavora con più facilita. Yero ë, che bisogna per la maggior parte lavorarlo con martelline che abbiano la punta, come quelle del porfío, e nelle gra- dine una dentatiira tagliente dall'altro lato. D'un pezzo delia qual sorte pietra, che era staccato dal masso, n'ha cavato il duca Cosimo una tazzâ tonda di larghezza di braccia dodici per ogni verso, ed una tavola della me- desima lunghezza per lo palazzo e giardino de'Pitti. Cavasi del medesimo Egitto, e di alcuni luoghi di Gre- cia ancora, certa sorte di pietra ñera detta paragone; la quale ha questo nome, perché volendo saggiar l'oro, s'ar- ruota su quella pietra, e si conosce il colore; e per questo, paragonandovi su, vien detto paragone. Di questa è un'al- tra specie di grana e di un altro colore, perché non ha il nero morato affatto, e non é gentile; che ne fecero gli an- tichi alcuna di quelle sfingi ed altri animali, come in Roma in diversi luoghi si vede, e di maggior saldezza una figura in Parione d'uno ermafrodito, accompagnata da un'altra statua di pórfido bellissima. La qual pietra é dura a in- tagliarsi, ma é bella straordinariamente, e piglia un lu*· stro mirabile. Di questa medesima sorte sene trova an- cora in Toscana iie'monti di Prato, vicino a Fiorenza a dieci miglia, e cosi ne'monti di Carrara: della quale alie sepolture moderne se ne veggono molte casse e dipositi per i morti; come nel Carmine di Fiorenza alia cappella inaggiore, dove é la sepoltura di Piero Soderini (sebbene non vi é dentro) di questa pietra, ed un padiglione si- mihnente di paragone di Prato, tanto ben lavorato e cosi lustrante, che pare un raso di seta e non un sasso inta- giiato e lavorato. Cosi ancora nella incrostatura di fuori del templo di S. Maria del Fiore di Fiorenza, per tutto lo edificio, é un'altra sorta di marmo nero e marmo rosso, che tutto si lavora in un medesimo modo. 118 INTRODUZIONE Cavasi alcuna sorte di marmi in Grecia e in tutte le parti d'Oriente che son bianclii e gialleggiano e traspaiono molto, i quali erano adoperati dagli antichi per bagni e per stufe e per tntti qne'luoghi, dove il vento potesse of- fendere gli abij-atori; ed oggi se ne veggono ancora al- cune finestre nella tribuna di S. Miniato a Monte, luego de'monaci di Monte Oli veto in su le porte di Firenze, che rendono chiarezza e non vento. E con questa invenzione riparavano al freddo, e facevano lume alie abitazioni loro. In queste cave medesime cavavano altri marmi senza vene, ma del medesimo colore, del quale eglino facevano le più nobili statue. Questi marmi di tiglio e di grana erano finissimi, e se ne servivano ancora tutti quelli che intagliavano capitelli, ornamenti ed altre cose di marmo per l'architettura; e vi eran saldezze grandissime di pezzi, come appare ne' Giganti di Montecavallo di Eoma, e nel Nilo di Belvedere, e in tutte le più degne e celebrate statue. E si conoscono esser greche, oltra il marmo, alla maniera delle teste ed alla acconciatura del capo ed ai nasi delle figure, i quali sono dalh appiccatura delle ciglia alquanto quadri fino alie nare del naso. E questo si lavora co'ferri ordinarj e co'trapani, e se gli dà il lustro con la pomice e col gesso di Tripoli, col cuoio e struffoli di paglia. Sono nelle montagne di Carrara nella Carfagnana, vi- ciño ai monti diLuni, molte sorti di marmi; come marmi neri, ed alcuni che traggono in bigio, ed altri che sono mischiati di rosso, ed alcuni altri che son con vene bigie, che sono crosta sopra marmi bianchi: perché non son pur- gati, anzi offesi dal tempo, dall'acqua e dalla terra, pi- gliano quel colore. Gavansi ancora altre specie di marmi, che son chiamati cipollini e saligni e campanini e mi- schiati; e perlo più una sorte di marmi bianchissimi e lattati, che sono gentili ed in tutta perfezione per far le figure. E vi s'è trovato da cavare saldezze grandissime, e se n' è cavato ancora a' giorni nostri pezzi di nove brae- DELL' ARCHITETTUEA 119 eia per far giganti, e d'un medesimo sasso ancora se ne sono cavati a tempi nostri due ; V uno fu il David che fece Michelagnolo Buonarroti, il quale è alla porta del palazzo del duca di Fiorenza; e Taltro Ercole e Caceo, che di mano del Bandinello sono all' altro lato delia medesima porta. IJn altro pezzo ne fa cavato pochi anni sono di braccia nove, perche il dette Baccio Bandinello ne fa- cesse un Nettuno per la fonte che il duca fa fare in piazza. Ma, essendo morte il Bandinello, ë state dato poi all'Am- mannato, scultore eccellente, perche ne faccia símilmente un Nettuno/ Ma di tutti questi marmi, quelli délia cava detta del Polvaccio, che ë nel medesimo luego, sono con manco macchie e smerigli, e senza que'nodi e noccioli che il più delle volte sogliono esser nella grandezza de'marmi, e recar non piccola difficultà a chi gli lavera, e bruttezza nell'opere, finite che sono le statue. Si sono ancora delle cave di Seravezza, in quel di Pietrasemta, avute colonne délia medesima altezza; come si può ve- dere una di moite che avevano a esser nella facciata di S. Lorenzo di Firenze, quale ë oggi abbozzata fuer delia porta di detta chiesa, dove l'altre sono parte alla cava rimase e parte alla marina.® Ma tornando alie cave di Pietrasanta,® dico che in quelle s'esercitarono tutti gli antichi; ed altri marmi che questi non adoperarono per fare, que'maestri che furono si eccellenti, le loro statue; esercitandosi di continuo, mentre si cavano le lor pietre per far le loro statue, in fare, ne'sassi medesimi delle cave, bozze di figure; come ancor oggi se ne veggono le ^ Questo Nettuno, detto in Firenze volgarmente il Biancone di Piazza, fu posto ed è tuttavia sopra la fonte allato al Palazzo Vecchio. ^ L'abbozzata, ch'era fuor della cliiesa a'giorni del Vasari, fu sotterrata ne'primianni del 1600, insieme con altri pezzi architettonici, in una fossa fatta sulla piazza lungo il fianço sinistro della detta chiesa. ' Parrebbe che invece di Pietrasanta dovesse dire Carrara, dalle cui cave sappiamo che gli antichi trassero i marmi per le loro opere ; mentre quelli di Pietrasanta non si cominciarono ad adoperare che interno al 1518, quando Mi- ■chelangelo ebbe a fare la facciata di San Lorenzo. 120 INTKODUZIONE vestigia di moite in quel luego. Di questa sorte adunque cavano oggi i moderni le loro statue, e non solo per il servizio della Italia, ma se ne manda in Francia, in In- ghilterra, in Ispagna ed in Portogallo: come appare oggi per la sepoltura fatta in ISTapoli da Giovan da Nola, seul- tore eccellente, a D. Pietro di Toledo vicerë di quel re- gno; che tutti i marmi gli furono donati e condotti in ISTapoli dal signer duca Cosimo de'Medici. Questa sorte di marmi ha in sè saldezze maggiori e più pastóse e mor- bide a lavorarla, e se le dh bellissimo pulimento più che ad altra sorte di marmo. Yero ë che si viene talvolta a scontrarsi in alcune vene, domarftiate dagli scultori sme- rigli, i quali sogliono rompere i ferri. Questi marmi si abbozzano con una sorte di ferri chiamati subbie, che hanno la punta a guisa di pali a faccie, e più grossi e sottili; e di poi seguitano con scarpelli detti carcagnuoli, i quali nel mezzo del taglio hanno una tacca ; e cosi con più sottili di mano in mano, che abbiano più tacche, e grintaccano quando sono arruotati con un altro scarpello. E questa sorte di ferri chiamano gradine, perchë con esse vanno gradinando e riducendo a fine le lor figure; dove poi con lime di ferro diritte e torte vanno cavando le gradine che son restate nel marmo; e cosi poi con la po- mice, arrotando a poco a poco, gli fauno la pelle che vo- gliono; e tutti gli strafori che fauno, per non intronare il marmo, gli fauno con trapano di minore e di maggior grandezza, e di peso di dodici libbre Tuno e qualche volta venti; chë di questi ne hanno di più sorte, e per far mag- giori e minori buche, e gli serven questi per finiré ogni sorte di lavoro e condurlo a perfezione. De'marmi bianchi venati di bigio gli scultori e gli architetti ne fanno or- namenti per porte e colonne per diverse case; servonsene per pavimenti e per incrostatura nelle lor fabbriche, e gli adoperano a diverse sorti di cose: similmente fanno di tutti i marmi mischiati. DELL' ARCHITETTURA 121 I marmi cipollini sono un'altra specie, di grana e co- lore différente, e di questa sorte n'ë ancora altrove che a Carrara; e questi il più pendono in verdiccio e son pieni di vene, che servopo per diverse cose, e non per figure. Quelli che gli scultori chiamano saligni, che tengono di congelazione di pietra, per esservi que'Instri ch'appari- scono nel sale e traspaiono alqnanto, ë fatica assai a farne le figure; perchë hanno la grana della pietra ruvida e grossa, o perchë nei tempi umidi gocciano acqua di conti- nuo, ovvero sudando. Quelli che si dimandano campanini, son qtiella sorte di inarmi che suonano quando si lavorano, ed hanno un certo suono più acuto degli altri: questi son duri, e si schiantano più fácilmente, che l'altre sorti sud- dette, e si cavano a Pietrasanta. A Seravezza ancora in più luoghi ed a Campiglia si cavano alcuni marmi che sono, per la maggior parte, huonissimi per lavoro di qua- dro, e ragionevoli ancora alcuna volta per statue; ed in quel di Pisa, al monte S. Giuliano, si cava simihnente una sorte di marmo bianco che tiene d'alberese, e di questi ë incrostato di fuori il Duomo ed il Camposanto di Pisa, oltre a molti altri ornamenti che si veggono in quella città fatti del medesimo. E perchë gih si conducevano i detti marmi del monte a S. Giuliano in Pisa con qualche incomodo e spesa, oggi, avendo il duca Cosimo, cosi per sanare il paese come per agevolare il condurre i detti marmi ed altre pietre che si cavano da que'monti, messo in canale diritto il fiunie d' Osoli ed altre moite acque che sorgeano in que'piani con danno del paese, si potranno agevolmente per lo detto canale condurre i marmi, o lavorati o in altro modo, con piccolissima spesa, e con grandissimo utile di quella città; che ë poco meno che tor- natanella prístina grandezza, mercë del detto signor duca Cosimo, che non ha cura che maggiormente lo prema che d'aggrandire e rifar quella città, che era assai mal con- dotta innanzi che ne fusse Sua Eccellenza signore. 122 INTRODUZIONE Cavasi un'altra sorte di pietra chiamata trevertinOy il quale serve molto per edificare e fare ancora intagli di diverse ragioni; che per Italia in molti luoghi se ne ya cavando, come in quel di Lucca ed a Pisa ed in quel di Siena da diverse bande : ma le maggiori saldezze e le migliori pietre, cioè quelle che son più gentili, si cavano in sul fiume del Teverone a Tivoli; che ë tutta specie di congelazione d'acque e di terra, che per la crudezza e freddezza sua non solo congela e petrificada terra, ma i ceppi, i rami e le fronde degli alberi. E, per Tacqua che riman dentro, non si potendo finiré di asciugare qiiando elle son sotto Tacqua, vi rimahgono i pori délia pietra cavati, che pare spugnosa e bucheraticcia, egualmente di dentro e di fuori. Gli antichi di questa sorte di pietra fecero le più mirabili fabbriche ed edificj che facessero, come sono i Colisei e T Erario da' Ss. Cosimo e Damiano, e molti altri edificj ; e ne mettevano nei fondamenti delle lor fabbriche infinito numero; e lavorandoli, non furon molto curiosi di farii finiré, ma se ne servivano rustica- mente ; e questo forse facevano perche hanno in së una certa grandezza e supèrbia. Ma ne' giorni nostri s'ë tro- vato chi gli ha lavorati sottilissimamente; come si vide gia in quel tempio tondo, che cominciarono, e non fini- rono, salvochë tutto il basamento, in sulla piazza di S. Luigi de'Francesi in Roma. Il quale fu condotto da un francese chiamato maestro Gian, che studiò l'artedello intaglio in Roma, e divenne tanto raro che fece il principio di questa opera, la quale poteva stare al paragone di quante cose eccellenti antiche e moderne che si sian visto d'in- taglio di tal pietra; per avere straforato sfere di astro- logi, ed alcune salamandre nel fuoco, imprese reali, ed in altre libri aperti con le carte, lavorati con diligenza trofei e maschere; le quali rendono, dove sono, testimonio delia eccellenza e bonth da poter lavorarsi questa pietra simile al marmo, ancorchë sia rustica. E reca in së una DELL' AECHITETTURA 123 graziapertutto, vedendo quella spugnosità de'bnchi uni- tamente, che fa bel vedere. Il quai principio di tempio, essendo imperfetto, fu levato dalla nazione francese, e le dette pietre ed altri lavori di quelle posti nella fac- data délia chiesa di S. Luigi, e parte in alcune cappelle, dove stanno molto bene accomodate e riescono bellis- sime. Questa sorte di pietra è buonissima per le muraglie, avendo sotto squadratola o scorniciata; perche si può in- crostarla di stucco, con coprirla con esse, ed intagliarvi ció ch'altri vuele: come fecero gli antichi neU'entrate pubbliche del Coliseo, ed in molti altri luoghi; e come ha fatto a' giorni nostri Antonio da San Grallo nella sala del palazzo del papa dinanzi alia cappella, dove ha incrostato di trevertini con stucco e con varj intagli eccellentissi- mámente. Ma più d'ogni altro maestro ha nobilitata questa pietra Michelagnolo Buonarroti nell' ornamento del cortile di casa Farnese, avendovi, con maraviglioso giudizio, fatto d'essa pietra far finestre, maschere, men- sole e tante altre simili bizzarrie, lavorate tutte come si fa il marmo, che non si può yeder alcun altro simile ornamento più bello. E se queste cose son rare, è stu- pendissimo il cornicione maggiore del medesimo palazzo nella facciata dinanzi, non si potendo alcuna cosa ne più bella në più magnifica desiderare. Delia medesima pietra ha fatto símilmente Michelagnolo, nel di fuori délia fab- brica di San Pietro, certi tabernacoli grandi; ë dentro, la cornice che gira interno alla tribuna, con tanta pulitezza, che non si scorgendo in alcun luego le commettiture, può conoscer ognuno agevolmente quanto possiamo ser- virci di questa sorte di pietra. Ma quelle che trapassa ogni maraviglia ë, che, avendo fatto di questa pietra la volta di una delle tre tribune del medesimo San Pietro, sono commessi i pezzi di maniera, che non solo viene collegata benissimo la fabbrica con varie sorti di com- mettiture, ma pare a vederla da terra tutta lavorata 124 INTRODUZIONE d'un pezzo. Ècci un'altra sorte di pietre che ten dono al nero, e non servono agli architettori se non a lastricare tetti. Queste sono lastre sottili, prodotte a suelo a suelo dal tempe e-dalla natura per servizio degli uoinini; che ne fanno ancora pile, murándole talmente insieme, che elle commettino r una neir altra, e le empiono d'olio se- conde la capacità de'corpi di quelle, e sicurissimamente ve lo conservano. Nascono queste nella riviera di Ge- nova, in un luego dette Lavagna, e se ne cavano pezzi lunghi dieci braccia, e i pittori se ne servono a lavorarvi su le pitture a olio, perche elle vi si conservano su molto più lungamente che nelle altre cose, come al suo luego si ragionerà ne' capitoli delia pittura. Avviene queste me- desimo delia pietra detta piperno, da molti detta pepe- rigno: pietra nericcia e spugnosa come il trevertino, la quale si cava per la campagna di Eoma, e se ne fanno stipiti di finestre e porte in diversi luoghi, come a Na- poli ed in Roma ; e serve ella ancora a' pittori a lavorarvi su a olio, come a suo luego racconteremo. E questa pietra alidissima, edha anzi dell'arsiccio che no. Cavasi ancora in Istria una pietra bianca livida, la quale molto age- volmente si schianta ; e di questa sopra di ogni altra si serve non solamente la città di Vinegia, ma tutta la Ro- magna ancora, facendone tutti i loro lavori e di quadro e d'intaglio ; e con sorte di stromenti e ferri più lunghi che gli altri la vanne lavorando, massimamente con certe martelline, andando seconde la falda delia pietra, per essere ella molto frangibile. E di questa sorte di pietra ne ha messe in opera una gran copia messer lacopo San- sovino, il quale ha fatto in Vinegia le edificio dorico délia Panatteria, ed il toscane alla Zecca in sulla piazza di San Marco. E cosi tutti i lor lavori vanne facendo per quella città, e porte, finestre, cappelle ed altri ornamenti che lor vien comedo di fare, non estante che da Verona per il fiume dello Adige abbiano comodità di condurvi i mischi DELL'ARCHITETTÜEA 125 ed altra sorte di pietre; delle quali poclie cose si veg- gono, per aver più in uso questa: nella quale spesso vi commettono dentro porfidi, serpentini, ed altre sorti di pietre mischie, che fanno accompagnate con essa bellis- simo ornamento. Questa pietra tiene d'alberese, come la pietra da calcina de'nostri paesi; e, come si è dette, age- volmente si scliianta. Restaci la pietra serena, e la bigia, detta macigno; e la pietra forte, che molto s'usa per Italia, dove son monti, e massimamente in Toscana, per lo più in Fiorenza e nel suo dominio. Quella ch'eglino chiamano pietra serena, ë quella serte che trae in az- zurrigno, ovvero tinta di bigio ; della quale n' ë ad Arezzo cave in più luoghi, a Corteña, a Yolterra e per tutti gli Appennini; e nei monti di Fiesole ë bellissima, per es- servisi cavato saldezze grandissime di pietre, come veg- giamo in tutti gli edificj che seno in Firenze fatti da Filippo di ser Brunellesco, il quale fece cavare tutte le pietre di San Lorenzo e di Santo Spirito, ed altre infinite che seno in ogni edificio per quella citth. Questa serta di pietra ë bellissima a vedere, ma dove sia umidità e vi pieva su, o abbia ghiacciati addosso, si logera e si sfalda; ma al coperto ella dura in infinito. Ma molto più dura- bile di questa e di più bel colore ë una sorte di pietra azzurrigna, che si dimanda oggi la pietra del Fossato; la quale quando si cava, il primo filare ë ghiaioso e grosso, il seconde mena nodi e fessure, il terzo ë mira- bile, perchë ë più fine. Della quai pietra Michelagnolo s'ë servito nella librería e. sagrestia di San Lorenzo per papa Clemente, per esser gentile di grana; ed ha fatto condurre le cornici, le colonne ed ogni lavoro con tanta diligenza, che d'argento non resterebbe si bella. E que- sta piglia un pulimento bellissimo, e non si può deside- rare in questo genere cosa migliore. E perciò fu già in Fiorenza ordinate per legge, che di questa pietra non si potesse adoperare se non in fare edifizj pubblici, o con 126 INTRODUZIONE licenza di cM governasse. Delia medesima n'lia fatto assai mettere in opera il duca Cosimo, cosi nelle colonne ed ornamenti delia loggia di Mercato Nuovo, come nel- Topera delTudienza cominciata nella sala grande del Pa- lazzo dal Bandinello, e nelT altra che ë a quella dirim- petto; ma gran qnantità, pin che in alcnn altro Inogo sia stato fatto giammai, n'ha fatto mettere Sua Eccel- lenza nella stanza de'Magistrati/ che fa condurre col di- segno ed ordine di Giorgio Yasari Aretino. Yuol qnesta sorte di pietra il medesimo tempo a esser lavorata che il marmo, ed ë tanto dura, che ella regge alTacqua e si difende assai dalT altre ingiurie del tempo. Fuor di questa n'ë un'altra specie clT ë detta pietra serena, per tutto il monte, ch' ë piíi ruvida e piti dura e non ë tanto colorita, che tiene di specie di nodi della pietra; la quale regge alTacqua, al ghiaccio, e se ne fa figure ed altri ornamenti mtagliati. E di questa n' ë la Dovizia, figura di man di Donatello, in su la colonna di mercato vecchio in Fiorenza : cosi molte altre statue fatte da persone ec- cellenti, non solo in quella citth, ma per il dominio. Ca- vasi per diversi luoghi la pietra forte ; la qual regge al- Tacqua, al sole, al ghiaccio ed a ogni tormento, e vuol tempo a lavorarla ; ma si conduce molto bene, e non v' ë molte gran saldezze. Della qual se n'ë fatto, e per i Goti 6 per i moderni, i piíi belli edificj che siano per la To- scana; come si può vedere in Fiorenza nel ripieno de'due archi che fanno le porte principali delT oratorio d'Orsan- michele, i quali sono veramente cose mirabili e con molta diligenza lavorate. Di questa medesima pietra sono siinil- mente per la città, come s'ë detto, molte statue ed arme; come interno alia fortezza ed in altri luoghi si può ve- dere. Questa ha il colore alquanto gialliccio, con alcune vene di bianco sottilissime che le danno grandissima gra- ^ Ossia nel grande edifizio, chi amato oggi gil Uffizj. DELL' AECHITETTÜRA 127 zia; e cosí se n'è usato fare qualche statua ancora, dove abbiano a essere fontane, perche reggono all'acqua. E di questa sorte di pietra è murato il palazzo dei Signori, la Loggia, Orsanmichele, ed il di dentro di tutto il corpo di Santa Maria del Fiore ; e cosi tutti i ponti di quella città, il palazzo de' Pitti e quelle degli Strozzi. Questa vuol es- ser lavorata con le martelline, perche è più soda; e cosi raltre pietre suddette vogliono esser lavorate nel me- desimo modo che s'ë dette del marino e dell'altre sorti di pietred Imperó, non estante le buone pietre e le tem- pere de'ferri, è di necessità l'arte, intelligenza e giudicio di colore che le lavorano; perche è grandissima differenza negli artefici, tenendo una misura medesima da mano a mano, in dar grazia e bellezza ail'opere che si lavorano. E questo fa discernere e conoscere la perfezione del fare da quelli che sanno a quei che manco sanno. Per con- sistere, adunque, tutto il bueno e la bellezza delle cose estremamente lodate, negli estremi délia perfezione che si dà aile cose che* tali son tenute da coloro che inten- dono, bisogna con ogni industria ingegnarsi sempre di farle perfette e belle, anzi bellissime e perfettissime. Capitolo II. Che cosa sia il lavara di quadra semplice, e ü lavara di quadra intagliata. Avendo noi ragionato cosi in genere di tutte le pietre che, o per ornamenti o per isculture, servono agli arte- fici nostri ne'loro bisogni, diciamo ora che, quando elle si lavorano per la fabbrica, tutto quello dove si adopera * Per la piú piena notizia delle pietre e de'marmi della Toscana special- mente, vedi i Viaggi di Œo. Targioni-Tozzetti, ed anche l'Atlante dello Zuc- cagni-Orlandini ; in ispecie la tavola quarta, che s' intitola dalla Valle del Ser- chio, ov'è data notizia di cave giá da gran tempo abbandonate, e recentemente riaperte. —Vedi anche il Ke^ietú, Dizianario ecc. della Toscana, art. «.C-ive», 128 introduzione la squadra e le seste e che ha cantoni, si chiama lavoro di quadro. E questo cognome deriva dalle facce e dagli spigoli che son quadri, perché ogni ordine di cornici, o cosa che sia diritta ovvero risaltata ed abbia cantónate, è opera che ha il nome di quadro ; e però volgarmente si dice fra gli artefici lavoro di quadro. Ma se ella non resta cosi pulita, ma si intagli in tai cornici, fregi, fo- gliami, uovoli, fusaruoli, dentelli, guscie ed altre sorti d'intagli, in quei membri che sono eletti a intagliarsi, da chi le fa, ella si chiama opera di quadro intagliata, ovvero lavoro d'intaglio. Di questa sorte opra di quadro e d'intaglio si fanno tutte le sorti Ordini: rustico, dorico, ionico, corinto e composto; e cosi se ne fece al tempo de' Goti il lavoro tedesco : e non si può lavorare nessuna sorte d'ornamenti, che prima non si lavori di quadro e poi d' intaglio, cosi pietre mischie e marmi e d'ogni sorte pietra; cosi come ancora di mattoni, per avervi a incro- star su opera di stucco intagliata; similmente di legno di noce e d'albero e d'ogni sorte legno. Ma, perche molti non san n o conoscere le differenze che sono da Ordine a Ordine, ragioneremo distintamente nel Capitolo che se- gue di ciascuna maniera o modo più brevemente che noi potremo. Capitolo III De'cinqiie Ordini d'architeUura, Bustico, Dorico, lonico, Corinto, Composto, e del lavoro Tedesco. II lavoro chiamato rustico ë più, nano e di più gros- sezza che tutti gli altri ordini, per essere il principio e fondamento di tutti; e si fa nelle modanature delle cornici piùsemplice, e per conseguenza più bello, cosi ne'capi- telli e base, come in ogni suo membro. I suoi zoccoli, o piedistalli che gli vogliam chiamare, dove posano le co- DELL' ARCHITETTURA 129 lonne, sono quadri di proporzione, con Tavere da pie la sua fascia soda, e cosí un'altra di sopra che lo ricinga in cambio di cornice. L' altezza della sua colonna si fa di sei teste, a imitazione di persone nane ed atte a regger peso: e di questa sorte se ne vede in Toscana molte logge pu- lite ed alia rustica, con bozze e nicchie fra le colonne e senza; e cosi molti portici, che gli costumarono gli an- tichi nelle loro ville; ed in campagna se ne vede ancora molte sepolture, come a Tivoli ed a Pozzuolo. Servironsi di questo Ordine gli antichi per porte, finestre, ponti, acquidotti, erarj, castelli, torri e ròcche da conservar munizione ed artiglieria; e porti di mare, prigioni e for- tezze, dove si fa cantónate a punte di diamanti ed a piü facce bellissime. E queste si fanno spartite in varj modi; cioè, o bozze piane, per non far con esse scala alie mu- raglie (perché agevolmente si salirebbe quando le bozze avesseno, come diciamo noi, troppo aggetto), o in altre maniere; come si vede in molti luoghi, e massimamente in Fiorenza, nella facciata dinanzi e principale della cit- tadella maggiore, che Alessandro primo duca di Fiorenza fece fare; la quale, per rispetto delf impresa de'Medici, è fatta a punte di diamante e di palle schiacciate, el'una c raltra di poco rilievo. II qual composto tutto di palle e di diamanti, uno allato all'altro, è molto ricco e vario, e fa bellissimo vedere. E di questa opera n' è molto per le ville de'Fiorentini, portoni, éntrate, e case e palazzi, dov'e'villeggiano; che non solo recano bellezza ed orna- mento infinito a quel contado, ma utilith e comodo gran- dissimo ai cittadini. Ma molto più ë dotata la citth di fabbriche stupendissime fatte di bozze; come quella di casa Medici, la facciata del palazzo de'Pitti, quollo degli Strozzi, ed altri infiniti. Questa sorte di edificj tanto quanto più sodi e semplici si fanno e con buon disegno, tanto più maestria e bellezza vi si conosce dentro ; ed ë necessario che questa sorte di fabbrica sia più eterna e Vasíiii , Opere. — Vol. i. g 130 INTRODUZIONE durabile di tutte Taltre, avvengachë sono i pezzi delle pietre maggiori, e molto migliori le commettiture, dovn si va collegando tutta la fabbrica con una pietra che lega Paîtra pietra. E perché elle son pulite e sode di membri, non hanno possanza i casi di fortuna o del tempo nuo- cerli tanto rígidamente, quanto fanno alie pietre inta- gliate e traforate, e, come dicono i nostri, campate in aria dalla diligenza degP intagliatori. L'ordine dorico fu il più massiccio ch'avesser i Greci, e più robusto di fortezza e di corpo, e molto più degli altri loro Ordini collegato insieme : e non solo i Greci, ma i Eomani ancora dedicarono questa sorte di edificj a quelle persone che erano armigeri, come imperatori di eserciti, consoli e pretori ; ma agli Dei loro molto maggiormente, come a Giove, Marte, Ercole ed altri; avendo sempre avvertenza di distinguere, seconde il lor genere, la dif- ferenza delia fabbrica o pulita o intagliata, o più sem- plice o più ricca, acciocche si potesse conoscere dagli altri 11 grado e la diíferenza fra gli imperatori, o di chi faceva fabbricare. E perciò si vede, alP opere che feciono gli an- tichi, essere stata usata molta arte ne' componimenti delle loro fabbriche, e che le modanature delle cornici doriche hanno molta grazia, e ne'membri unione e bellezza gran- dissima. E vedesi ancora, che la proporzione ne' fusi delle colonne di questa ragione e molto ben intesa; come quelle che non essendo ne grosse grosse nè sottili sottili, hanno forma somigliante, come si dice, alla persona di Ercole, mostrando una certa sodezza molto atta a reggere il pese degli architravi, fregi, cornici, ed il rimanente di tutto I'edificio che va sopra. E perche questo Ordine, come più sicuro e più fermo degli altri, ë sempre piaciuto molto al signor duca Cosimo, egli ha voluto che la fabbrica che mi fa far, con grandissimo ornamento di pietra, per tre- dici magistrati civili delia sua città e dominio, accanto al suo palazzo insino al fiume d'Arno, sia di forma do- DELL' ARCHITETTUEA 131 rica. Onde, per ritornare in uso il vero modo di fabbri- care, il quale vuole che gli architravi spianino sopra le colonne, levando via la falsita di girare gli archi delle loggie sopra i capitelli ; nella facciata dinanzi ho il seguitato vero modo che usarono gli antichi, come in questa fab- brica si vede. E perche questo modo di fare è state architetti dagli passati fuggito, perciocchë gli architravi di tra pie- che d'ogni sorte si trovano antichi e moderni, si veg- gono tutti o la maggior parte esser rotti nel mezzo, non estante che sopra il sedo delle colonne, delParchitrave, fregio e cornicie siano archi di mattoni piani che non toccano e non aggravano; io, dopo molto avere conside- rato il tutto, ho finalmente tróvate un modo bonissimo di mettere in uso il vero modo di far con sicm-ezza architravi degli detti, che non patiscono in" alcuna parte, e rimane il tutto saldo e sicuro quanto più non si può desi- derare, siccome la sperienza ne dimostra. II modo è dunque questo che qui di sotto si dirà, a beneficio del mondo e degli artefici. Messe su le colonne e sopra i capitelli gli architravi, che si stringono nel mezzo del diritto della colonna Tun l'altro, si fa un dado quadro: esempligra- zia, se la colonna ë un braccio grossa e l'architrave si- milmente largo ed alto, facciasi simile il dado del fregio; ma dinanzi gli resti nella faccia un ottavo per la com- mettitura del piombo, ed un altro ottavo o più sia in- taccato di dentro il dado a quartabuono da ogni banda. Partito poi neirintercolonnio il fregio in tre le due parti, dalle bande si augnino a quartabuono in che contrario, ricresca di dentro, acció si stringa nel dado e serri a guisa d'arco; e dinanzi la grossezza dell'ottavo vada a piombo, ed il simile faccia l'altra parte di là all'altra dado; e cosï si faccia sopra la colonna, che il pezzo del mezzo di detto fregio stringa di dentro, e sia intaccato a quartabuono insino a mezzo ; l'altra mezza sia diritta squadrata e e messa a cassetta, perchë stringa a uso d'arco„ 132 introduzione mostrando di fuori essore mnrata diritta. Facciasi poi, clie le pietre. di detto fregio non posino sopra l'archi- travo, e non s' accostino un dito; perciocchë facendo arco, viene a reggersi da së e non caricar T architrave. Facciasi poi dalla parte di dentro, per ripieno di detto fregio, un arco piano di matton alto quanto il fregio, che stringa fra dado e dado sopra le colonne. Facciasi di poi un pezzo di cornicione largo quanto il dado sopra le colonne, il quale abhia le conimettiture dinanzi come il fregio, e di denti'o sia detta cornice come il dado a quartahuono; usando diligenza che si faccia, come il fregio, la cornice di tre pezzi, de'quali due dalle bande stringano di dentro a cas- setta il pezzo di mezzo delia cornice sopra il dado del fregio. E avvertasi che il pezzo di mezzo delia cornice vada per canale a cassetta in modo, che stringa i due pezzi delle bande e serri a guisa d' arco. Ed in questo modo di far può veder ciascuno che il fregio si regge da së, e cosí la cornice, la quale posa quasi tutta in suif arco di mattoni. E cosi aiutandosi ogni cosa da per së, non viene a regger T architrave altro che il peso di se stesso, senza pericolo di rompersi giammai per troppo peso. E perchë la sperienza ne dimostra questo modo esser sicu- rissimo,ho voluto farne particulare menzione a commodo e beneficio universale; e massimamente conoscendosi che il mettere, come gli antichi fecero, il fregio e la cornice sopra rarchitrave, che egli si rompe in spazio di tempo, e forse per accidente di terremoto od altro, non lo difen- deudo a bastanza l'arco che si fa sopra il detto corni- cione. Ma girando archi sopra le cornici fatte in questa forma, incatenandolo al solito di ferri, assicura il tutto da ogni pericolo e fa eternamente durar T edificio. Di- ciamo adunque, per tornar a proposito, che questa sorte di lavoro si può usare solo da së, ed ancora metterlo nel secondo ordine da basso sopra il Rustico; ed alzando, mettervi sopra un altro ordine variato, come lonico o DELL' AECHITETTÜEA 133 Corinto o Composto; nella maniera che mostrarono gil antichi nel Coliseo di Roma, nel quale ordinatamente usa- roño arte e giudicio. Perché, avendo i Romani trionfato non solo de'Creci, ma di tutto il mondo, misero Topera composta in cima, per averia i Toscani composta di più maniere; e la misero sopra tutte, come superiore di forza, grazia e bellezza, e come più apparente delT altre, avendo a far corona alT edificio;,che, per essere ornata di be'mem- bri, fa nelT opera un finimento onoratissimo e da non de- siderarlo altrimenti. E, per tornare al lavoro dorico, dico che la colonna si fa di sette teste d'altezza, ed il suo zoccolo ha da essere poco manco d'un quadro e mezzo di altezza, e larghezza un quadro; facendogli poi sopra le sue cornici e di sotto la sua fascia col hastone e due piani, seconde che tratta Yitruvio; e la sua base e ca- pitello tanto d'altezza una quanto T altra, computando del capitello dal collarino in su; la cornice sua col fre- gio ed architrave appiccata, risaltando a ogni dirittura di colonna con que' canali che gli chiamano triglifi ordi- nariamente, che vengono partiti fra un risalto e T altro un quadro, dentrovi o teste di buoi secche, o trofei o maschere o targhe o altre fantasie. Serra l'architrave risaltando con una lista i risalti, e da pie fa un pianetto sottile tanto, quanto tiene il risalto; a pie del quale fanno sei campanelle per ciascuno, chiamate goccie dagli anti- chi. E se si ha da vedere la colonna accanalata nel do- rico, vogliono essere venti facce in cambio de'canali, e non rimanere fra canale e canale altro che il canto vivo. Di questa ragione opera iT è in Roma al foro Boario, ch' ë ricchissima; e d'un'altra sorte le cornici e gli altri mem- bri al teatro di Marcello, dove oggi ë la piazza Monta- nara; nella quale opera non si vede base, e quelle che si veggono sono corinte. Ed ë opinione che gli antichi non le facessero, ed in quelle scambio vi mettessero un dado tanto grande quanto teneva la base. E di questo 134 INTRODUZIONE n'è il riscontro a Roma al carcere Tulliano, dove son capitelli ricchi di membri piii che gli altri che si sian visti nel dorico. Di qnesto Ordine medesimo n'ha fatto Antonio da S. Gallo il cortile di casa Farnese in campo di Fiore a Roma, il quale è molto ornato e bello ; benche continuamente si veda di questa maniera tempj antichi e moderni, e cosí palazzi, i quali per la sodezza e col- legazione delle pietre son durati e mantenuti più che non hanno fatto tutti gli altri edificj. L'Ordine ionico, per esser più svelto del dorico, fu fatto dagli antichi a imitazione delle persone che sono fra il tenero ed il robusto ; e di questo rende testimonio raverio essi adoperato e messo in opera ad Apolline, a Diana e a Bacco, e qualche volta a Venere. II zoccolo che regge la sua colonna, lo fauno alto un quadro e mezzo, e largo un quadro; e le cornici sue, di sopra e di sotto, seconde questo Ordine. La sua colonna è alta otto teste i-e la sua base è doppia con due bastoni, come la descrive Vitruvio al terzo libro al terzo capo; ed il suo capitolio sia ben girato, con le sue volute o cartocci o viticci che ognun se li chiami, come si vede al teatro di Marcello in Roma, sopra 1'Ordine dorico; cosi la sua cornice adorna di mensole e di dentelli, ed il suo fregio con un poco di corpo tondo. E volendo accanalare le co- lonne, vogliono essere il numero de'canali ventiquattro, ma spartiti talmente, che ci resti fra l'un canale e l'ai- tro la quarta parte del canale che serva per piano. Questo Ordine ha in sè bellissima grazia e leggiadria, e se ne costuma molto fra gli architetti moderni. Il lavoro corinto piacque umversalmente molto a' Ro- mani, e se ne dilettarono tanto, che e'fecero di questo Ordine le più ornate ed onorate fabbriche per lasciar memoria di loro : come appare nel templo di Tivoli in sui Teverone, e le spoglie del templo delia Pace, e l'arco di Pola e quel del porto d'Ancona ; ma molto più è beUo DELL' ARCHITETTURA 135 il Panteón, cioë la Ritonda di Roma, il quale è il più ricco e '1 più ornato di tutti gli Ordini detti di sopra. Fassi il zoccolo che regge la colonna, di questa maniera: largo un quadro e due terzi, e la cornice di sopra e di sotto a proporzione, secondo Vitruvio: fassi Taltezza délia co- lonna nove teste con la sua base e capitello, il quale sark d'altezza tutta la grossezza délia colonna da pië, e la sua base sarù la metà di detta grossezza, la quale usa- rono gli antichi intagliare in diversi modi. E T ornamento del capitello sia fatto co'suoi vilucchi e le sue foglie, se- condo che scrive Vitruvio nel quarto libro, dove egli fa ricordo essere stato tolto questo capitello dalla sepoltura d'una fanciulla corinta. Seguitisi il suo architrave, fregio e cornice con le misure descritte da lui, tutte intagliate con le mensole ed uovoli ed altre sorti d'intagli sotto il goc- ciolatoio. Ed i fregi di quest'opera si possono fare inta- gliati tutti con fogliami, ed ancora fame dei puliti, ovvero con lettere dentro, come erano quelle al portico delia Ritonda, di bronzo commesso nel marmo. Sono i canali nelle colonne di questa sorte a numero ventisei, benchë n' ë di manco ancora ; ed ë la quarta parte del canale fra Tuno e l'altro che resta piano, come benissimo appare in moite opere antiche e moderne, misurate da quelle. L'Ordine composto, sebben Vitruvio non ne ha fatto menzione (nonfacendo egli conto d'altro che dell'opera doñea, iónica, corinta e toscana, tenendo troppo licen- ziosi coloro che, pigliando di tutt' e quattro quegli Ordini, ne facessero corpi che gli rappresentassero piuttosto mo- stri che uomini), per averio costumato molto i Romani ed a loro imitazione i moderni, non mancherò di questo ancora acció se n'abbia notizia, dichiarare e formare il corpo di questa proporzione di fabbrica ; credendo que- sto, che se i Greci ed i Romani formarono que'primi quattro Ordini e gli ridussero a misura e regola gene- rale, che ci possano essere stati di quelli che l'abbiano 136 INTRODUZIONE fin qui fatto neU'Ordine composto, e componendo da sè delle cose che apportino molto più grazia che non fanno le antiche. E che qnesto sia vero, ne fanno fede Topere che Michelagnolo Buonarroti ha fatto nella sagrestia e libreria di San Lorenzo di Firenze; dove le porte, i ta- bernacoli, le base, le colonne, i capitelli, le cornici, lo mensole, ed in somma ogni altra cosa, hanno del nuevo- e del composto da lui, e nondimeno sono maravigliosOy non che belle. Il medesimo, e maggiormente, dimostrò 10 stesso Michelagnolo nel seconde ordine del cortile di casa Farnese, e nella cornice ancora che regge di fuori 11 tetto di quel palazzo. E chi vuol veder quanto in questo modo di fare abbia mostrato la virtii di questo uoma (veramente venuto dal cielo) arte, disegno e varia ma- niera; consideri quelle che ha fatto nella fabbrica di San Pietro, nel riunire insieme il corpo di quella mac- china, e nel far tante sorti di varj e stravaganti orna- menti, tante belle modanature di cornici, tanti divers! tabernacoli, ed altre moite cose, tutte tróvate da lui e fatte variatamente dalhuso degli antichi. Perché niuna può negare che questo nuevo Ordine composto, avendo da Michelagnolo tanta perfezione ricevuto, non possa an- dar al paragone degli altri. E di vero, la bontà e virtù di questo veramente eccellente scultore e pittore e ar- chitetto ha fatto miracoli dovunque egli ha posto mano,, oltre air altre cose che sono manifeste e chiare come la. luce del sole, avendo siti storti dirizzati facihnente, e ri- dotti a perfezione molti edificj ed altre cose di cattivis- sima forma, ricoprendo con vaghi e capricciosi ornamenti i difetti dell'arte e della natura. Le quali cose non con- siderando con buon giudicio e non le imitando, hanna a' tempi nostri certi architetti plebei, prosontuosi e senza disegno, fatto quasi a caso, senza servar decoro, arte o- ordine nessuno, tutte le cose loro mostruose, e peggio che le tedesche. Ma, tornando a proposito di questo modo DELL' ARCHITETTUEA 137 di lavorare, è scorso l'uso, che già ë nominato qnesto Ordino, da alcuni composto, da altri latino, e per alcuni altri itálico. La misura dell'altezza di qnesta colonna vuole essere dieci teste; la base sia per la metà delia grossezza delia colonna, e misurata simile alla corinta, come ne appare in Eoma all'arco di Tito Vespasiano. E chi vorrà far canali in qnesta colonna, piiò fargli simile alla iónica, 0 come la corinta, o come saià l'animo di chi farà l'ar- chitettura di questo corpo, che ë misto con tutti gli Or- dini. I capitelli si posson fare simili ai corinti ; salvo che vuole essere più la cimasa del capitolio, e le volute o viticci alquanto più grandi, come si vede all'arco sud- detto. L'architrave sia tre quarti délia grossezza délia colonna, ed il fregio abbia il resto pion di mensole, e la cornice quanto l'architrave: chë l'aggetto la fa di- ventar maggiore, come si vede nell'Ordino ultimo del Coliseo di Eoma ; ed in dette mensole si possono far ca- nali a uso di triglifi, e altri intagli secondo il parere dell'architetto: ed il zoccolo, dove posa su la colonna, ha da essere alto due quadri ; e cosi le sue cornici a sua fantasia o come gli verrà in animo di farle. Usavano gli antichi, o per porte o sepolture o altre specie d'ornamenti, in cambio di colonne, termini di varie sorti; chi una figura ch'abbia una cesta in capo per capitolio; altri una figura fino a mezzo, ed il resto, verso la base, pirámide, ovvero tronconi d'alberi: e di questa sorte facevano vergini, satiri, putti, ed altre sorti di mostri o bizzarie che veniva lor comodo; e secondo che nasceva loro nella fantasia le mettevano in opera. Ecci un'altra specie di lavori che si chiamano tedeschi, 1 quali sono di ornamenti e di proporzione molto diffe- renti dagli antichi e dai moderni. Në oggi s'usano per gli eccellenti, ma son fuggiti da loro come mostruosi e bar- bari, dimenticando ogni lor cosa di ordine; che più tosto confusione o disordine si può chiamare, avendo fatto nelle 138 INTEODÜZIONE lor fabbriclie, che son tante che hanno ammorbato il mondo, le porte ornate di colonne sottili ed attorte a uso di vite, le quali non possono aver forza a reggere il peso, di che leggerezza si sia. E cosi, per tutte le facce ed altri loro ornamenti, facevano una maledizione di ta- bernacolini Tun sopra Taltro, con tante piramidi e punte 6 foglie, che, non ch'elle possano stare, pare impossibile ch'elle si possano reggere; ed hanno più il modo da parer fatte di carta, che di pietre o di marmi. Ed in queste opere facevano tanti risalti, rotture, mensoline e viticci, che sproporzionavano quelle opere che facevano; e spesso, con mettere cosa sopra cosa, andavano in tanta altezza, che la fine d'una porta toccava loro il tetto. Questa ma- niera fu trovata dai Goti, che, per aver ruinate le fab- briche antiche e morti gli architetti per le guerre, fecero dopo coloro che rimasero le fabbriche di questa maniera: le d^ali girarono le volte con quarti acuti, e riempierono tutta Italia di questa maledizione di fabbriche, che per non averne a far più s'ë dismesso ogni modo loro.^ Iddio scampi ogni paese dal venir tal pensiero ed ordine di la- vori; che, per essere eglino talmente diíformi alla bel- lezza delle fabbriche nostre, meritano che non se pe fa- velli più che questo. E però passiamo a dire delle volte. * L'angustia di una nota non ci consente narrare l'origine dell'architettura archiacuta ; ma che essa non ci venisse dai Goti, è un fatto che più non abbi- sogna di prove. In Italia ebbe forma e ordine proprio, che la parte dalla tedesca, dalla normanna e dalla moresca, sebbene talvolta mostrasse accostarsi a tutte queste diverse foggie. Che poi non sia \xn& maledizione, corae scrive il Vasari, mostro crederlo lo stesso Leon Battista Alberti. Nè è a tacersi che Raffaello, in quella dotta lettera ( già attribuita al Castiglione ) mandata a Leon X, negava ch'essa fosse un guastamento délia greca e délia romana; e riguardandola come cosa di genere affatto diverso, dicea che aveva e i suoi particolari pregi e i suoi particolari precetti. Ma di ció vedi la giunta quinta al libro iv di Vitruvio nella. traduzione che fu pubblicata in Udiue. DELL' AECHITETTÜEA 139 Capitolo IV Del fare le volte di getto, che vengano intagliate; guando si disarmino ; e d'impastar lo stucco. Quando le mura sono arrivate al termine che le volte s'abbiano a voltaré o di mattoni o di tufi o di spugna, bisogna, sopra T armadura de'correnti o piane, voltaré di tavole in cerchio serrato, che commettano seconde la forma della volta, o a schifo; e Tarmadura della volta, in quel modo che si vuele, con buonissimi puntelli formare, che la materia di sopra del peso non la sforzi; e dappoi saldissimamente turare ogni pertugio nel mezzo, ne'can- toni e per tutto, con terra, acciocchë la mistura non coli sotte quando si getta. E cesi armata, sopra quel piano di tavole si fanno casse di legno che in contrario siano lavorate, dove un cavo, rilievo; e cesi le cornici ed i inembri che far ci vogliamo, siano in contrario; acció quando la materia si getta, venga, dov'è cavo, di rilievo, e, dove è rilievo, cavo: e cesi similmente vogliono es- sere tutti i membri delle cornici al contrario scorniciati. Se si vuol fare pulita o intagliata, medesimamente è ne- cessario aver forme di legno che formino di terra le cose intagliate in cavo, e si faccian d'essa terra le piastre quadre di tali intagli, e quelle si commettano l'una al- raltra su'piani o gola o fregi che far si vogliano diritto per quella armadura. E finita di coprir tutta degl' intagli di terra, formati in cavo e commessi, gih di sopra detti, si debbe poi pigliare la calce con pozzolana o rena va- gliata sottile, stemperata liquida ed alquanto grassa, e di quella fare egualmente una incrostatura per tutte, finché tutte le forme sian piene. Ed appresso, sopra co'mattoni far la volta, alzando quelli 'ed abbassando, secondo che la volta gira; e di continuo si conduca con 140 introdüzione essi crescendo, sino ch'ella sia serrata. E finita tal cosa, si debbe poi lasciare far presa e assodare, finche tale opra sia ferma e secca. E dappoi, quando i puntelli si levano e la volta si disarma, fácilmente la terra si leva, e tutta Topera resta intagliata e lavorata, come se di stucco fosse condotta; e quelle parti che non son venute, si vanno cou lo stucco ristaurando, tanto che si riducano a fine. E cosi si sono condotte negh edificj antichi tutte Topero, le quali hanno poi di stucco lavorate sopra quelle. Cosi hanno ancora oggi fatto i moderni nelle volte di San Pietro, e molti altri maestri per tutta Italia. Ora, volendo mostrare come lo stucco s'impasti, si fa con un edificio in un mortaio di pietra postare la scaglia di marmo; në si toglie per quelle altrochë la calce che sia bianca, fatta o di scaglia di marmo o di trevertino; ed in cambio di rena si piglia il marmo posto, e si staccia sottilmente ed impastasi con la calce, mettendo due terzi calce ed un terzo marmo posto; e se ne fa del più grosso e sottile, seconde che si vuol laverare grossamente o sot- tilmente. E degli stucchi ci basti or questo, perche il restante si dirh poi, dove si trattera del mettergli in opra tra le cose delia scultura. Alla quale prima che noi passiamo, diremo brevemente delle fontane che si fanno per le mura, e degli ornamenti varj di quelle. Capitolo V Corne di tartarí e di colature d'acqm si conducono le fovtane rustiche; e corne nello stucco si murano le télUne e le colature delle pietre cotte. Si come le fontane che nei loro palazzi, giardini ed altri luoghi fecero gli antichi, furono di diverse maniere; cioë alcune isolate, con tazze e vasi d'altre sorte; altre allato aile mura, cou nicchie, maschere o figure ed or- namenti di cose marittime; altre poi per uso delle stufe DELL' ARCHITETTLTIA 141 più semplici e pulite, ed altre finalmente simili aile sal- vaticlie fonti clie naturalmente sorgono nei bosclii : cosi parimente sono di diverse sorti quelle che hanno fatto e fanno tuttavia i moderni; i quali, variandole sempre, hanno aile invenzioni degli antichi aggiunto componi- menti di opera toscana, coperti di colature d'acque pe- trificate, che pendono a guisa di radicioni fatti col tempo d'alcune congelazioni d'esse acque ne'luoghi, dove elle son crude e grosse: come non solo a Tivoli, dove il fiume Teverone petrifica 1 rami degli alberi ed ogni altra cosa che se gli pone innanzi, facendone di queste gromme e tartari; ma ancora al lago di Pie di Lupo,^ che le fa gran- dissime; ed in Toscana al fiume d'Eisa, l'acqua del quale le fa in modo chiare, che paiono di marmi, di vitrioli e d'allumi. Ma bellissime e bizzarre sopra tutte l'altre si sono tróvate dietro monte Morello, pure in Toscana, vicino otto miglia a Fiorenza. E di questa sorte ha fatte fare il duca Cosimo nel suo giardino dell'Olmo a Castelló gli ornamenti rustici delle fontane, fatte dal Tribolo seul- tore. Queste, levâte donde la natura l'ha prodette, si vanno accomodando nell'opera che altri vuol fare con spranghe di ferro, con rami impiombati o in altra ma- niera, e s'innestano nelle pietre in modo che sospese pen- daño; e, murando quelle addosso all'opera toscana, si fa che essa in qualche parte si veggia. Accomodando poi fra esse canne di piombo aseóse, e spartiti per quelle i buchi, versano zampilli d'acqua, quando si volta una chiave ch'è nel principio di detta cannella; e cosi si fanno condotti d'acqua e diversi zampilli, dove poi l'acqua piove per le colature di questi tartari, e colando fa dolcezza nell'udire e bellezza nel vedere. Se ne fa ancora d'un'altra specie di grotte più rústicamente composte, contraffa- cendo le fonti alla salvatica in questa maniera. , ' Altrimenti Piè di Luco. 142 INTRODUZIONE Pigliansi sassi spugnosi, e commessi die sono insieme, si fa nascervi erbe sopra, le quail con ordine che pala disordine e salvatico, si rendon molto natural! e più vere. Altri ne fanno di stucco più pulite e lisce, nelle quali mescolano I'uno e I'altro; e mentre quelle e fresco, met- tono fra esse, per fregi e spartimenti, gongole, telline, chiocciole marittime, tartarughe, e nicchi grandi e pic- coli, chi a ritto e chi a rovescio. E di quest! fanno vasi e festoni, in che cotali telline figurano le foglie, ed altre chiocciole ed i nicchi fanno le frutte; e scorze di testug- gini d'acqua vi si pone, come si vede alla vigna che fece fare papa Clemente Vil, quando era cardinale, a pie di monte Mario, per consiglio di Giovanni da Udine. Cosi si fa ancora in diversi colori un musaico rustico e molto hello, pigliando piccoli pezzi di colature di mat- toni disfatti e troppo cotti nella fornace, ed altri pezzi di colature di vetro, che vengono fatte quando nel troppo fuoco scoppiano le padelle de'vetri nella fornace: si fa, dico, murando i detti pezzi, fermandogli nello stucco, come s'è detto di sopra; e facendo nascere tra essi, co- ralli ed altri ceppi marittimi, i quali recano in se gra- zia e bellezza grandissima. Cosi si fanno animali e figure,, che si coprono di smalti in varj pezzi posti alia grossa,, e con le nicchie suddette; le quali sono bizzarra cosa a. vederle. E di questa specie n'è a Roma, fatte moderne, dimolte fontane, le quali hanno desto 1'animo d'infiniti a essere per tal diletto vaghi di si fatto lavoro. È oggi similmente in uso un' altra sorta d'ornamento per le fon- tañe, rustico affatto ; il quale si fa in questo modo. Fatta disotto r ossatura delle figure o d'altro che si voglia fare, e coperta di calcina o di stucco, si ricuopre al di fuori a guisa di musaico di pietre di marmo bianco o d' altro colore, seconde quelle che si ha da fare, owere di certa piccole pietre di ghiaia di diversi color!; e queste, quando sono con diligenza lavorate, hanno lunga vita; ele stucca DELL' AECHITETTURA 143 con che si murano e lavorano queste cose, è il medesimo che innanzi abbiamo ragionato ; e per la presa fatta, con essa rimangono múrate. A queste tali fontane di from- bole, cioë sassi di fiumi tondi e stiacciati, si fauno pa- vimenti, murando quelli per coltello e a onde, a uso d'acque, che fauno benissimo. Altri fauno alie più gen- till pavimenti di terra cotta a mattoncini con varj spar- timenti ed invetriati a fuoco, come in vasi di terra di- pinti di varj colorí, e con fregi e fogliami dipinti; ma questa sorte di pavimenti più conviene alie stufe ed a'bagni, che alie fonti. Capitolo VI Del modo di fare i pavimenti di commesso. Tutte le cose che trovar si poterono, gli antichi, an- corché con difficultà, in ogni genere o le ritrovarono o di ritrovarle cercarono; quelle, dico, che alia vista degli uomini vaghezza e varieth indurre potessero. Trovarono dunque, fra T altre cose belle, i pavimenti di pietre ispar- titi con varj misti di porfidi, serpentini e graniti, con tondi e quadri o altri spartimenti, onde s'immaginarono che fare si potessero fregi, fogliami, ed altri andari di disegni e figure. Onde, per poter meglio ricevere Popera tal lavoro, tritavano i marmi, acciocche, essendo quelli minori, potessero per lo campo e piano con essi rigirare in tondo e diritto ed a torto, seconde che veniva lor meglio; e, dal commettere insieme questi pezzi, lo di- mandarono musaico, e nei pavimenti di molte loro fab- briche se ne servirono: come ancora veggiamo nelP Auto- niano di Roma* ed in altri luoghi; dove si vede il musaico ' Cioè alie terme di Caracalla. 14i INTRODÜZIONE lavorato con qnadretti di marmo piccoli, conducendo fogliami, maschere ed altre bizzarrie; e con quadri di marmo biancM ed altri qnadretti di marmo nero fecero il campo di quelli. Questi dunque si lavoravano in tal modo: facevasi sotto un piano di stucco fresco di calce e di marmo, tanto grosso che bastasse per tenere in së i pezzi coinmessi ferinamente, sinchë fatto presa si po- tessero spianar di sopra; perché facevano, nel seccarsi, una presa mirabile ed uno smalto maraviglioso, che në Tuso del camminare në Tacqua non gli offendeva. Onde, essendo questa opera in grandissima considerazione ve- ñuta, gli ingegni loro si misero a speculare più alto, es- sendo facile a una invenzione trovata aggiugner sempre qualcosa di bonth. Perché, fecero poi i musaici di marmi piíi fini, e per bagni e per stufe i pavimenti di quelli; e con più sottile magistero e diligenza quei lavoravano sottilissimamente, facendovi pesci variati, ed imitando la pittura con varie sorte di colori atti a ció, con più specie di marmi, mescolando anco fra quelli alcuni pezzi triti di quadretti di musaico di ossa di pesce, ch'hanno la pelle lustra. E cosi vivamente gli facevano, che Tacqua postavi di sopra velandoli, pur che chiara fosse, gli fa- ceva parere vivissimi nei pavimenti ; come se ne vede in Parione in Eoina, in casa di messer Egidio e Fabio Sasso. Perché, parendo loro questa una pittura da poter reggere alie acque ed ai venti e al sole per T eternith sua; e pen- sando che tale opra molto meglio di lontano che d'ap- presse ritornerebbe, perché cosi non si scorgerebbono i pezzi che il musaico dappresso fa vedere; gli ordinarono per ornare le volte e le pareti dei muri, dove tai cose si avevano a veder di lontano. E perché lustrassero, e dagli umidi ed acque si difendessero, pensarono tal cosa doversi fare di vetri, e cosi gli misero in opra; e, facendo ció bellissimo vedere, ne ornarono i tempj loro ed altri luoghi, come veggiamo oggi ancora a Roma il templo di dell' architeïtuïia Bacco, ed altri. Talchë da quelli di marmo derivano questi» che si chiamano oggi musaico di vetri; e da quel di vetri s'è passato al musaico di gusci d'uovo; e da questi al musaico del far le figure e le storie di chiaro scuro, pur di commessi, che paiono dipinte: come tratteremo al suo luogo nella pittura. Capitolo VII Corne si lia a conoscere uno edificio proponzionato hene, e che parti generalmente se gli convengono. Ma perche il ragionare delle cose particolari mi fa deviar troppo dal mio proposito, lasciata questa minuta considerazione agli scrittori delh architettura, dirò sola- mente in universale, come si conoscano le huone fabbri- che, e quello che convenga alla forma loro per essere insieme ed utili e belle. Quando s'arriva, dunque, a uno edificio, chi volesse vedere s'egli è stato ordinato da uno architettore eccellente, e quanta maestria egli ha avuto, e sapere s'egli ha saputo accomodarsi al sito e alla vo- lontà di chi l'ha fatto fabbricare, egli ha a considerare tutte queste parti. In prima; se chi lo ha levato dal fon- damento, ha pensato se quel luogo era disposto e capace a ricevere quella qualità e quantità di ordinazione, cosi nello spartimento delle stanze come negli ornamenti che per le mura comporta quel sito, o stretto o largo, o alto o basso; e se è stato spartito con grazia e conveniente misura, dispensando e dando la qualità e quantità di colonne, finestre, porte, e riscontri delle facce fuori e dentro nelle altezze o grossezze de'mûri, ed in tutto quello che c'intervenga a luogo per luogo. E di neces- sità che si distribuiscano per lo edificio le stanze, ch'ab- biano le lor corrispondenze di porte, finestre, cammini, scale segrete, anticamere, destri, scrittoi, senza che vi si Vasabi , Opere. — Vol. I. 146 INTRODUZIONE vegga errori; come saria una sala grande, un portico pic- ciolo e le stanze minori; le quali, per esser membra del- r edificio, ë di necessità ch'elle siano, come i corpi umaniy egualmente ordinate e distribuite seconde le qualita e varietà delle fabbriche: come tempj tondi, in ottp facce^ in sei facce, in crece e quadri; e gli ordini varj secondo> chi, ed i gradi in che si trova chi le fa fabbricare. Per- ciocchë, quando son disegnati da mano che abbia giu- dicio, con bella maniera mostrano l'eccellenza dell'arte- fice e l'animo dell' autor delia fabbrica. Perciò figureremo,. per meglio essere intesi, un palazzo qui di sotto; e questo ne darà lume agli altri edificj, per mode da peter cono- scere, quando si vede, se ë ben formato o no. Tn prima^ chi considerérà la facciata dinanzi, lo vedrà levato da terra o su un ordine di scalee o di muricciuoli, tanto che questo sfogo lo faccia uscir di terra con grandezza, e serva che le cucine o cantine sotto terra siano più vive di lumi e più alte di sfogo: il che anco molto difende r edificio da'terremoti ed altri casi di fortuna. Bisogna poi che rappresenti il corpo dell' nomo nel tutto e nelle parti similmente; e che, per avere egli a temere i venti, l'acque e l'altre cose della natura, egli sia fognato con smaltitoi, che tutti rispondino a un centro, che porti via tutte insieme le bruttezze ed i puzzi che gli possano ge- nerare infermità. Per l'aspetto suo primo, la facciata vuole avere decoro e maestà, ed essere compartita come la faccia dell'uomo. La porta, da basso ed in mezzo, cosi come nella testa ha l'uomo la bocca, donde nel corpo passa ogni sorte di alimento; le finestre, per gli occhi, una di qua e l'altra di là, servando sempre parità, che non si faccia se non tanto di qua quanto di là negli or- namenti, o d'archi o colonne o pilastri o nicchie o fine- stre inginocchiate, ovvero altra sorte d'ornamento, con le misure ed ordini che già s'ë ragionato, o dorici o ionici o corinti o toscani. Sia il suo cornicione che regge il tetto, DELL' AECHITETTUEA 147 fatto con proporzione délia facciata, secondo ch'egli ë grande, e che Tacqna non bagni la facciata e chi sta nella strada a sedere. Sia di sporto secondo la propor- zione dell'altezza e délia larghezza di quella facciata. Entrando dentro, nel primo ricetto sia magnifico, e uni- tamente corrisponda ail'appiccatura délia gola ove si passa; e sia svelto e largo, acciocchë le strette o de'ca- valli o d'altre calche, che spesso v'intervengono, non facciano danno a loro medesimi nell'entrata o di feste 0 d'allegrezze. Il cortile, figurato per il corpo, sia qua- dro ed uguale, ovvero un quadro e mezzo, come tutte le parti del corpo ; e sia ordinato di parith di stanze den- tro con belli ornamenti. Vogliono le scale pubbliche esser comode e dolci al salire, di larghezza spaziose e d'altezza sfogate, quanto però comporta la proporzione dei luoghi. Yogliono, oltre a ció, essere ornate o copiose di lumi, ed almeno sopra ogni pianerottolo dove si volta, avere finestre o altri lumi; ed insomma, vogliono le scale in ogni sua parte avere del magnifico, attesochë molti veg- giono le scale e non il rimanente delia casa. E si può dire che elle sieno le braccia e le gambe di questo corpo; onde, siccome le braccia stanno dagli lati dell'uomo, cosi devono queste stare dalle bande dell' edificio. Në lascerò di dire che l'altezza degli scaglioni vuole essere un quinto almeno, e ciascuno scaglione largo due terzi, cioë (come si ë detto) nelle scale degli edifizj pubblici, e negli altri a proporzione; perchë, quando sono ripide, non si possono salire në da'putti në dai vecchi, e rompono le gambe. E questo membro ë più difficile a porsi nelle fabbriche; e per essere il più frequentato che sia e più comune, avviene spesso che, per salvar le stanze, le guastiamo. E bisogna che le sale con le stanze di sotto facciano un appartamento comune per la state, e diversamente le camere per più persone; e sopra siano salotti, sale, e divers! appartamenti di stanze che rispondano sempre 148 INTRODUZIONE nella maggiore; e cosi facciano le cucine e T altre stanze: che quando non ci fosse quest'ordine, ed avesse 11 com- ponimento spezzato, ed una cosa alta e T altra bassa, e chi grande e chi piccola, rappresenterebbe uomini zoppi, travolti, biechi e storpiati; le quali opere fanno che si riceve biasimo, e non Iode alcuna. Debbono i componi- menti, dove s'ornano le facce o fuori o dentro, aver cor- rispondenza nel seguitar gli ordini loro nelle colonne; e che i fusi di quelle non sian lunghi o sottili, o grossi o corti, servando sempre il decoro degli ordini suoi; ne si debba a una colonna sottile metter capitel grosso ne base simili, ma seconde il corpo le membra, le quali ab- biano leggiadria e bella maniera e disegno. E queste cose son più conosciute da un occhio buono; il quale, se ha giudicio, si può tenere il vero compasso e Tistessa mi- sura, perche da quelle saranno lodatele cose e biasimate. E tanto basti aver dette generalmente dell'architettura, perche il paríame in altra maniera non ë cosa da questo luego. BELLA SCULTURA Capitolo i Che cosa sla la scultura, e come siano fatte le scultxire huone, e che parti elle dehhono avere per essere tenute perfette. La scultura ë un'arte che, levando il superflue dalla materia suggetta, la riduce a quella forma di corpo che nella idea dello arteflce ë disegnata. Ed ë da considerare che tutte le flgure, di qualunque serte si siano, o inta- gliate ne'marmi o gittate di bronzi o fatte di stucco o di legno, avendo ad essere di tondo rilievo, e che gi- rando interno si abbiano a vedere per ogni verso ; ë di DELLÀ SCULTÜRA 149 necessità, che, a volerle chiamar perfette, elhablbiano di molte partí. La prima è, che, quando una símil figura ci si presenta nel primo aspetto alia vista, ella rappre- senti e renda somiglianza a quella cosa, per la quale ella è fatta, 0 fiera o umile o bizzarra o allegra o malenco- nica, secondo chi si figura; e che ella abbia corrispon- denza di parità di membra: cioè non abbia le gambe lunghe, il capo grosso, le braccia corte e disformi; ma sia ben misurata, ed uguahnente a parte a parte con- cordata dal capo a'piedi. E símilmente, se ha la faccia di vecchio, abbia le braccia, il corpo, le gambe, le mani ed i piedi di vecchio; unitamente ossuta per tutto,mu- scolosa, nervuta, e le vene poste a'luoghi loro. E se arà la faccia di giovane, debbe parimente esser ritonda, mor- bida e dolce nelharia, e per tutto unitamente concor- data. Se ella non arà ad essere ignuda, facciasi che i panni ch'ella arà ad aver addosso, non siano tanto triti ch'abbino del secco, ne tanto grossi che paino sassi; ma siano, con il loro andar di pieghe, gnrati talmente, che scuoprino lo ignudo di sotto, e con arte e grazia talora lo mostrino e talora lo ascondino, senza alcuna crudezza che offenda la figura. Siano i suoi capelli e la barba lavorati con una certa morbidezza, svellati e rie- ciuti, che mostrino di essere sfilati, avendoli data quella maggior piumosità e gràzia che può lo scarpello; ancor- che gli scultori in questa parte non possino cosi bene contraffare la natura, facendo essi le ciocche dei capelli sode e ricciute, più di maniera che di imitazione naturale. Ed ancora che le figure siano vestite, è necessario di fare i piedi e le mani che siano condotte di bellezza e di bontà come T altre parti. E per essere tutta la figura tonda, è forza che in faccia, in profilo e di dietro ella sia di proporzione uguale, avendo ella a ogni girata e veduta a rappresentarsi ben disposta per tutto. E ne- cessario adunque che ella abbia corrispondenza, e che 150 INTRODUZIONE ugualmente ci sia per tutto attitudine, disegno, miione, grazia e diligenza ; le quali cose tutte insieme dimostrino ringegno ed il valore dell'artefice. Debbono le figure, COS! di rilievo come dipinte, esser condotte più con il giudicio che con la mano, avendo a stare in altezza dove sia una gran distanza; perche la diligenza dell'ultimo finimento non si vede da lontano, ma si conosce bene la bella forma delle braccia e deUe gambe, ed il buon giudicio nolle falde de'panni con poche pieghe; perche nella semplicita del poco si mostra I'acutezza deir inge- gno. E per questo, le figure di marino o di bronzo che vanno un poco alte, vogliono essore traforate gagliarde; acciocchë il marmo che ë bianco, ed il bronzo che ha del nero, piglino all'aria della oscurita, e per quella ap- parisca da lontano il lavoro esser finito, e dappresso si vegga lasciato in bozze. La quale avvertenza ebbero gran- demente gli antichi, come nolle lor figure* tonde e di mezzo rilievo che negli archi e nolle colonne veggiamo di Eoma, le quali mostrano ancora quel gran giudicio ch'essi ebbero; ed infra i moderni si vede essore stato osservato il medesimo grandemente, nolle sue opere, da Donatello. Debbesi oltra di questo considerare, che quando le statue vanno in un luogo alto, e che a basso non sia molta distanza da potersi discostare a giudicarle da Ion- taño, ma che s'abbia quasi a star loro sotto; che cosí fatte figure si debbon fare di una testa o due più d'al- tezza. E questo si fa, perchë quelle figure che son poste in alto, si perdono nello scorto della veduta, stando di sotto, e guardando alio in su : onde ció che si dà di ac- crescimento» viene a consumarsi nella grossezza dello scorto; e tornano poi di proporzione, nel guardarle, giu- ste e non nane, ma con bonissima grazia. E quando non piacesse far questo, si potra mantenere le membra della figura sottilette e gentili ; chë questo ancora torna quasi il medesimo. Costumasi per molti artefici fare la figura DELLÀ SCULTURA 151 di nove teste; la quale vien partita in otto teste tutta, eccetto la gola, il collo e Taltezza del piede, che con queste torna nove : perche due sono gli stinchi, due dalle ginocchia a'membri genitali, e tre il torso fino alla fon- tanella delia gola, ed un'altra dal mento all'ultimo delia fronte, ed una ne fanno la gola e quella parte ch' ë dal dosso del piede alia pianta; che sono nove. Le braccia vengono appiccate alie spalle, e dalla fontanella all'ap- piccatura da ogni banda ë una testa; ed esse braccia «ino alia appiccatura delle mani, sono tre teste; ed al- largandosi l'uomo con le braccia, apre appunto quanto egli ë alto. Ma non si debbe usare altra miglior misura che il giudicio dell'occhio; il quale, sebbene una cosa sarà benissimo misurata ed egli ne rimanga offeso, non resterà per questo di biasimarla. Però diciamo, che seb- bene la misura ë una retta moderazione da ringrandire le figure talmente, che le altezze e le larghezze, ser- vato l'ordine, facciano l'opéra proporzionata e graziosa, l'occhio nondimeno ha poi con il giudicio a levare e ad aggiugnere seconde che vedrà la disgrazia dell'opera, tal- mente, ch' e' le dia giustamente proporzione, grazia, di- segno e perfezione, acciocchë ella sia in së tutta lodata da ogni ottimo giudicio. E quella statua o figura che averà queste parti, sarà perfetta di bontà, di bellezza, di disegno e di grazia. E tali figure chiameremo tonde; purchë si possano vedere tutte le parti finite, come si vede nell'uomo girándolo attorno; e símilmente poi l'altre «he da queste dipendono. Ma e'mi pare oramai tempo da venire aile cose più particulari. 152 introduzione Capiïolo II Del fare i modelli di cera e di terra, e come si vestino, e come a propor- zione si ringrandiscJiino poi nel marmo ; come si stibhino e si gradinino e puliscano e impomicino e si lustrino e si rendano finiti. Sogliono gli scnltori, quando vogliono lavorare una figura di marmo, fare per quella un modello, che cosi si chiama; cioè uno esempio, che ë una figura di gran- dezza di mezzo braccio, o meno o più, secondo che gli torna comodo, o di terra o di cera o di stucco, perché e' possan mostrare in quella Tattitudine e la proporzione che ha da essere nella figura che e'voglion fare, cer- cando accomodarsi alia larghezza ed all'altezza del sasso che hanno fatto cavare per farvela dentro. Ma, per mo- strarvi come la cera si lavora, diremo del lavorare la cera, e non la terra. Questa, per renderla più mórbida, vi si mette dentro un poco di sevo e di trementina e di peco ñera; delle quali cose il sevo la fa più arrendevole; e la trementina, tegnente in se, e la pece le dù il colore nero, e le fa una certa sodezza dappoi ch' ë lavorata nello .stare fatta, che ella diventa dura. E chi volesse anco faria d'altro colore, può agevolmente; perchë, metten- dovi dentro terra rossa, ovvero cinabrio o minio, la farà giuggiolina, o di somigliante colore; se verderame, verde;; ed il simile si dice degli altri colori. Ma ë bene da av- vertire che i detti colori vogliono esser fatti in polvero e stacciati, e cosi fatti, essere poi mescolati con la cera,, liquefatta che sia. Fassene ancora, per le cose piccolo, e per fare medaglie, ritratti e storiette, ed altre cose di hassorilievo, della hianca. E questa si fa mescolando con la cera hianca biacca in polvero, come si ë detto di sopra. Non tacerò ancora, che i moderni artefici hanno trovato il modo di fare nella cera le mestiche di tutte DELLÀ SCULTUEA 153 le sorti colorí : onde, nel fare ritratti di naturale di mezzo rilievo, fauno le carnagioni, i capelli, i panni e tutte raltre cose in modó simili al vero, che a cotali figure non manca, in un certo modo, se non lo spirito e le pa- role. Ma, per tornare al modo di fare in cera; acconcia questa mistura ed insieme fonduta, fredda ch'ella ë, se ne fa i pastelli; i quali, nel maneggiarli, dalla caldezza delle mani si fanno come pasta, e con essa si crea una figura a sedere, ritta, o come si vuele, la quale abbia sotto un'armadura, per reggerla in se stessa, o di legni o di fili di ferro, seconde la volonta dell' artefice ; ed ancor si può far con essa e senza, come gli torna bene : ed a poco a poco, col giudicio e le mani lavorando, crescendo la materia, con i stecchi d'osso, di ferro o di legno, si spinge in dentro la cera ; e con mettere dell' altra sopra, si aggiugne e raffina, finché con le dita si dh a questo modello 1'ultimo pulimento. E finito ció, volendo fare di quelli che siano di terra, si lavera a similitudine della cera, ma senza armadura di sotto, o di legno o di ferro, perché li farebbe fendere e ¿repare ; e mentre che quella si lavera, perché non fenda, con un panno bagnato si tien coperta, fino che resta fatta. Finiti questi piccioli modelli, o figure, di cera o di terra, si ordina di fare un altro modello che abbia ad essere grande quanto quella stessa figura che si cerca di fare di marmo: nel che fare, perché la terra, che si lavera umida, nel sec- carsi rientra, bisogna, mentre che ella si lavera, fare a bell'agio e rimetterne su di mano in mano; e nell'ul- tima fine, mescolare con la terra farina cotta, che la mantiene mórbida e leva quella secchezza : e questa dili- genza fa che il modello, non rientrando, rimane giusto e simile alla figura che s'ha da lavorare di marmo. E perché il modello di terra grande si abbia a reggere in sé, e la terra non abbia a fendersi, bisogna pigliare della cimatura, o borra che si chiami, o pelo; e nella terra 154 INTRODUZIONE mescolare quella, la quale la rende in së tegnente, e non la lascia fendere. Armasi dl legni sotto, e di stoppa stretta, 0 fieno, con lo spago ; e si fa Tossa delia figura, e se le fa fare quelT attitudine che bisogna, seconde il modello pic- ciolo, diritto 0 a sedere che sia; e, cominciando a co- prirla di terra, si conduce ignuda, lavorandola in sino al fine. La qual condotta, se se le vuol poi far panni ad- dosso che siano sottili, si piglia pannolino che sia sottile; e se grosso, grosso; e si bagua, e bagnato, con la terra s'interra, non liquidamente, ma di un loto che sia al- quanto sodetto; e attorno alla figura si va acconciandolo, che faccia quelle pieghe e ammaccature che T animo gli porge; di che, secco, verra a indurarsi e manterrà di continuo le pieghe. In questo modo si conducono a fine 1 modelli e di cera e di terra. Volendo ringrandirlo a proporzione nel marmo, bisogna che nella stessa pietra onde s'ha da cavare la figura, sia fatta fare una squadra, che un dritto vada in piano a'pië délia figura, e Taltro vada in alto e tenga sempre il fermo del piano, e cosï il dritto di sopra; e similmente, un'altra squadra o di legno o d'altra cosa sia al modello, per via delia quale sipiglino le misure da quella del modello, quanto spor- taño le gambe fuera e cosi le braccia : e si va spingendo la figura in dentro con queste misure, riportandole sul marmo dal modello ; di maniera che misurando il marmo ed il modello a proporzione, viene a levare della pietra con gli scarpelli, e la figura a poco a poco misurata viene a uscire di quel sasso, nella maniera che si caverebbe d'una pila d'acqua, pari e diritta, una figura di cera; che prima verrebbe il corpo e la testa e le ginocchia, ed a poco a poco scoprendosi ed in su tirándola, si vedrebbe poi la ritondità di quella fin passato il mezzo, e in ultimo la ritondith delT altra parte. Perche quelli che hanno fretta a lavorare, e bucano il sasso da principio, e le- vano la pietra dinanzi e di dietro risolutamente, non DELLÀ SGULTURA 155 hanno poi luogo dove ritirarsi, bisognandoli: e di qui na- scono molti errori che sono nelle statue; che, per la vo- glia c'ha Tartefice del vedere le figure tonde fuor del sasso a un tratto, spesso si gli scuopre un errore che non può rimediarvi se non vi si mettono pezzi commessi, corne ahbiamo visto costumare a molti artefici moderni : il quale rattoppamento è da ciahattini, e non da uomini eccel- lenti 0 maestri rari; ed ë cosa vilissima e brutta e di grandissimo biasimo. Sogliono gli scultori, nel fare le sta- tue di marmo, nel principio loro abbozzare le figure con le subbie; che sono una specie di ferri da loro cosi no- minati, i quali sono appuntati e grossi; e andaré levando e sub blando grossamente il loro sasso; e poi, con altri ferri detti calcagnuoli, c^ hanno una tacca in mezzo e sono corti, andaré quella ritondando; per sino che eglino ven- ghino a un ferro piano più sottile del calcagnuolo, che ha due tacche, ed è chiamato gradina, col quale vapno per tutto con gentilezza gradinando la figura, colla pro- porzione de'muscoli e delle pieghe, e la tratteggiano di maniera, per la virtù delle tacche o denti predetti, che la pietra mostra grazia mirabile. Questo fatto, si va le- vando le gradinature con un ferro pulito; e per dare per- fezione alla figura, volendole aggiugnere dolcezza, mor- bidezza e fine, si va con lime torte levando le gradine. Il simile si fa con altre lime sottili e scuffine diritte, limando, che resti piano; e dappoi con punte di pomice si va impomiciando tutta la figura, dándole quella car- nosità che si vede nelle opere maravigliose délia seul- tura. Adoperasi ancora il gesso di Tripoli, acciocchë Tab- bia lustro e pulimento: similmente con paglia di grano, facendo struffoli, si stropiccia: talchë, finite e lústrate, si rendono agli occhi nostri bellissime. 156 introduzione Capitolo III De'bassi e de'mezzi rilievi; la difficultà del fargli; ed in che consista il condurgli a perfezione. Quelle figure che gli scultori chiamano mezzi rilievi, furono tróvate già dagli antichi per fare istorie da ador- nare le mura piane, e se ne servirono ne'teatri e negli archi per le vittorie; perche, volendole fare tutte tonde, non le potevano situare, se non facevano prima una stanza ovvero una piazza che fusse piaña. Il che volendo sfug- gire, trovarono una specie che mezzo rilievo nominarono, ed è da noi cosi chiamato ancora: il quale, a similitu- dine d'una pittura, dimostra prima Tintero delle figure principali, o mezze tonde o più, come sono; e le seconde occupate deJle prime, e le terze dalle seconde; in quella stessa maniera che appariscono le persone vive quando elle sono ragunate e ristrette insieme. In questa specie di mezzo rilievo, per la diminuzione delTocchio, si fanno l'ultime figure di quelle basse; come alcune teste, bas- sissime; e cosi i casamenti ed i paesi, che sono T ultima cosa. Questa specie di mezzi rilievi da nessuno è inai stata meglio në con più osservanza fatta, në più pro- porzionatamente diminuita o allontanata le sue figure Tuna dalTaltra, che dagli antichi; come quelli che, imi- tatori del vero e ingegnosi, non hanno mai fatto le figure in tali storie che abbiano piano che scorti o fugga, ma T hanno fatte coi proprj piedi che posino sulla cornice di sotto: dove alcuno de'nostri moderni, animosi più del dovere, hanno fatto nelle storie loro di mezzo rilievo po- sare le prime figure nel piano che ë di basso rilievo e sfugge, e le figure di mezzo sul medesimo, in modo che stando cosi, non posano i piedi con quella sodezza che naturalmente dovrebbono; laonde spesse volte si vede DELLÀ SCULTURA 157 le punte de'pié di quelle figure che voltano il di dietro, toccarsi gli stinchi delle gamhe per lo scorto che ë vio- lento. E di tali cose se ne vede in moite opere moderne, ed ancora nelle porte di San Griovanni, ed in più luoghi di quella eth. E per questo, i mezzi rilievi che hanno questa proprieta, sono falsi; perché, se la metà delia figura si cava fuori del sasso, avendone a fare altre dopo quelle prime, vogliono avere regola dello sfuggire e dimi- nuire, e co'piedi in piano, che sia più innanzi il piano che i piedi, come fa Tocchio e la regola nelle cose di- pinte; e conviene che elle si abbassino di mano in mano a proporzione, tanto che vengano a rilievo stiacciato e basso; e per questaunione che in ció bisogna, é difficile dar loro perfezione e condurgli, attesoché nel rilievo ci vanno scorti di piedi e di teste, ch'é necessario avere grandissime disegno a volere in ció mostrare il valore dello artefice. E a tanta perfezione si recano in questo grado le cose lavorate di terra e di cera, quanto quelle di bronzo e di marmo. Perché, in tutte le opere che avranno le parti che io dico, saranno i mezzi rilievi. tenuti bel- lissimi, e dagli artefici intendenti sommamente lodati. La seconda specie, che bassi rilievi si chiamano, sono di manco rilievo assai che il mezzo, e si dimostrano almeno per la metà di quelli che noi chiamiamo mezzo rilievo ; e in questi si puó con ragione fare il piano, i casamenti, le prospettive, le scale ed i paesi; come veggiamo ne'per- gami di bronzo in San Lorenzo di Firenze, ed in tutti i bassi rilievi di Donato, il quale in questa professione la- voró veramente cose divine, con grandissnna osserva- zione. E questi si rendono all' occhio facili e senza errori o barbarismi, perché non sportano tanto in fuori che pos- sano dare causa di errori o di biasimo. La terza specie si chiamano bassi e stiacciati rilievi, i quali non hanno altro in sé, che '1 disegno d^lla figura con ammaccato e stiac- ciato rilievo. Sono diffícili assai, attesoché e'ci bisogna 158 introduzione disegno grande ed invenzione, avvengachè questi sono faticosi a dargli grazia per amor de'contorni; ed in que- sto genere ancora Donato lavorò meglio d'ogni artefice, con arte, disegno ed invenzione. Di questa sorte se n'è visto ne'vasi antichi aretini assai figure, maschere, ed altre storie antiche; e símilmente ne'cammei antichi, e nei conj da stampare le cose di bronze per le medaglie, e símilmente nelle monete. E questo fecero, perche se fossero state troppo di ri- llevo, non avrebbono potuto coniarle; chè al colpo del martello non sarebbono venute 1'imprente, dovendosi im- primere i conj nella materia gittata, la quale, quando è bassa, dura poca fatica a riempire i cavi del conio. Di que- sta arte vediamo oggi molti artefici moderni che l'hanno fatta divinissimamente, e più che essi antichi; come si dirk nelle Vite loro plenamente. Imperó, chi conoscerk ne' mezzi rilievi la perfezione delle figure fatte diminuiré con osservazione, e ne'bassi la bontà del disegno per le prospettive ed altre invenzioni, e negli stiacciati la net- tezza, la pulitezza e la bella forma delle figure che vi si fauno, gli farâ, eccellentemente per queste parti tenere o lodevoli o biasimevoli, ed insegnerk conoscerli altrui, Capitolo IV Come si fanno i modelli per fare di l·ronzo le figure grandi e e come le picdole, farme per huttarle; come si armiño di ferri, e come si di gettino- metcdlo, e di tre sorti hronzo; e come, gittate, si cesellino e si ri~ nettino; e come, mancando pezzi clw non fussero venuti, s'innestino e commettino nel medesimo hronzo. Usano gli artefici eccellenti, quando vogliono gittare o di métallo o bronzo figure grandi, fare nel principio una statua di terra tanto grande, quanto quella che e'vogliono buttare di métallo, e ¿a conducono di terra a quella perfezione ch'è concessa dall'arte e dallo studia DELLÀ SCULTÜRA 159 loro. Fatto questo, che si chiama da loro modello, e con- dotto a tutta la perfezione deU'arte e del saper loro, co- minciano poi, con gesso da fare presa, a formare sopra questo modello parte per parte, facendo addosso a quel modello i cavi pezzi; e sopra ogni pezzo si fanno riscon- tri, che un pezzo con I'altro si commettano, segnandoli 0 con numeri o con alfabeti o altri contrassegni, e che si possano cavare e reggere insieme. Cosi a parte per parte lo vanno formando, e ungendo con olio fra gesso e gesso dove le commettiture s'hanno a congiugnere; e cosi di pezzo in pezzo la figura si forma, e la testa, le braccia, il torso e le gambe, per fin all'ultima cosa: di maniera che il cavo di quella statua, cioè la forma inca- vata, viene improntata nel cavo con tutte le parti ed ogni minima cosa che è nel modello. Fatto ció, quelle forme di gesso si lasciano assodare e riposare : poi pigliano un palo di ferro, che sia più lungo di tutta la figura che vogliono fare e che si ha a gettare, e sopra quello fanno un'anima di terra; la quale mórbidamente impastando, vi mescolano stereo di cavallo e cimatura ; la quale anima ha la medesima forma che la figura del modello, ed a suelo a suelo si cuece per cavare la umidità delia terra, e questa serve poi alla figura; perche gettando la statua, tutta questa anima, ch' ë soda, vien vacua, në si riempie di bronze, che non si potrebbe muovere per lo peso: cosi ingrossano tanto e con pari misure quest'anima, che seal- dando e cocendo i suoli, come ë dette, quella terra vien cotta bene, e cosi priva in tutto dell'umido, che, gittan- dovi poi sopra il bronze, non può schizzare o fare nocu- mento, come si ë visto gik moite volte con la morte de'maestri e con la rovina di tutta l'opéra. Cosi vanno bilicando questa anima, e assettando e contrappesando 1 pezzi, finchë la riscontrino e riprovino, tanto ch'eglino vengono a fare che si lasci appunto la grossezza del me- tallo, 0 la sottilità, di che vuoi che la statua sia. 160 INTRODUZIONE Armano spesso quest'anima per traverso con perni di rame, e con ferri che si possano cavare e mettere, per tenerla con sicurtà e forza maggiore. Quest'anima, quando ë finita, novamente ancora si ricuoce con fuoco dolce; e cavatane interamente l'umidità, se pur ve ne fusse restata punto, si lascia poi riposare; e ritornando a'cavi del gesso, si formano quelli pezzo per pezzo con cera gialla, che sia stata in molle e sia incorporata con un poco di trementina e di sevo. Fondutala dunque al fuoco, la gettano a metà per metà ne'pezzi di cavo; di maniera che l'artefice fa venire la cera sottile seconde la volontà sua per il getto ; e tagliati i pezzi seconde che sono i cavi addosso all'anima, che già di terra s'ë fatta, gli commettono ed insieme gli riscontrano e innestano, e con alcuni hrocchi di rame sottili fermano sopra l'anima cotta i pezzi délia cera confitti da detti hrocchi ; e cosi a pezzo a pezzo la figura innestano e riscontrano, e la rendono del tutto finita. Fatto ció, vanne levando tutta la cera dalle bave délia superfiuità de'cavi, conducendola il più che si può a quella finita hontà e perfezione, che si desidera che abbia il getto. Ed avant! che e' proceda più innanzi, rizza la figura e considera diligentemente se la cera ha mancamente alcuno, e la va racconciando e riempiendo, o rinalzando o abbassando dove mancasse. Appresso, finita la cera e ferma la figura, mette l'artefice su due alari, o di legno o di pietra o di ferro, come un arrosto, al fuoco la sua figura, con comodità che ella si possa alzare e abbassare; e con cenere bagnata, appro- priata a quell'uso, con un pennello tutta la figura va ricoprendo che la cera non si vegga, e per ogni cavo e pertugio la veste bene di questa materia. Dato la cenere, rimette i pernj a traverso, che passano la cera e l'anima, seconde che gli ha lasciati nella figura : perciocchë questi hanno a reggere l'anima di dentro, e la cappa di fuori, che ë la incrostatura del cavo fra l'anima e la cappa, dove DELLÀ SCULTUEA 161 il bronzo si getta. Armato ció, Tartefice comincia a torre delia terra sottile con cimatura e stereo di cavallo, come dissi, battuta insieme; e con diligenza fa una incrosta- tura per tutto sottilissima, e quella lascia seccare; e cosi volta per volta si fa T altra incrostatura con lasciare sec- care di continuo, finche viene interrando ed alzando alla grossezza di mezzo palmo il più. Fatto ció, que'ferri che tengono l'anima di dentro, si cingono con altri ferri •che tengono di fuori la cappa, ed a quelli si fermano, ^ l'un l'altro incatenati e serrati fanno reggimento l'uno all'altro. L'anima di dentro regge la cappa di faori, e la cappa di fuori regge l'anima di dentro. Usasi fare certe cannelle tra l'anima e la cappa, le quali si dimandano venti, che sfiatano aU'insù, e si mettono, verbigrazia, da un ginocchio a un braccio che alzi; perché questi danno la via al métallo di soccorrere quello che per qual- che impedimento non venisse, e se ne fanno pochi ed assai, seconde che è difficile il getto. Ció fatto, si va dando il fuoco a tale cappa ugualmente per tutto, tal che ella venga unita ed apoco apoco a riscaldarsi, rin- forzando il fuoco sino a tanto che la forma si infuochi tutta; di maniera che la cera che è nel cavo di dentro venga a struggersi, tale che ella esca tutta per quella banda, per la quale si debbe gittare il métallo, senza che ve ne rimanga dentro niente. Ed a conoscere ció, bisogna -quando i pezzi s'innestano su la figura, pesarli pezzo per pezzo: cosí poi nel cavare la cera, ripesarla; e, facendo il calo di quella, vede l'artefice se n' è rimasta fra l'anima e la cappa, e quanta n'è uscita. E sappi che qui consiste la maestria e la diligenza dell'artefice a cavare tal cera; dove si mostra la difficultà di fare i getti, che venghino belli e netti. Attesoche, rimanendoci punto di cera, rui- nerebbe tutto il getto, massimamente in quelle parti dove essa rimane. Finito questo, l'artefice sotterra que- «ta forma vicino alia fucina dove il bronzo si fonde; e Vasari , Opere, — Vol. I. 11 162 INTRODUZIONE puntella si che il bronze non la sforzi, e gil fa le vie che possa buttarsi, ed al somme lascia una quantità di grossezza che si possa poi segare il bronze che avanza di questa materia; e qnesto si fa perche venga più netta. Ordina il métallo che vuele, e per ogni libbra di cera ne mette dieci di métallo. Fassi la lega del métallo sta- tuario di due terzi rame ed un terzo ottone, seconde Tordine italiano. G-li Egizj, da'quali quest'arte ebbe ori- gine, mettevano nel bronze i due terzi ottone ed un terzo rame. Del métallo elletro, che è degli altri più fine, si mette due parti rame e la terza argento. Nelle campano, per ogni cento di rame, venti di stagne; acciocchë il sueno di quelle sia più squillante ed unite; ed all'arti- glierie, per ogni cento di rame, dieci di stagne. Restaci ora ad insegnare, che venendo la figura con mancamente, perche fosse il bronze cotte, o sottile, o mancasse in qualche parte, il modo delh innestarvi un pezzo. Ed in questo case, levi Tartefice tutto quanto il triste che ë in quel getto, e facciavi una buca quadra, cavandola sotte squadca ; dipoi le aggiusti un pezzo di métallo at- tuato a quel pezzo, che venga in fuera quanto gli piace; e commesso appunto in quella buca quadra, col martello tanto lo percuota che lo saldi, e con lime e ferri faccia si che lo pareggi e finiscain tutto. Ora, volende l'arte- fice gettare di métallo le figure piccole, quelle si fauno di cera, o, avendone di terra o d'altra materia, vi fa sopra il cavo di gesso come alie grandi, e tutto il cavo si empie di cera. Ma bisogna che il cavo sia bagnato, perché buttandovi detta cera, ella si rappiglia per la freddezza delf acqua e del cavo. Dipoi, sventolando e di- guazzando il cavo, si vuota la cera che ë in mezzo del cavo, di maniera che il getto resta vuoto nel mezzo; il qual vuoto o vano riempie poi l'artefice di terra, e vi mette perni di ferro. Questa terra serve poi per Tanima, ma bisogna lasciarla seccar bene. Dappoi fa la cappa. dellà scultüea 163 come air altre figure grandi, armándola e mettendovi le cannelle per i venti. La cuoce di poi, e ne cava la cera; e cosí il cavo si resta netto, sicchè agevolmente si pos- sono gittare. II simile si fa de'bassi e dei mezzi rilievi, e d'ogni altra cosa di métallo. Finiti questi getti, Tar- tefice dipoi, con ferri appropriati, cioe bulini, ciappole, strozzi, ceselli, puntelli, scarpellini e lime, leva dove bi- sogna, e dove bisogna spinge alfindentro e rinetta le bave; e con altri ferri che radono, raschia e pulisce il tutto con diligenza, ed últimamente con la pomice gli dà il pulimento. Questo bronzo piglia col tempo per se medesimo un colore che trae in nero, e non in rosso, come quando si lavora. Alcuni con olio lo fanno venir nero, altri con faceto lo fanno verde, ed altri con la vernice gli danno il colore di nero; tale che ognuno lo conduce come più gli piace. Ma, quelle che veramente è cosa maravigliosa, è venuto a'tempi nostri questó modo di gettare le figure, cosí grandi come piccole, in tanta eccellenza, che molti maestri le fanno venire nel getto in modo pulite, che non si hanno a rinettare con ferri, e tanto sottili quanto è una costóla di coltello. E, quelle che è più, alcune terre e ceneri che a ció s' adoperano, sono venute in tanta finezza, che si gettano d'argento e d' oro le ciocche della ruta, ed ogni altra sottile erba o fiore, agevolmente e tanto bene, che cosí belli riescono come il naturale. Nel che si vede quesearte essere in maggior eccellenza che non era al tempo degli antichi. Capitolo V De'conj d'acciaio per fare le medaglie di hronzo e d'altri metalli; e come elle si fanno di essi metalli, di pietre orientali e di cammei. Volendo fare le medaglie di bronzo, d' argento o d'oro, comD già le fecero gli antichi, debbe Tartefice primie- ramente con punzoni di ferro intagliare di rilievo i pun- 164 INTRODÜZIONE zoni neH'acciaio indolcito a fuoco a pezzo per pezzo; come, per esempio, la testa sola di rilievo ammaccato in un punzone solo d'acciaio, e cosi T altre parti che si com- mettono a quella. Fabbricati cosí d'acciaio tutti i pun- zoni che bisognano per la medaglia, si temprano col fuoco; e in sul conio delbacciaio stemperato, che debbe serviré per cavo e per madre della medaglia, si va imprentando a colpi di martello e la testa e T altre parti aUuogbi loro. E, dopo Tavere impréntate il tutto, si va diligen- tómente rinettando e ripulendo, e dando fine e perfezione al predetto cavo che ba poi a serviré per madre. Hanno tuttavolta usato molti artefici d' incavare con le ruóte le dette madri, in quel modo che si lavorano d'incavo i cristalli, i diaspri, i calcidonj, le agate, gli ametisti, i sardonj, i lapislazzuli, i crisoliti, le corniuole, i cammei e r altre pietre orientali; ed il cosi fatto lavero fa le ma- dri più pulite, come ancora le pietre predette. Nel me- desimo modo si fa il rovescio della medaglia; e con la madre della testa e con quella del rovescio si stampano medaglie di cera o di piombo, le quali si formano di poi con sottilissima polvero di terra atta a ció ; nolle quali forme, cavatane prima la cera o il piombo predetto, ser- rate dentro alie staífe, si getta quello stesso métallo che ti aggradaper la medaglia. Questi getti si rimettono nolle loro madri d'acciaio, e per forza di viti o di lieve ed a colpi di martello si stringono talmente, che elle pigliano quella pelle dalla stampa che elle non banno presa dal getto. Ma le monote e T altre medaglie più basse s'im- prontano senza viti a colpi di martello con mano; e quelle pietre orientali che noi dicemmo di sopra, s'intagliano di cavo con le mote per forza di smeriglio, cbe con la mota consuma ogni durezza di qualunque pietra si sia. E r artefice va sempre imprentando con cera quel cavo cbe e'lavora; ed in questo modo va levando dove più giudica di bisogno, e dando fine all'opera. Ma i cammei DELLÀ SCULTURA 165 silavorano di rilievo; perche essendo questa pietra fal- data, cioe blanca sopra e sotto ñera, si va levando del bianco tanto, che o testa o figura resti di basso rilievo blanca nel campo nero. Ed alcuna volta, per accomodarsi che tutta la testa o figura venga blanca in sul campo nero, si usa di tignere 11 campo, quando e'non è tanto scuro quanto bisogna. E di questa professione abbiamo viste opere mirabili e divinissime, antiche e moderne. Capitolo VI Come di stucco si conducono i lavori hiancM, e del modo del fare la forma di sotto murata, e come si lavorano. Solevano gil antichi, nel voler far volte o incrostature o porte o finestre o altri ornamenti di stucchi blanchi, fare l'ossa di sotto di muraglia, che sia o di mattoni cotti owero di tufi, cioe sassi che siano dolci e si possino ta- gliare con facilita; e di questi, murando, facevano l'ossa di sotto, dandoli o forma di cornice o di figure o di quello ,che fare volevano, tagliando de'mattoni o delle pietre, le quali hanno a essere múrate con la calce. Poi, con lo stucco, che nel Capitolo quarto dicemmo impastato di marmo pesto e di calce di trevertino, debbono fare so- pra r ossa predette la prima bozza di stucco ruvido, cioe grosso e granelloso, acció vi si possi mettere sopra il più sottile, quando quel di sotto ha fatto la presa, e che sia fermo, ma non secco affatto: perche, lavorando la massa délia materia in su quel che ë umido, fa maggior presa, bagnando di continuo dove lo stucco si mette, acció si renda più facile a lavorarlo. E volendo fare cornici o fo- gliami intagliati, bisogna aver forme di legno intagliate nel cavo di quegli stessi intagli che tu vuoi fare. E si piglia lo stucco che non sia sodo sodo, në tenero tenero, ma di una maniera tegnente; e si mette su l'opra alla quan- fcità délia cosa che si vuol formare, e vi si mette sopra» 166 introduzioîîe la predetta forma intagliata, impolverata di polvere di marmo; e, picchiandovi su con un martello che il colpo sia uguale, resta lo stucco improntato, il quale si va ri- nettando e pulendo poi, acció venga il lavoro diritto ed uguale. Ma volendo che Topera abbia maggior rilievo alio infuori, si conficcano dove elTba da essere, ferra- menti o chiodi o altre armadure simili che tengano so- speso in aria lo stucco, che fa con esse presa grandissima; come negli edificj antichi si vede, ne'quali si trovano ancora gli stucchi ed i ferri conservati sino al di d'oggi. Quando vuole, adunque, Tartefice condurre in muro piano un'istoria di bassorilievo, conficca prima in quel muro i chiodi spessi, dove meno dove più in fuori, seconde che hanno a stare le figure ; e tra quegli serra pezzami piccoli di mattoni o di tufi, a cagione che le punte o capi di quegli tengano il primo stucco grosso e hozzato ; ed appresso lo va finendo cou pulitezza, e cou pacienza che e'si rassodi. E mentre che egli indurisce, Tartefice lo va diligentemente lavorando e ripulendolo di continuo co'pennelli bagnati, di maniera che e'io conduce a per-, fezione come se e'fusse cera o di terra. Con questa má- niera medesima di chiodi e di ferramenti fatti a posta, e maggiori e minori secondo il bisogno, si adornano di stucchi le volte, gli spartimenti e le fabbriche vecchie: come si vede costumarsi oggi per tutta Italia da molti maestri che si son dati a questo esercizio. Ne si dehhe duhitare di lavoro cosi fatto come di cosa poco durabile, perché e'si conserva infinitamente, ed indurisce tanto nello star fatto, che e'diventa col tempo come marmo. Capitolo VII Come si conducono le figure di legno, e che legno sia huono a farle. Chi vuole che le figure del legno si possano condurre a perfezione, bisogna che e' ne faccia prima il modello di cera o di terra, come dicemmo. Questa sorte di figure si DELLÀ SCULTURA 167 è usata molto nella cristiana religione, attesochè infiniti maestri hanno fatto molti Crocifissi, e diverse altre cose. Ma, invero, non si dà mai al legno qnella carnosita o morbidezza, che al métallo ed al marmo, ed all'altre «culture che noi veggiamo o di stucchi o di cera o di terra. Il migliore, nientedimanco, tra tutti i legni che si adoperano alia scultura, ë il tiglio, perché egli ha i pori uguali per ogni lato, ed ubbidisce più agevolmente alia lima ed alio scarpello. Ma perché l'artefice, essendo grande la figura che e'vuele, non può fare il tutto d'un pezzo solo; bisogna ch'egli lo commetta di pezzi, e l'alzi ed ingrossi seconde la forma che e'io vuol fare. E per appiccarlo insieme in modo che e'tenga, non tolga ma- strice di cacio, perché non terrebbe, ma colla di spicchi; con la quale strutta, scaldati i predetti pezzi al fuoco, gli commetta e gli serri insieme, non con chiovi di ferro, ma del medesimo legno. Il che fatto, lo lavori e lo in- tagli seconde la forma del suo modello. E degli artificj d.i cosi fatto mestiero si sono vedute ancora opere di bossolo lodatissime ed ornamenti di noce bellissimi; i quali, quando sono di bel noce che sia nero, appari- scene quasi di bronze. Ed ancora abbiamo veduti intagli in noccioli di frutte, come di ciregie e meliache, di mano di Tedeschi molto eccellenti, lavorati con una pacienza e sottigliezza grandissima. E sebbene e'non hanno gli stra- nieri quel perfetto disegno che nelle cose loro dimostrano gl'Italiani, hanno nientedimeno operate ed operano con- tinuamente in guisa, che riducono le cose a tanta sotti- gliezza, che elle fanno stupire il mondo: come si può vedere in un'opera, o per meglio dire un miracolo di legno, di mano di maestro Janni franzese : il quale abi- fiando nella cittk di Firenze, la quale egli si aveva eletta per patria, prese in modo nelle cose del disegno, del quale gli dilettó sempre, la maniera italiana, che, con la pra- tica che aveva nel lavorare il legno, fece di tiglio una 168 INTRODUZIONE ¥ figura d'un San Kocco, grande quanto il naturale; e con- dusse con sottilissimo intaglio tanto morbidi e traforati i panni che la vestono, ed in modo cartosi, e con bello andaré l'ordine delle pieghe, che non si può veder cosa più maravigliosa. Similmente condusse la testa, la barba, le mani e le gambe di quel Santo con tanta perfezione, che ella ha mèritato e mérita sempre lode infinita da, tutti gli uomini: e, che e più, acció si veggia in tutte le sue parti r eccellenza dell'artefice, ë stata conservata insino a oggi questa figura nella Nunziata di Firenze- sotto il pergamo,^ senza alcuna coperta di colorí o di pitture, nello stesso color del legname, e con la sólita- pulitezza e perfezione che maestro Janni le diede, bel- lissima sopra tutte l'altre che si veggia intagliata in le- gno. E questo basti brevemente aver dette delle cose delia scultura. Passiamo ora alla pittura. DELLA PITTUEA Capitolo I Che cosa sia disegno, e conie si fanno e si conoscono le huone pitture- € da che; e déWinvenzione deUe storie. Perche il disegno, padre delle tre arti nostre, Archi- tettura, Scultura e Pittura, procedendo dall'intelletto,, cava di moite cose un giudizio universale; simile a una. forma ovvero idea di tutte le cose delia natura, la quale è singolarissima nelle sue misure; di qui ë che non solo^ nei corpi umani e degli animali, ma nelle piante ancora,, e nelle fabbriche e sculture e pitture, conosce la pro- porzione che ha il tutto cou le parti, e che hanno le * Questa statua è ancora nella stessa chiesa, sotto l'organo. DELLÀ PITTÜRA parti fra loro e col tutto insieme. E perche da questa co- gnizione nasce un certo concetto e giudizio, che si forma nella mente quella tal cosa che poi espressa con le mani si chiama disegno; si può conchiudere che esso disegno altro non sia che una apparente espressione e dichiara- zione del concetto che si ha nell'animo, e di quello che altri si ë nella mente immaginato e fabbricato nell' idea. E da questo, per avventura, nacque il proverbio dei Grreci DalV ugna un leone; quando quel valente uomo, vedendo scolpita in un masso l'ugna sola d'un leone, comprese con l'intelletto da quella misura e forma le parti di tutto l'animale, e dopo il tutto insieme, come se l'avesse avuto , presente e dinanzi agli occhi. Credono alcuni che il padre del disegno e dell'arti fusse il caso, e che l'uso e la spe- rienza, come balia e pedagogo, lo nutrissero con 1' aiuto della cognizione e del discorso; ma io credo che con piii verità si possa dire il caso aver piuttosto dato occasione, che potersi chiamar padre del disegno. Ma sia come si voglia, questo disegno ha bisogno, quando cava 1'inven- zione d'una qualche cosa dal giudizio, che la mano sia, mediante lo studio ed esercizio di molti anni, spedita ed atta a disegnare ed esprimere bene qualunque cosa ha la natura creato, con penna, con stile, con carbone, con ma- tita o con altra cosa: perché, quando l'intelletto manda fuori i concetti purgati e con giudizio, fauno quelle mani che hanno molti anni esercitato il disegno, conoscere la perfezione ed eccellenza dell'arti, ed il sapere dell'arte- fice insieme. E perché alcuni scultori talvolta non hanno molta pratica nelle linee e ne'dintorni, onde non pos- sono disegnare in carta: eglino, in quel cambio, con bella proporzione e misura facendo con terra o cera uomini, animali ed altre cose di rilievo, fauno il medesimo che fa colui, il quale perfettamente disegna in carta o in su altri piani. Hanno gli uomini di queste arti chiamato, ov- vero distinto, il disegno in varj modi, e secondo le qua- 170 INTRODUZIONE lita de'disegni che si fauno. Quelli che sono tocchi leg- giermente ed appena accennati con la penna o altro, si chiamano schizzi ; come si dirà in altro luogo. Quegli poi che hanno le prime linee interno interno, sono chiamati profili, dintorni o lineamenti. E tutti questi, o profili o altrimenti che vogliam chiamaiii, servono cosí all'archi- tettura e scultura come alla pittura; ma all'architettura massimamente; perciocchë i disegni di quella non son composti se non di linee: il che non ë altro, quanto al- r architettore, che il principio e la fine di quell'arte, perchë il restante, mediante i modelli di legname tratti dalle dette linee, non ë altro che opera di scarpellini e muratori. Ma nella scultura serve il disegno di tutti i , contorni, perchë a veduta per veduta se ne serve lo seul- tore, quando vuol disegnare quella parte che gli torna meglio, 0 che egli intende di fare per ogni verso o nella cera o nella terra o nel marmo o nel legno o altra materia. Nella pittura servono i lineamenti in più modi, ma particolarmente a dintornare ogni figura ; perchë quando eglino sono ben disegnati e fatti giusti ed a proporzione, l'ombre che poi vi si aggiungono ed i lumi, sono cagione che i lineamenti delia figura che si fa, ha grandissime rilievo, e riesce di tutta bontà e perfezione. E di qui nasce, che chimique intende e maneggia bene queste linee, sarà in ciascuna di queste arti, mediante la pra- tica ed il giudizio, eccellentissimo. Chi dunque vuole bene imparare a esprimere disegnando i concetti del- l'animo e qualsivoglia cosa, fa di bisogno, poichë avrà alquanto assuefatta la mano, che per divenir più Intel- ligente nell'arti, si eserciti in ritrarre figure di rilievo, o di marmo, di sasso, owere di quelle di gesso formate sul vivo ; ovvero sopra qualche bella statua antica, o si veramente rilievi di modelli fatti di terra, o nudi o con cenci interrati addosso, che servono per panni e vesti- menti: perciocchë tutte queste cose, essendo immobili DELLÀ PITTURA 171 e senza sentimento, fanno grande agevolezza, stando ferme, a celui che disegna; il che non awiene nelle cose vive che si muovono. Quando poi avra in disegnando si- mili cose fatto buena pratica ed assicurata la mano, ce- minci a ritrarre cose naturali, ed in esse faccia con ogni possibile operà e diligenza una buena e sicura pratica; perciocchë le cose che vengono dal naturale, seno vera- mente quelle che fanno enere a chi si è in quelle aífa- ticato, avendo in së, oltre a una certa grazia e vivezza, di quel semplice, facile e dolce ch,e ë proprio della na- tura, e che dalle cose sue s'impara perfettamente, e non dalle cose dell'arte abbastanza giammai. E tengasi per fermo, che la pratica che si fa con lo studio di molti anni in disegnando, come si ë dette di sopra, ë il vero lume del disegno, e quelle che fa gli uomini eccellen- tissimi. Ora, avendo di ció ragionato abbastanza, seguita che noi veggiamo che cosa sia la pittura. Ell'ë, dunque, un piano coperto di campi di colorí, in superficie o di tavela o di muro o di tela, interno a'lineamenti detti di sopra, i quali per virtù di un buen disegno di linee girate circondano la figura. Questo si fatto piano dal pittore con retto giudizio mantenuto nel mezzo chiaro e negli estremi e ne'fondi scuro ed ac- compagnato tra questi e quelle da colore mezzano tra il chiaro e lo scuro; fa che, unendosi insieme questi tre campi, tutto quello che ë tra Tuno lineamento e l'altro, si rilieva ed apparisce tondo e spiccato, come s'ë detto. Bene ë vero, che questi tre campi non possono bastare ad ogni cosa minutamente, attesochë egli ë necessario dividere qualunque di loro almeno in due spezie, facendo di quel chiaro due mezzi, e di quest'oscuro due più chiari, e di quel mezzo due altri mezzi che pendino Tuno nel più chiaro e I'altro nel più scuro. Quando queste tinte d'un color solo, qualunque egli si sia, saranno stempe- rate, si vedrà a poco a poco cominciare il chiaro, e poi 172 INTRODUZIONE meno cliiaro, e poi un poco più scuro, di maniera che a poco a poco troveremo il nero schietto. Fatte dunque le mestiche, cioe mescolati insieme questi colori, volendo lavorare o a olio o a tempera o in fresco, si va coprendo il lineamento, e mettendo a'suoi luoghi i chiari e gli scuri ed i mezzi e gli abbagliati de'mezzi e dei lumi, che sono quelle tinte mescolate de'tre primi, chiaro, mez- zano e scuro ; i quali chiari e mezzani e scuri ed abba- gliati si cavano dal cartone, ovvero altro disegno che per tal cosa è fatto per porlo in opra : il quale è neces- sario che sia condotto con buona collocazione e disegno fondato, e con giudizio ed invenzione; attesochè la col- locazione non è altro nella pittura, che avere spartito in quel loco dove si fa una figura, che gli spazj siano ^ concordi al giudizio dell'occhio, e non siano disformi; che il campo sia in un luogo pieno e nell'altro voto : la quai cosa nasca dal disegno, e dall'avere ritratto o figure di naturale vive, o da'modelli di figure fatte per quelle che si voglia fare; il quai disegno non può avere buon'ori- gine, se non s'ha dato continuamente opera a ritrarre cose naturali, e studiato pitture d'eccellenti maestri, e di statue antiche di rilievo, corne s'è tante volte dette. Ma sopra tutto il meglio è gV ignudi degli uomini vivi e feminine, e da quelli avere preso in memoria per lo con- tinuo uso i muscoli del torso, delle schiene, delle gambe, delle braccia, delle ginocchia, e l'ossa di sotto; e poi avere sicurtà, per lo molto studio, che senza avere i na- turali innanzi si possa formare di fantasia da se attitu- dini per ogni verso : cosi aver veduto degli uomini scor- ticati, per sapere come stanno l'ossa sotto ed i muscoli ed i nervi, con tutti gli ordini e termini delia notomia, per potere con maggior sicurtk, e più rettamente situare le membra nell'uomo, e porre i muscpli nelle figure. E coloro che ció sanno, forza ë che facciano perfettamente i contorni delle figure; le quali dintornate come elle deb- DELLÀ PITTUEA 173 bono, mostrano buona grazia e bella maniera. Perche, chi studia le pitture e sculture buone, fatte con símil modo, vedendo ed intendendo il vivo, è necessario che abbia fatto buona maniera nell' arte. E da ció nasce V in- venzione, la quale fa mettere insieme in istoria le figure a quattro, a sei, a died, a venti, talmente che si viene a formare le battaglie e T altre cose grandi delfarte. Questa invenzione vuol in se una convenevolezza formata di concordanza ed obbedienza; che, s'una figura si muove per salutare un'altra, non si faccia la salutata voltarsl indietro, avendo a rispondere: e con questa similitudine tutto il resto. La istoria sia piena di cose varíate e differenti 1' una dairaltra, ma a proposito sempre di quello che si fa, e che di mano in mano figura lo artefice: il quale debbe distinguere i gesti e I'attitudini, facendo le feminine con aria dolce e bella, e símilmente i giovani; ma i vecchi, gravi sempre di aspetto, ed i sacerdoti massimamente e le persone d'autorith. Avvertendo però sempremai, che ogni cosa corrisponda ad un tutto dell'opera; di maniera che quando la pittura si guarda, vi si conosca una con- cordanza unita, che dia terrore nelle furie e dolcezza negli effetti piacevoli, e rappresenti in un tratto la in- tenzione del pittore, e non le cose che e'non pensava. Conviene, adunque, per questo che e'formi le figure che hanno ad esser fiere, con movenza e con gagliardia; e sfugga quelle che sono lontane dalle prime, con l'ombre e con i colorí appoco appoco dolcemente oscuri: di ma- niera che l'arte sia accompagnata sempre con una grazia di facilità e di pulita leggiadria di colorí: e condotta Popera a perfezione, non con uno stento di passione cru- dele, che gli uomini che ció guardano, abbiano a patire pena della passione che in tal' opera veggono sopportata dallo artefice, ma da rallegrarsi della felicità che la sua mano abbia avuto dal cielo quella agilità, che renda le 174 intboduzione cose finite con istudio e fatica si, ma non con istento; tanto che, dove elle sono poste, non siano morte, ma si appresentino vive e vere a chi le considera. Guardinsi dalle crudezze, e cerchino che le cose che di continuo fanno, non paiano dipinte, ma si dimostrino vive e di rilievo fuor deila opera loro : e questo è il vero disegno fondato, e la vera invenzione che si conosce esser data, da chi le ha fatte, alie pitture che si conoscono e giudi- cano come huone. Capitolo II Degli schizzi, disegni, cartoni, ed ordine di prospettive ; per quel che si fanno, ed a quello che ipittori se ne servono. Gli schizzi, de' quali si è favellato di sopra, chiamiamo noi una prima sorte di disegni che si fanno per trovar il modo delle attitudini, ed il primo componimento del- l'opra; e sono fatti in forma di una macchia, ed accen- nati solamente da noi in una sola bozza del tutto. E per- che dal furor dello artefice sono in poco tempo con penna o con altro disegnatoio o carbone espressi, solo per ten- tare l'animo di quel che gli sovviene, perciò si chiamano schizzi. Da questi dunque vengono poi rilevati in buona forma i disegni; nel far dei quali, con tutta quella dili" genza che si può, si cerca vedere dal vivo, se già I'ar- tefice non si sentisse gagliardo in modo che da sè li po- tesse condurre. Appresso, misuratili con le seste o a occhio, si ringrandiscono dalle misure piccole nelle maggiori, se- condo l'opéra che si ha da fare. Questi si fanno con varie cose; cioë, o con lapis rosso, che ë una pietra, la qual viene da'monti di Alemagna, che, per esser teñera, age- volmente si sega e riduce in punte sottili da segnare con esse in su i fogli come tu vuoi; o con la pietra nera, che viene da'monti di Francia, la qual' ë símilmente come DELLÀ PITTÜEA 175 la rossa: altri, dl chiaro e scuro, si conducono su fogli tinti, che fanno un mezzo, e lapenna fa il lineamento, cioè il dintorno o profilo, e l'inchiostro poi con un poco d'acqua fa una tinta dolce che lo vela ed ombra; di poi, con un pennello sottile intinto nella biacca stemperata con la gomma si lumeggia il disegno: e questo modo ë molto alia pittoresca, e mostra più l'ordine del colorito. Molti altri fanno con la penna sola, lasciando i lumi della carta, che ë difficile, ma molto maestrevole; ed infiniti altri modi ancora si costumano nel disegnare, de'quali non accade fare menzione, perchë tutti rappresentano- una cosa medesima, cioë il disegnare. Fatti cosi i disegni, chi vuole lavorar in fresco, cioë in muro, ë necessario che faccia i cartoni, ancorachë e' si costumi per molti di fargli per lavorar anco in tavola. Questi cartoni si fanno cosi : impastansi i fogli con colla di farina e acqua cotta al fuoco (fogli dico, che siano squadrati), e si tirano al muro con V incollarli attorno due dita verso il muro con la medesima pasta, e si bagnano spruzzandovi dentro per tutto acqua fresca; e cosi molli si tirano, acció nel sec- carsi vengano a distendere il molle delle grinze. Dappoi, quando sono secchi, si vanno con una canna lunga, che .abbia in cima un carbone, riportando sul cartone, per giudicar da discosto tutto quello che nel disegno piccolo ë disegnato con pari grandezza; e cosi, a poco a poco, quando a una figura e quando air altra danno fine. Qui fanno i pittori tutte le fatiche dell'arte, del ritrarre dal vivo ignudi e panni di naturale ; e tirano le prospettive, con tutti quelli ordini che piccoli si sono fatti in su fogli, ringrandendoli a proporzione. E se in quelli fussero pro- spettive, o casamenti, si ringrandiscono con la rete; la qual'ë una graticola di quadri piccoli, ringrandita nel cartone, che riporta giustamente ogni cosa. Perchë, chi ha tirate le prospettive ne'disegni piccoli, cavate di su la pianta, alzate col profilo, e con la intersecazione e col 176 INTRODUZIONE punto fatte diminuiré e sfuggire, bisogna che le riportî proporzionate in sul cartone. Ma del modo del tirarle, perche ella è cosa fastidiosa e difficile a darsi ad inten- dere, non voglio io parlare altrimenti. Basta che le pro- spettive son belle tanto, quanto elle si mostrano giuste alla loro veduta e sfuggendo si allontanano dall'pcchio, e quando elle sono composte con variato e bello ordine di casamenti. Bisogna poi che '1 pittore abbia risguardo a farle con proporzione sminuire con la dolcezza de' co- lori, la quaPè nell'artefice una retta discrezione ed un giudicio buono: la causa del quale si mostra nella dif- ficultà delle tante linee confuse, coite dalla planta, dal profilo ed intersecazione ; che ricoperte dal colore re- stano una facilissima cosa, la quai fa tenere Tartefice dotto, intendente ed ingegnoso nelfarte. Usano ancora molti maestri, innanzi che facciano la storia nel cartone, fare un modello di terra in su un piano, con situar tonde tutte le figure, per vedere gli sbattimenti, cioë l'ombre che da un lumè si causano addosso aile figure, che sono queirombra tolta dal sole, il quale più crudamente che il lume le fa in terra nel piano per l'ombra délia figura. E di qui ritraendo il tutto dell'opra, hanno fatto l'ombre che percuotono addosso ail'una e l'altra figura; onde ne vengono i cartoni e l'opéra, per queste fatiche, di per- fezione e di forza più finiti, e dalla carta si spiccano per il rilievo: il che dimostra il tutto più bello e maggior- mente finito. E quando questi cartoni al fresco o al muro s'adoprano, ogni giorno nella commettitura se ne taglia un pezzo, e si calca sul murOj che sia incalcinato di fre- SCO e pulito eccellentemente. Questo pezzo del cartone si mette in quel luego dove s'ha a fare la figura, e si contrassegna; perche, l'altro di che si voglia rimettere un altro pezzo, si riconosca il suo luogo appunto, e non possa nascere errore. Appresso, per i dintorni del pezzo dette, con un ferro si va calcando in su l'intonaco délia dellà pittüra 177 calcina; la quale, per essere fresca, acconsente alia carta, e cosí ne rimane segnata. Per 11 che si leva via il car- tone, e per quei segni che nel muro sono calcati, si va con i colori lavorando; e cosi si conduce il lavoro in íre- sco 0 in muro. Alie tavole ed allé tele si fa il medesimo calcato, ma il cartone tutto d'un pezzo; salvochè bisogna tingere di dietro il cartone con carboni o polvero ñera, acciocchè, segnando poi col ferro, egli venga profilato e disegnato nella tela o tavela. E per questa cagione i car- toni si fanno, per compartiré che l'opra venga giusta e misurata. Assai pittori sono, che per l'opre a olio sfug- gono ció ; ma per il lavoro in fresco non si può sfuggire che non si faccia. Ma corto, chi trovó tal' invenzione, ebbe buena fantasia; attesochë ne'cartoni si vede il giudizio di tutta l'opera insieme, e si acconcia e guasta finche stiano bene; il che nell'opra poi non puó farsi. Capitolo III Degli scorti delle figure al cli sotto in su, e di quegli in piano. Hanno avuto gli artefici nostri una grandissima av- vertenza nel fare scortare le figure, cioè nel farle appa- rn:e di più quantité che elle non sono veramente, essendo le scorto a noi una cosa disegnata in faccia corta, che all'occhio, venendo innanzi, non ha la lunghezza o l'al- tezza che ella dimostra; tuttavia la grossezza, i dintorni, l'ombre ed i lumi fanno parere che ella venga innanzi, e per questo si chiama scorto. Di questa specie non fu mai pittore o disegnatore che facesse meglio che s' abbia fatto il nostro Michelagnolo Buonarroti ; ed ancora nos- suno meglio gli poteva fare, avendo egli divinamente fatto le figure di rilievo. Egli prima di terra o di cera ha per questo uso fatti i modelli; e da quegli, che più del vivo restaño fermi, ha cavato i contorni, i lumi e v asabi , Opere. — Vol. l- 12 178 INTRODÜZIONE l'ombre^. Qnesti danno a chi non intende grandissime fa- stidio, perche non arrivano con l'intelletto alla profon- dità di taie difficnltà; la quai' ë la pin forte a farla bene, che nessnna che sia nella pittura. E certo i nostri vec- chi come amorevoli dell'arte trovarono il tirarli per via di linee in prospettiva (il che non si poteva fare prima), e li ridussero tanto innanzi, che oggi s'ha la vera maestria di farli. E quegli che li biasimano (dico degli artefici nostri), sono quelli che non li sanno fare; e che per alzare se stessi, vanno abbassando altrui. Ed abbiamo assai maestri pittori, i quali, ancorachë valenti, non si dilettano di fare scorti; e nientedimeno, quando gli veggono belli e difficili, non solo non gli biasimano, ma gli lodano sommamente. Di qnesta specie ne hanno fatto i moderni alcuni che sono a proposito e difficili; come sarebbe a dir, in una volta, le figure che guardando in su scortano e sfuggono ; e questi chiamiamo al di sotto in su, ch'hanno tanta forza ch'eglino bucano le volte. E questi non si possono fare, se non si ritraggono dal vivo, 0 con modelli in altezze convenienti non si fanno fare loro le attitudini e le movenze di tali cose. E certo in questo genere si recano in quella difficnltà una somma grazia e molta bellezza, e mostrasi una terribilissima arte. Di questa specie troverete che gli artefici nostri, nelle Vite loro, hanno dato grandissimo rilievo a tali opere e condottele a una perfetta fine ; onde hanno con- seguito loda grandissima. Chiamansi scorti di sotto in su, perche il figúrate e alto, e guardato dall'occhio per ve- duta in su, e non per la linea piaña dell'orizzonte. Laonde alzandosi la testa a volere vederlo, e scorgendosi prima le piante de'piedi e l'altre parti di sotto, giustamente si chiama col dette nome. DELLÀ PITTUEA 179 Capitolo IV Come si dehhano uniré i colori a olio, a fresco o a tempera; e come le carni, i panni e tutto quello che si dipigne, venga nelV opera a uniré in modo, che le figure non ventano divise, ed abhiano rilievo e forza, e mostrino V opera chiara ed aperta. L'unióne nella pittura ë una discorclanza di" colori diversi accordati insieme, i quali, nella diversita di piíi divise, mostrano differentemente distinte Tuna dall'altra le parti delle figure ; come le carni dai capelli, ed un panno diverso di colore dall' altro. Quando questi colori son messi in opera accesamente e vivi, con una discor- danza spiacevole, talchë siano tinti e carichi di corpo, siccome usavano di fare già alcuni' pittori ; il disegno ne viene ad essere offeso di maniera, che le figure restaño più presto dipinte dal colore, che dal pennello, che le lumeggia e adombra, fatte apparire di rilievo e natu- rali. Tutte le pitture, adunque, o a olio o a fresco o a tempera, si debhon fare talmente unite ne'loro colori, che quelle figure che nelle storie sono le principali, ven- gano condotte chiare chiare, mettendo i panni di colore non tanto scuro addosso a quelle dinanzi, che quelle che vanno dopo gli abhiano più chiari che le prime; anzi, a poco a poco, tanto quanto elle vanno diminuendo alio indentro, divenghino anco parimente di mano in mano, e nel colore delle carnagioni e nelle vestimenta, più seure. E principalmente si abbia grandissima avvertenza di mettere sempre i colori più vaghi, più dilettevoli e più belli nelle figure principali, ed in quelle massima- mente che nella istoria vengono intere, e non mezze; perche queste sono sempre le più considerate, e quelle che sono più vedute che l'altre, le quali servono quasi per campo nel colorito di queste; ed un colore più smorto 180 INTRODUZIONE fa parere più vivo Taltro che gil è posto accanto, ed i colorí maninconici e pallidi fanno parere più allegri quelli che li sono accanto, e quasi d'una certa bellezza fiain- ineggianti. Nè si debhono vestire gl' ignudi di colorí tanto carichi di corpo, che dividano le camí da'panni, quando detti panni attraversassino detti ignudi; ma i colorí dei lumi di detti panni siano chiari simili alie carni, o gialletti o rossigni o violati o pagonazzi, con cangiare i fondi scuretti o verdi o azzurri o pagonazzi o gialli, purchë tragghino alio scuro, e che unitamente si accompagnino nel girare delle figure con le lor ombre: in quel medesimo modo che noi veggiamo nel vivo, che quelle parti che ci si appresentano più vicine all' occhio, più hanno di lume, e l'altre perdendo di vista, perdono ancora del lume e del colore. Gosi nella pittura si deb- bono adoperare i colorí con tanta unione, che e' non si la,sci uno scuro ed un chiaro si spiacevolmente ombrato e lumeggiato, che e'si faccia una discordanza ed una disunione spiacevole : salvochë negli sbattimenti, che sono quell'ombre che fanno le figure addosso l'una all'altra, quando un lume solo percuote addosso a una prima figura, che viene ad ombraré col suo sbattimento la seconda. E questi ancora, quando accaggiono, voglion esser dipinti con dolcezza ed unitamente; perchë, chi li disordina, viene a fare che quella pittura par più presto un tappeto colorito, o un paro di carte da giocare, che carne unita o panni morbidi o altre cose piumose, delicate e dolci. Chë, siccome gli orecchi restaño offesi da una musica che fa strepito o dissonanza o durezza (salvo però in certi luoghi ed a tempi, siccome io dissi degli sbattimenti); cosí restaño oífesi gli occhi da'colorí troppo carichi o troppo crudi. Gonciossiachë il troppo acceso offende il disegno, e lo abbacinato, smorto, abbagliato e troppo dolce, pare una cosa spenta, vecchia ed affumicata : ma lo unito che tenga in fra lo acceso e lo abbagliato, ë dellà pittura 181 perfettissimo e diletta l'occhio, come una musica unita ecl arguta diletta T orecchio. Debbonsi perdere negli scuri certe parti delle figure, e nella lontananza delia istoria; perche, oltre che, se elle fussono nello apparire troppo vive ed accese, confonderebbono le figure; elle danno ancora, restando scure ed abbagliate quasi come campo, maggior forza alie altre che vi sono innanzi. Nè si può credere quanto nel variare le carni con i colori, facen- dole ai giovani più fresche che ai vecchi, ed ai mezzani tra il cotto ed il verdiccio e. gialliccio, si dia grazia e bellezza air opera, e quasi in quelle stesso modo che si faccia nel disegno, Taria delle vecchie accanto alie gio- vani ed alie fanciulle ed a' putti; dove veggendosene una teñera e carnosa, Taltra pulita e fresca, fa nel dipinto una discordanza accordatissima. Ed in questo modo si debbe nel lavorare metter gli scuri dove meno oífendino e faccino divisione, per cavar fuori le figure; come si vede nelle pitture di Raffaello da IJrbino e di altri pit- tori eccellenti che hanno tenuto questa maniera. Ma non si debbe tenere questo ordine nelle istorie dove si con- traftacessino lumi di sole e di luna, ovvero fuochi o cose notturne; perché queste si fanno con gli sbattimenti crudi e taglienti, come fa il vivo. E nella sommità, dove si fatto lume percuote, sempre vi sara dolcezza ed unione. Ed in quelle pitture che aranno queste parti, si cono- scerh che la intelligenza del pittore arh con la unione del colorito campata la bonta del disegno, dato vaghezza alia pittura, e rilievo e forza terribile alie figure. Capitolo V Del dipingere in muro, come si fa, e perché si chiania lavorare in fresco. Di tutti gli altri modi, che i pittori facciano, il di- pingere in mimo è più maestrevole e bello, perche con- siste nel fare in un giorno solo quello che negli altri 182 INTRODÜZIÜNE modi si può in molti ritoccare sopra il lavorato. Era dagli antichi molto usato il fresco, ed i vecchi moderni ancora V hanno poi segnitato. Questo si lavora su la calce che sia fresca, nè si lascia mai sino a che sia finito quanto per quel giorno si vuole lavorare^ Perche, allungando punto il dipingerla, fa la calce una certa crosterella pel caldo, pel freddo, pel vento e per ghiacci, che mufia e macchia tutto il lavoro. E per questo vuole essere con- tinovamente bagnato il muro che si dipigne ; e i colori che vi si adoperano, tutti di terre e non di minière, ed il bianco di trevertino cotto. Vuole ancora una mano destra, risoluta e veloce, ma sopra tutto un giudizio saldo ed intiero; perche i colori, mentre che il muro è molle, mostrano una cosa in un modo, che poi secco non è più quella. E però bisogna che in questi lavori a fresco giuo- chi molto più nel pittore il giudizio che il disegno, e che egli abbia per guida sua una pratica più che gran- dissima, essendo sommamente difficile il condurlo a per- fezione. Molti de' nostri artefici vagliono assai negli altri lavori, cioe a olio o tempera, ed in questo poi non rie- scono ; per essere egli veramente il più virile, più sicuro, più risoluto e durabile di tutti gli altri modi ; e quello che, nello stare fatto, di continuo acquista di bellezza e di unione più degli altri infinitamente. Questo all'aria si purga, e dall'acqua si difende, e regge di continuo a ogni percossa. Ma bisogna guardarsi di non avere a ritoc- carlo co'colori che abbiano colla di carnicci, o rosso di novo, o gomma o draganti, come fanno molti pittori; jDerche, oltra che il muro non fa il suo corso di mostrare la chiarezza, vengono i colori appannati da quello ritoc- car di sopra, e con poco spazio di tempo diventano neri. Però quelli che cercano lavorar in muro, lavorino viril- mente a fresco, e non ritocchino a secco; perché, oltra l'esser cosa vilissima, rende più corta vita alie pitture, come in altro luego s'é dette. dellà pittura 183 Capitolo VI Del di{pignere a tempera, ovvero a novo, su le tatole o tele; e come si pub usare sul muro che sia secco. Da Cimabue in dietro, e da lui in qua, s' ë sempre veduto opre lavorate da' Greci a tempera in tavela e in qualche mure. Ed usavano nello ingessare delle tavole questi maestri vecchi, dubitando che quelle non si apris- sero in su le commettiture, mettere per tutto, cou la colla di carnicci, tela lina, e poi sopra quella ingessavano per lavorarvi sopra, e temperavano i colori da condurle col rosso dell'uovo o tempera, la quab è questa: toglievano un novo e quelle dibattevano, e dentro vi tritavano un rame tenero di fico, acciocchë quel latte cou quelbuevo facesse la tempera dei colori, i quali cou essa temperando lavoravano 1'opere loro. E toglievano per quelle tavole i colori che erano di minière, i quali son fatti parte dagli alchimisti, e parte trovati nelle cave. Ed a questa specie di lavoro ogni colore ë bueno, salvo che il bianco che si lavera in muro fatto di calcina, perch' ë troppo forte: cosi venivano loro condotte con questa maniera le opere e le pitture loro, e questo chiamavano coloriré a tem- pera. Solo gli azzurri temperavano con colla di carnicci; perchë la giallezza deiruovo gli faceva diventar verdi, ove la colla li mantiene nell'essere loro; e il simile fa la gomma. Tiensi la medesima maniera su le tavole o ingessate o senza; e cosï su'mûri che siano secchi, si dà una 0 due mani di colla calda, e di poi con colori tem- perati con quella si conduce tutta l'opéra; e chi volesse temperare ancora i colori a colla, agevolmente gli verra fatto, osservando il medesimo che nella tempera si ë rac- contato. Në saranno peggiori per questo; poichë anco de'vecchi maestri nostri si sono vedute le cose a tem- 184 INTRODUZIONE pera consérvate centinaia d'anni con bellezza e freschezza grande/ E certamente, e'si vede ancora delle cose di Giotto, che ce id ë pure alcuna in tavola, durata gih dugento anni e mantenutasi molto bene. E poi venuto il lavorar a olio, che ha fatto per molti mettere in bando il modo della tempera : siccome oggi veggiamo che nelle tavole e nelle altre cose d'importanza si è lavorato e si lavora ancora del continuo. Capitolo VII Del dipingere a olio in tavola, e su le tele. Fu una bellísima invenzione ed una gran comodità airarte della pittura, il trovare il colorito a olio; di che fu primo inventore in Fiandra Giovanni da Bruggia,^ il quale mandó la tavola a Isíapoli al re Alfonso,® ed al duca d'Urbino Federico II,* la stufa sua; e fece un San Gi- ronimo,® che Lorenzo de'Medici aveva, e molte altre cose lodate. Lo seguitò poi Ruggieri da Bruggia, suo disce- polo; ed Ausse, create di Euggieri, che fece a'Portinari, ' Nel Museo Sacro, oh'è parte della Librería Vaticana, è un quadro di pittura greca a tempera, dove son rappresentate l'esequie di sant'Efrem Siro, con una moltitudine d'anacnreti ; benissimo mantenuto, sebbene giá molto antico; cioè del décimo o dell'undécimo secolo. Vedi il tomo III delle Pitture e ScuUure tratte dai cimiterj di Roma, nel quale se ne ha una stampa. II D'Agincourt, nella tav. Lxxxii della Pittura, dette T intaglio di questa preziosa opera, che porta il nome del pittore Emmanuel Tranfurnari. ^ Oggi è fuor di dubbio che si dipingesse a olio anche prima di Giovanni di Bruges. ® Su questa tavola vedasi quanto è detto nella corrispondente nota alla Vita di Antonello da Messina. ' C'è errore di certo in questa denominazione di Federico II, perché prima di Federico, non ci fu altro duca che il fanciullo Oddantonio. ° Nel R. Museo di Napoli, nella terza stanza del quadri, esiste una tavola che si dice di Giovanni da Bruggia, o della maniera di Van der Weyden, giá sin qui malamente attribuita a Colantonio del Flore, dove è rappresentato San Girolamo in atto di trarre la spina dalla zampa del leone. Sarebbe mai essa la tavola che il Vasari qui cita del- detto Giovanni ? DELLÀ PITTLŒIA 185 in Santa Maria Nuova di Firenze, un quadro picciolo^ il qual è oggi appresso al duca Cosimo; ' ed è di sua mano la tavola di Careggi, villa fuora di Firenze della illu- strissima casa de' Medici. Furono similmente de' primi Lo- device da Luano e Pietro Crista, e maestro Martine e Griusto da Guante,® che fece la tavela della Cemuniene del duca d'Urbine ed altre pitture; ed IJge d'Anversa,® che fe la tavela di Santa Maria Nueva di Fierenza. Que- sta arte cendusse pei in Italia Antenelle da Messina, che melti anni censmnò in Fiandra; e, nel ternarsi di qua dai menti, fermatesi ad ahitare in Venezia, la inaegne ad alcuni amici; une de'quali fu Demenice Veniziane, che la cendusse pei in Firenze, quande dipinse a elie la cappella dei Pertinari in Santa Maria Nueva; dove la imparò Andrea dal Castagne, che la insegnò agli altri maestri:'^ con i quali si andò ampliando l'arte ed acqui- stande sine a Pietre Perugine, a Lienarde da Vinci, ed a Raffaelle da ürbine ; talmentechè ella s'è ridetta a quella bellezza che gli artefici nestri, mercè lore, l'hanne acquistata. Questa maniera di coloriré accende più i ce- lori; ne altre hisegna che diligenza ed amere, perché l'elie in sè si reca il célérité più morbide, più delce e dilicate, e di uniene e sfumata maniera più facile che gli altri; e, mentre che fresco si lavera, i celeri si me- scelane e si uniscene l'une cen l'altre più fácilmente; ed ' Nella Gallería degli Ufizj in Firenze, e precisamente nella scuola fiamminga, è un piccolo e grazioso quadretto di Giovanni Hemling o Memling {l'Ausse del Vasari ), che rappresenta Nostra Donna col Bambino Gesú in collo; il quale fu creduto che fosse quel medesimo qui ricordato dal Vasari. Ma vedendo che egli poi torna a paríame nelle notizie degli Artefici Fiamminghi, e ne dice il sog- getto. che era la Passione di Nostro Signore, non si puô piú tenere quella opi- nione, e bisogna dire che il quadretto del Memling citato dal Vasari è da gran tempo perduto. - Cioè di Gand in Fiandra. ® Ossia, Ugo Van der Goes. ' Intorno alia pittura a olio che si dice portata in Italia da Antonello da Messina, sarà trattato nelle note alia Vita di questo artefice. 186 INTRODÜZiONE insomma, gli artefici danno in questo modo bellissima grazia e vivacitk e gagliardezza allé figure loro, talmente- che spesso ci fanno parere di rilievo le loro figure e che eir eschino della tavola, e massimamente quando elle sono continovate di buono disegno, con invenzione e bella ma- niera. Ma per mettere in opera qnesto lavoro, si fa cosi: qnando vogliono cominciare, cioë ingessato che hanno le tavole 0 quadri, gli radono, e, datovi di dolcissima colla quattro o cinque mani con una spugna, vanno poi ma- cinando i colori con olio di noce o di seme di lino (ben- che il noce è meglio, perché ingialla meno), e cosi ma- cinati con questi olii, che è la tempera loro, non bisogna altro, quanto a essi, che distenderli col pennello. Ma conviene far prima una mestica di colori seccativi, come biacca, giallolino, terre da campane, mescolati tutti in un corpo e d'un color solo; e quando la colla è secca, impiastrarla su per la tavola e poi batterla con la palma della mano, tanto che ella venga egualmente unita e distesa per tutto: il che molti chiamano l'imprimatura. Dopo distesa detta mestica o colore per tutta la tavola, si metta sopra essa il cartone che avérai fatto con le figure e invenzioni a tuo modo ; e sotto questo cartone se ne metta un altro tinto da un lato di nero, cioè da quella parte che va sopra la mestica. Appuntati poi con chiodi piccoli l'uno e 1'altro, piglia una punta di ferro, ovvero d'avorio o legno duro, e vai sopra i profili del cartone segnando sicuramente ; perché cosi facendo non si guasta il cartone, e nella tavola o quadro vengono benissimo profilate tutte le figure, e quelle che é nel car- tone sopra la tavola. E chi non volesse far cartone, di- segni con gesso da sarti bianco sopra la mestica, ovvero con carbone di salcio, perché l'uno e 1'altro fácilmente si cancella. E cosi si vede che, seccata questa mestica, lo artefice, o calcando il cartone o con gesso bianco da sarti disegnando, l'abbozza: il che alcuni chiamano im- t dellà pittüra 187 porre. E, finita di coprire tutta, ritorna con somma po- litezza lo artefice da capo a finiria; e qui usa Tarte e la diligenza per condurla a perfezione; e cosi fanno i maestri in tavola a olio le loro pitture. Capitolo VIII Del pingere a olio nel muro che sia secco. Quando gli artefici vogliono lavorare a olio in sul muro secco, due maniere possono tenere: una con fare che il muro, se vi è dato su il bianco, o a fresco o in altro modo, si raschi; o se egli ë restate liscio senza bianco, ma intonacato, vi si dia su due o tre mani di olio bollito e cotto, continuando di ridarvelo su, sino a tanto che non voglia più here; e poi secco, se gli dà di mestica o imprimatura, come si disse nel Capitolo avanti a questo. Ció fatto, e secco, possono gli artefici calcare o disegnare, e tale opera come la tavola condurre al fine, tenendo mescolato continuo nei colori un poco di ver- nice, perché facendo questo non accade poi verniciarla. L' altro modo ë, che T artefice, o di stucco di marino e di matton peste finissimo fa un arricciato che sia pulito, e lo rade col taglio della cazzuola, perché il muro ne resti ruvido; appresso gli dà una man d'olio di seme di lino, e poi fa in una pignatta una mistura di pece greca e mastico e vernice grossa, e quella bollita, con un pen- nel grosso si dà nel muro ; poi si distende per quelle con una cazzuola da murare che sia di fuoco : questa intasa i buchi delTarricciato, e fa una pelle più unita per il muro. E poi ch'ë secca, si va dándole d'imprimatura 0 di mestica, e si lavera nel modo ordinario delToIio, corne abbiamo ragionato. E perché la sperienza di molti anni mi ha insegnato come si possa lavorar a olio in sul muro, últimamente ho seguitato, nel dipigner le sale. 188 INTRüDUZIONE camere ed altre stanza del palazzo del duca Cosimo, il modo che in questo ho per Taddietro molte volte tenuto; il qual modo brevemente ë questo: facciasi rarricciato, sopra il quale si ha da far Tintonaco di calce, di matton peste e direna, e si lasci seccar bene aífatto; ció fatto, la materia del seconde intonaco sia calce, matton peste stiacciato bene, e schiuma di ferro; perché tutte e tre queste cose, cioé di ciascuna il terzo, incorporate con chiara d'uovo battute quanto fa bisogno, ed olio di seme di lino, fanno uno stucco tanto serrato, che non si puo disiderar in alcun modo migliore. Ma bisogna bene av- vertiré di non abbandonare 1'intonaco, mentre la materia é fresca, perché fenderebbe in molti luoghi; anzi é ne- cessario a voler che si conservi bueno, non se gli levar mai d'interne con la cazzuola, ovvero mestola o cucchiara che vogliam dire, insino a che non sia del tutto pulita- mente disteso come ha da stare. Secco poi che sia questo intonaco, e datovi sopra d'imprimatura o mestica, si con- durranno le figure e le storie perfettamente ; come T opere del dette palazzo e molte altre possono chiaramente di- mostrare a ciascuno. Capitolo IX Del dipignere a olio su le tele. Gli uomini, per potere portare le pitture di paese in paese, hanno tróvate la comodith delle tele dipinte, come quelle che pesano poco, ed avvolte seno agevoli a tras- portarsi. Queste a olio, perch'elle siano arrendevoli, se non hanno a stare ferme, non s'ingessano, attesoché il gesso vi crêpa su arrotolandole ; però si fa una pasta di farina con olio di noce, ed in quelle si mettono due o tre macinate di biacca; e quando le tele hanno avuto tre o quattro mani di colla che sia dolce, ch' abbia pas- DELLÀ PITTURA 189 sato da una banda all'altra, con un coltello si dà questa pasta, e tutt'i buchi vengono con la mano dell'artefice a turarsi. Fatto ció, se le da una o due mani di colla dolce, e dappoi la mestica o imprimatura; ed a dipin- gervi sopra si tiene il medesimo modo cbe agli altri di sopra racconti. E perché questo modo è paruto agevole e comodo, si sono fatti non solamente quadri piccoli per portare attorno, ma ancora tavole da altari ed altre opere di storie grandissime ; come si vede nelle sale del palazzo di San Marco di Vinezia, ed altrove: avvegnachè, dove non arriva la grandezza delle tavole, serve la grandezza * e '1 eomodo delle tele. Capitolo X Del dipingere in pietra a olio, e che pietre siano huone. E cresciuto sempre l'animo a'nostri artefici pittori, facendo che il colorito a olio, oltra 1'averio lavorato in muro, si possa volendo lavorare ancora su le pietre. Delle quali hanno trovato nella riviera di Genova queUa spezie di lastre che noi dicemmo nella Architettura, che sono attissime a questo bisogno ^ ; perche, per esser ser- rate in së e per avere la grana gentile, pigliano il pu- limento piano. In su queste hanno dipinto modernamente quasi infiniti, e trovato il modo vero da potere lavorarvi sopra. Hahno provate poi le pietre più fine ; come mischi di marmo, serpentini e porfidi, ed altre simili, che sendo liscie brunite, vi si attacca sopra il colore. Ma nel vero, quando la pietra sia ruvida ed arida, molto meglio in- zuppa e piglia l'olio bollito ed il colore dentro; come alcuni piperni ovvero piperigni gentili, i quali quando siano battuti col ferro e non arrenati con rena o sasso ^ Attissime se il nitro non le sciogliesse, come ha fatto di quelle del Duomo d'Orvieto dipinte dal Zuccheri. 190 introduzione di tufi, si possono spianare con la medesima mistura che dissi neirarricciato, con quella cazzuola di ferro infocata. Perciocche a tutte queste pietre non accade dar colla in principio, ma solo una mano d'imprimatura di colore a olio, cioë mestica; e secca che ella sia, si può comin- ciare il lavoro a suo piacimento. E chi volesse fare una storia a olio su la pietra, può torre di quelle lastre ge- novesi e farle fare quadre, e fermarle nel muro co'perni sopra una incrostatura di stucco, distendendo bene la mestica in su le commettiture, di maniera che e'venga a farsi per tutto un piano, di che grandezza l'artefice ha bisogno. E questo ë il vero modo di condurre tali opere a fine: e finite, si può a quelle fare ornamenti di pietre fini, di misti e d'altri marmi; le quali si rendono du- rabili in infinito, purche con diligenza siano lavorate; e possonsi e non si possono verniciare, come altrai piace, perché la pietra non prosciuga, cioé non sorbisce quanto fa la tavola e la tela, e si difende da'tarli, il che non fa il legname. Capitolo XI Del dipígnere nelle mura di chiaro e scuro di varie terrette; e come si con- traffanno le cose di l·ronzo; e delle storie di terretta per arclii o per feste^ a colla; che e chiamato a guazzo ed a tempera. Vogliono i pittori, che il chiaroscuro sia una forma di pittura che tragga più al disegno che al colorito; perché ció é state cavato dalle statue di marino, contraf- facendole, e dalle figure di bronzo ed altre varie pietre: e questo hanno usato di fare nelle facciate de'palazzi e case, in istorie, mostrando che quelle siano contraffatte, e paino di marino o di pietra, con quelle storie intagliate: o ve- rameute, contraífacendo quelle sorti di spezie di marino e pórfido, e di pietra verde, e granito rosso e bigio, o bronzo, o altre pietre, come par loro meglio, si sono ac- dellà pittüra 101 comodati in più spartimenti di questa maniera ; la quaT è oggi molto in uso per fare le facce delle case e de'pa- lazzi, cosí in Roma come per tutta Italia. Queste pitture si lavorano in due modi: prima in fresco, che è la vera; o in tele per archi che si fanno neir entrate de' principi nelle citth e ne'trionfi, o negli apparati delle feste e delle commedie, perche in simili cose fanno bellissimo vedere. Tratteremo prima della spezie e sorte del fare in fre- sco ; poi diremo dell' altra. Di questa sorte di terretta si fanno i campi con la terra da fare i vasi, mescolando quella con carhone macinato o altro nero per far l'ombre più seure, e bianco di trevertino, con più scuri e più chiari; e si lumeggiano col bianco schietto, e con ultimo nero a ultimi scuri finite. Vogliono avere tali specie fie- rezza, disegno, forza, vivacità e bella maniera; ed essere espresse con una gagliardezza che mostri arte e non stento, perche si hanno a vedere ed a conoscere di lontano. E con queste ancora s'imitino le figure di bronze; le quali col campo di terra gialla e rosso s'abbozzano, con più scuri di quelle nero e rosso e giallo si sfondano, e con giallo schietto si fanno i mezzi, e con giallo e bianco si lumeggiano. E di queste hanno i pittori le facciate e le storie di quelle con alcune statue tramezzate, che in que- sto genere hanno grandissima grazia. Quelle poi che si fanno per archi, commedie o feste, si lavorano poi che la tela sia data di terretta; cioè di quella prima terra schietta da far vasi, temperata con colla: e bisogna che essa tela sia bagnata di dietro, mentre l'artefice la di- pinge, acciocchè con quel campo di terretta unisca me- glio gli scuri ed i chiari delí'opera sua; e si costuma temperare i neri di quelle con un poco di tempera; e si adoperano biacche per bianco, e minio per dar rilievo alie cose che paiono di bronzo, e giallognolo per lumeg- glare sopra detto minio; e per i campi e per gli scuri le medesime terre gialle e rosse, ed i medesimi neri che 192 introduzione io dissi nel lavorare a fresco, i quali fanno mezzi ed cm- bre. Ombrasi ancora con altri diversi colorí altre sorte di chiari e scuri; come con terra d'ombra, alla quale si fa la terretta di verde terra, e gialla e bianco; simil- mente con terra nera, che ë un'altra sorte di verde terra, e nera, che la chiamano verdaccio. Capitolo XII Degli sgraffiti delle case che reggono all'acqiia; quelle che si adoperi a farli; e coiue si lavorino le grottesche mile mura. Hanno i pittori un' altra sorte di pittura, che ë dise- gno e pittura insieme, e questo si demanda sgraffito, e non serve ad altro che per ornamenti di facciate di case e palazzi, che più brevemente si conducono con questa spezie, e reggono all'acque sicuramente; perchë tutt'i lineamenti, in vece di essere disegnati con carbone o con altra materia simile, sono tratteggiati con un ferro dalla mano del pittore. II che si fa in questa maniera : pigliano la calcina mescolata con la rena ordinariamente, e con paglia abbruciata la tingono d'une scuro che venga in un mezzo colore che trae in argentino, e verso lo scuro un poco più che tinta di mezzo, e con questa intonacano la facciata. E fatto ció, e pulita col bianco della calce di trevertino, l'imbiancano tutta; ed imbiancata, ci spol- verano su i cartoni, owere disegnano quel che ci vogliono fare, e di poi, aggravando col ferro, vanno dintornando e tratteggiando la calce, la quale, essendo sotto di corpo nero, mostra tutti i graffi del ferro come segni di dise- e gno. E si suele ne' campi di quelli radere il bianco, poi avere una tinta d'acquerello scuretto molto acqui- doso, e di quelle dare per gil scuri, come si desse a una carta; il che di lontano fa un bellissimo vedere: ma il campo, se ci ë grottesche o fogliami, si sbattimenta, cioë dellà pittuea 193 ombreggia con quelle acquerello. E questo ë il lavoro che per esser dal ferro graffiato, hanno chiamato i pit- tori sgraffito. Eestaci ora a ragionare delle grottesche, che si fauno sul muro. Dunque, quelle che vanno in campo bianco, non ci essendo il campo di stucco, per non es- sere bianca la calce, si dh per tutto sottilmente il campo di bianco; e fatto ció, si spolverano, e si lavorano in fresco di colori sodi, perche non avrebbono mai la gra- zia c' hanno quelle che si lavorano su lo stucco. Di questa spezie possono essore grottesche grosse e sottili, le quali vengono fatte nel medesimo modo che si lavorano le figure a fresco o in muro. Capitolo XIII Carne si lavorino le grottesche su lo stucco. Le grottesche sono una spezie di pitture licenziose e ridicole molto, fatte dagli antichi per ornamenti di vani, dove in alcuni luoghi non stava bene altro che cose in aria: per il che facevano in quelle tutte scon- ciature di mostri, per strettezza delia natura, e per gric- ciolo e ghiribizzo degli artefici; i quali fauno in quelle, cose senza alcuna regola, appiccando a un sottilissimo filo un peso che non si può reggere, ad un cavallo le gambe di foglie, e a un nomo le gambe di gru, ed infi- niti sciarpelloni e passerotti; e chi più stranamente se gf immaginava, quello era tenuto più valente. Furono poi regolate- e per fregi e spartimenti fatto bellissimi andari : cosi di stucchi mescolarono quelle cou la pittura. E si innanzi ando questa pratica, che in Roma ed in ogni luogo dove i Romani risedevano, ve n'è ancora conser- vato qualche vestigio. E nel vero, tocche d'oro ed inta- gliate di stucchi, elle sono opera allegra e dilettevole a vedere. Queste si lavorano di quattro maniere: Tuna Vasari , Opere. — Vol. I. 13 194 introduzione lavora lo stucco scliietto; T altra fa gli ornamenti soli di stucco, 6 dipinge le storie ne'vani e le grottesche ne'fregi; la terza fa le figure parte lavorate di stucco e parte dipinte di bianco e nero, contrafiacendo camniei ed altre pietre. E di questa specie grottesche e stucchi se n' è visto e vede tante opere lavorate dai moderni, i quali con somma grazia e bellezza banno adornato le fabbricbe più notabili di tutta T Italia, che gli anticbi rimangono vinti di grande spazio. L'ultima, finalmente, lavora d'acquerello in su lo stucco, campando il lume con esso, ed ombrandolo con diversi colori. Di tutte que- ste sorti, che si difendono assai dal tempo, se ne veggono delle anticbe in infiniti luogbi a Eoma, e a Pozzuolo, vi- ciño a Napoli. E questa ultima sorte si può anco benis- simo lavorare con colori sodi a fresco, lasciando lo stucco bianco per campo a tutte queste, che nel vero banno in se bella grazia; e fra esse si mescolano paesi, cbe molto danno loro dell'allegro; e cosí ancora storiette di figure piccole colorite. E di questa sorte oggi in Italia ne sono molti maestri cbe ne fanno professione, ed in esse sono eccellenti. Capitolo XIV Del modo del metiere d' oro a hoto ed a mordente, ed altri modi. Fu veramente bellissimo segreto ed investigazione sofistica il trovar modo cbe l'oro si battesse in fogli si sottilmente, cbe per ogni migliaio di pezzi battuti, grandi un ottavo di braccio per ogni verso, bastasse fra l'ar- tificio e Toro, il valore solo di sei scudi. Ma non fu punto meno ingegnosa cosa il trovar modo a poterlo talmente distendere sopra il gesso, cbe il legno od altro accostovi sotto, paresse tutto una massa d'oro: il cbe si fa in que- sta maniera. Ingessasi il legno con gesso sottilissimo, 1 dellà pittüra 195 impastato colla colla piuttosto dolce che cruda, e vi si dà sopra grosso più mani, secondo che il legno ë lavo- rato bene o male: in oltre, raso il gesso e pulito, con la chiara delhuovo schietta, shattuta sottilmente con Tacqua, dentrovi si tempera il holo armeno macinato ad acqua sottilissimamente, e si fa il primo acquidoso, o vogliamo dirlo liquido e chiaro, e Taltro appresso più corpulento. Poi si dà con esso almanco tre volte sopra il lavoro, fino che ei lo pigli per tutto bene; e hagnando di mano in mano, con un pennello, con acqua pura dov'e dato il holo, vi si mette su Toro in foglia, il quale su- hito si appicca a quel molle; e quando egli ë soppasso,. non secco, si hrunisce con una zanna di cane o di lupo, sinchë e' diventi lustrante e bello. Dorasi ancora in un'al- tra maniera che si chiama a mordente : il che si adopera ad ogni sorte di cose; pietre, legni, tele, metalli d'ogni spezie, drappi e corami; e non si hrunisce come quel primo. Questo mordente, che ë la maestra che lo tiene^ si fa di colori seccaticci a olio di varie sorti, e di olio cotto con la vernice dentrovi, e dassi in sul legno che ha avuto prima due mani di colla. E poichë il mordente ë dato cosí , non mentre che egli ë fresco, ma mezzo secco, vi si mette su l'oro in foglie. II medesimo si può fare ancora con l'armoniaco, quando s'ha fretta; atte- sochë, mentre si dà, ë buono: e questo serve più a fare selle, arabeschi ed altri ornamenti, che ad altro. Si ma- cina ancora di questi fogli in una tazza di vetro con un poco di mele e di gomma, che serve ai miniatori, ed a infiniti che col pennello si dilettano fare profili e sotti- lissimi lumi nelle pitture. E tutti questi sono bellissimi segreti; ma per la copia di essi non se ne tiene molto- conto. k 196 introduzione Capitolo XV Del musaico de'vetri, ed a quello che si conosce il huono e lodato. Essendosi assai largamente dette di sopra nel vi Capi- tolo delFArchitettura che cosa sia il musaico, e come e'si faccia, continuandone qui quel tanto che è proprio delia pittura, diciamo che egli è maestria veramente grandissima condurre i suoi pezzi cotante uniti, che egli apparisca di lontano per onorata pittura e bella: atte- soche in questa spezie di lavoro bisogna e pratica e giu- dizio grande, con una profondissima intelligenza nelbarte del disegno; perché chi offusca ne' disegni il musaico con la copia ed abbondanza delle troppe figure nelle istorie, e con le molte minuterie de' pezzi, le confonde. E però bisogna che il disegno de' cartoni che per esse si fanno, sia aperto, largo, facile, chiaro, e di bontà e bella ma- niera continúate. E chi intende nel disegno la forza degli sbattimenti, e del dare pochi lumi ed assai scuri, con fare in quelli certe piazze o campi; cestui sopra d'ogni altro lo farà bello e bene ordinate. Vuele avere il musaico lodato chiarezza in së, con certa unita scurità verso l'om- bre; e vuele esser fatto con grandissima discrezione, lontano dall'occhio, acciocchë lo stimi pittura e non tar- sia commessa. Laonde i musaici che aranno queste parti, saranno buoni e lodati da ciascheduno. E certo ë che il musaico ë la più durabile pittmra che'sia; imperocchë r altra col tempo si spegne, e questa nello stare fatta di continuo s' accende ; ed inoltre, la pittura manca e si consuma per se medesima, ove il musaico per la sua lunghissima vita si può quasi chiamare eterno. Perlochë scorgiamo noi in esse non solo la perfezione de' maestri vecchi, ma quella ancora degli antichi, mediante quelle opere che oggi si riconoscono dell'eta loro; come nel DELLÀ PITTUEA 197 tempio di Bacco a Sant'Agnesa fuor di Eoma, dove e benissimo condotto tutto quelle che vi ë lavorato; símil- mente a Ravenna n' ë del vecchio bellissimo in più luo- ghi, ed a Vinezia in San Marco, a Pisa nel Duomo, ed a Fiorenza in San Giovanni la tribuna : ma il più bello di tutti ë quelle di Giotto, nella nave del portico di San Fiero di Roma, perchë veramente in quel genere ë cosa miracolosa: e ne'moderni, quelle di Domenico del Ghir- landaio, sopra la porta di fuori di Santa Maria del Fiore che va alFAnnunziataP Preparansi, adunque, i pezzi da farlo in questa maniera : quando le fornaci de' vetri seno disposte e le padelle piene di vetro, se li vanno dando i colori, a ciascuna padella il suo: avvertendo sempre che da un chiaro bianco che ha corpo e non ë traspa- rente, si conduchino i più scuri di mano in níano, in quella stessa guisa che si fauno le mestiche de' colori per dipingere ordinariamente. Appresso, quando il vetro ë cette e bene stagionato, e le mestiche sono condette e chiare e scure e d'ogni ragione, con certe cucchiaie lun- ghe di ferro si cava il vetro caldo e si mette in su un marmo piano, e sopra con un altre pezzo di marmo si schiaccia pari; se ne fauno rotelle che venghino ugual- mente piane e restino di grossezza la terza parte del- Taltezza d'un dito. Se ne fa poi, con una bocea di cane di ferro, pezzetti quadri tagliati, ed altri col ferro caldo lo spezzano, inclinándolo a loro modo. I medesimi pezzi diventano lunghi, e con uno smeriglio si tagliano: il simile si fa di tutti i vetri che hanno di bisogno, e se n'empiono le scatole, e si tengono ordinati come si fa i colori quando si vuele lavorare a fresco, che in vari ' I musaici di San Pietro in Roma, e tra questi la Santa Petronilla e la cupola del Battistero; quelli che si veggono in Venezia sopra la porta di San Marco, ecc., vorrebbero lodi anche maggiori. Tra i musaici antecedenti al tempo di Giotto, i piú belli sono quelli fatti in Sicilia, cioè a Cefalú, a Pa- lermo e a Monreale. (V. De Marzo, Delle Belle Arti in Sicilia', e II DuoWl O di Monreale illustrato da Don Domenico B. Gravina, anno 1859. 198 INTRODUZIONE scodellini si tiene separatamente la mestica delle tinte pin cMare e pin scnre per lavorare. Ècci nn'altra spe- zie di vetro clie s' adopra per lo campo e per i Inmi dei panni, che si mette d'oro. Qnesto qnando lo vogliano dorare, pigdiano qnelle piastre di vetro che hanno fatto, e con acqna di gomma bagnano tntta la piastra del ve- tro, e poi vi mettono sopra i pezzi d'oro; fatto ció, met- tono la piastra sn nna pala di ferro, e qnella nella bocea della fornace, coperta prima con nn vetro sottile tntta la piastra di vetro che hanno messa d'oro; e fanno qne- sti coperchi o di bocee o a modo di fiaschi spezzati, di maniera che nn pezzo cnopra tntta la piastra; e lo ten- gono tanto nel fnoco, che vien qnasi rosso; ed in nn tratto cavándolo. Toro viene con nna presa mirabile a imprimersi nel vetro e fermarsi, e regge all'acqna ed a ogni tempesta : poi qnesto si taglia ed ordina come l'altro di sopra. E per fermarlo nel mnro, nsano di fare il car- tone colorito, edalcnni altri senza colore; il qnale cartone calcano o segnano a pezzo a pezzo in sn lo stncco, e di poi vanno commettendo a poco a poco qnanto vogliono fare nel mnsaico. Qnesto stncco, per esser posto grosso in sn l'opera, gli aspetta dne di e qnattro, seconde la qnalità del tempo; e fassi di trevertino, di calce, mat- tone pesto, draganti e chiara d'novo; e, fattolo, tengono molle con pezze bagnate. Cosi, dnnqne, pezzo per pezzo tagliano i cartoni nel mnro, e lo disegnano snllo stncco calcando; finche poi con certe mollette si pigliano i pez- zetti degli smalti e si commettono nello stncco, esiln- meggiano i Inmi, e dassi mezzi a' mezzi e scnri agli scnri, contraffacendo l'ombre, i Inmi ed i mezzi minntamente, come nel cartone; e cosi, lavorando con diligenza, si condnce a poco a poco a perfezione. E chi più lo con- dnce nnito, sicchè ei torni pnlito e piano, colni è più degno di loda e tennto da più degli altri. Impero sono alcnni tanto diligenti al mnsaico, che lo condncono di DELLÀ PITTUEA 199 maniera che gil apparisce pittiira a fresco. Qnesto, fatta la presa, indura talmente il vetro nello stucco, che dura infinito ; come ne fanno fede i musaici antichi che sono in Roma, e quelli che sono vecchi; ed anco nelfuna e neir altra parte i moderni ai di nostri n' hanno fatto del meraviglioso. Capítolo XVI DelV istorie e délie figure che si fanno di commesso ne^pavimenti, ad imitazione délie cose di chiaro e sciiro. Hanno aggiunto i nostri moderni maestri al musaico di pezzi piccoli un'altra specie di musaici di marmi com- messi, che contraífanno le storie dipinte di chiaroscuro; e questo ha causato il desiderio ardentissimo di volere che e'resti nel mondo a chi verrh dopo, se pure si spegnes- sero r altre spezie della pittura, un lunie che tenga accesa la memoria de'pittorimoderni; e cosi hanno contraffatto, con mirabile magistero, storie grandissime, che non solo si potrebbono mettere ne'pavimenti dove si cammina, ma incrostarne ancora le facce delle muraglie e de'pa- lazzi, con arte tanto bella e meravigliosa, che pericolo non sarebbe che il tempo consumasse il disegno di co- loro che sono rari in questa professione : come si può ve- dere nel Huomo di Siena, cominciato prima da Duccio Sánese,^ e poi da Domenico Beccafumi, a'di nostri, se- guitato ed augumentato. Questa arte ha tanto del buono e del nuovo e del durabile, che per pittura commessa di bianco e nero poco piti si puote desiderare di bontà e di bellezza. II componimento suo si fa di tre sorte marmi che vengono de'monti di Carrara: l'uno de'quali ëbianco ' Vedremo, annotando la vita di Duccio, se egli poté essere rinventore del lavori di commesso a chiaroscuro nel Duomo di Siena. 200 INTRODUZIONE fînissimo e candido; Taltre non è bianco, ma pende in livido, che fa mezzo a quel bianco; ed il terzo è un marino bigio, di tinta che trae in argentino, che serve per iscuro/ Di questi volendo fare una figura, se ne fa un cartone di chiaro e scuro con le medesime tinte; e ció fatto, per i dintorni di que'mezzi e scuri e chiari, a'luoghi loro si commette nel mezzo con diligenza il lume di quel marmo candido, e cosí i mezzi e gli scuri allato a quei mezzi, secondo i dintorni stessi che nel cartone ha fatto Tarte- fice. E quando ció hanno commesso insieme, e spianato di sopra tutti i pezzi de'marmi, cosi chiari come scuri e come mezzi, piglia Tartefice che ha fatto il cartone, un pennello di nero temperato, quando tutta Topera è in- sieme commessa in terra, e tutta sui marmo la tratteg- gia e profila dove sono gli scuri, a guisa che si contorna, tratteggia e profila con la penna una carta che avesse disegnata di chiaroscuro. Fatto ció, lo scultore viene in- cavando coi ferri tutti quei tratti e profili che il pit- tore ha fatti, e tutta, Topra incava dove ha disegnato di nero il pennello. Finito questo, si murano ne'piani a pezzi a pezzi; e finito, con una mistura di pególa ñera bollita, o asfalto, e nero di terra, si riempiono tutti gli incavi che ha fatto lo scarpeUo; e, poi che la materia è fredda e ha fatto presa, con pezzi di tufo vanno levando e con- sumando ció che sopravanza, e con rena, mattoni e acqua si va arrotando e spianando tanto, che il tutto resti ad un piano, cioè il marmo stesso ed il ripieno. Il che fatto, resta Topera in una maniera, che ella pare veramente pittura in piano: ed ha in së grandissima forza, con arte e con maestria. Laonde ë ella molto venuta in uso per la sua bellezza, ed ha causato ancora che molti pavimenti di stanze oggi si fanno di mattoni, che siano una parte di terra bianca, cioë di quella che trae in azzurrino quando ^ Devesi aggiungere il rosso e il nero. DELLÀ PITTURA 201 ella ë fresca, e cotta diventa bianca; e l'altra della ordina- ria da fare mattoni, che viene rossa quando ella ë cotta. Di queste due sorti si sono fatti pavimenti commessi di varie maniere a spartimenti : come ne fanno fede le sale papali a Roma al tempo di Raffaello da Urbino; e ora. últimamente moite stanze in Castel Sant'Agnolo, dove si sono con i medesimi mattoni fatte imprese di gigli com- messi di pezzi, che dimostrano Tarme di papa Paulo e moite altre imprese; ed in Firenze il pavimento della librería di San Lorenzo^ fatto fare dal duca Cosimo: e tutte sono state condotte con tanta diligenza, che più di bello non si può desiderare in tal magisterio; e di tutte queste cose commesse fu cagione il primo musaico. E perchë, dove si ë ragionato delle pietre e marmi di tutte le sorti, non si ë fatto menzione d'alcuni misti novamente trovati dal signor duca Cosimo; dico che^ Taimo 1563, sua Eccellenza ha trovato nei monti di Pie- trasanta, presse alla villa di Stazzema, un monte che gira due miglia ed altissimo, la cui prima scorza ë di marmi bianchi, ottimi per fare statue. Il di sotto ë un mischio rosso e gialliccio, e quelle che ë più addentro ë verdiccio, nero, rosso e giallo, con altre varie mescolanze di colorí; e tutti sono in modo duri, che quanto più si va a dentro, si trovano maggior saldezze; ed insino a ora vi si vede da cavar colonne di quindici in venti braccia. Eon se n'ë ancor messe in uso, perchë si va tuttavia facendo d'ordine di sua Eccellenza una strada di tre mi- glia, per potere condurre questi marmi dalle dette cave alla marina: i quali mischi saranno, per quelle che si vede, molto a proposito per pavimenti. ' Paolo m. ''' Vedi il disegno di questo pavimento inventato dal Tribolo e messo in da opera Santi Buglioni, che è inciso in rame molto esattamente nel primo volume della Librería Mediceo-Laurenziana^ da Giuseppe Ignazio Rossi; Firenze, 173A 202 introduzione Capitolo XVII Del niusaico di legname, eioe delle tarsie; e delV istorie che si fanno di legni tinti e commessi a guisa di pitture. Quanto sia facil cosa raggiugnereairinvenzioni de'pas- 'sati qualclie nuovo tróvate sempre, assai cliiaro ce lo di- mostra non solo il predetto commesso de'pavimenti, che senza dubbio vien dal mnsaico, ma le stesse tarsie an- eora, e le figure di tante varie cose che a similitudine pur del musaico e della pittura, sono state fatte da'nostri vecchi di piccoli pezzetti di legno commessi ed uniti in- sieme nelle tavole del noce, e colorati diversamente: il che i moderni chiamano lavoro di commesso, benchë a' vecchi fosse tarsia. Le miglior cose che in questa spe- zie gih si facessero, furono in Firenze nei tempi di Fi- lippo di ser Brunellesco, e poi di Benedetto daMaiano; il quale nientedimanco, giudicandole cosa disutile, si levó in tutto da quelle, come nella Vita sua si dirà. Cestui come gli altri passati, le lavorò solamente di nero e di bianco; ma Fra Giovanni Veronese, che in esse fece gran frutto, largamente le migliorò, dando varj colori a'legni con acque e tinte bollite e con olii penetrativi, per avere cli legname i chiari, e gli scuri variati diversamente, come uell'arte della pittura, e lumeggiando con bianchissimo legno di silio sottilmente le cose sue. Questo lavoro ebbe origine primieramente nelle prospettive, perche quelle uvevano termine di canti vivi, che commettendo insieme i pezzi facevano il profilo, e pareva tutto d'un pezzo il piano deir opera loro, sebbene e'fosse state di più di mille. Lavorarono però di questo gli antichi ancora nelle incro- stature delle pietre fini: come apertamente si vede nel portico di San Pietro, dove ë una gabbia con uno uc- cello in un campo di pérfido e d'altre pietre diverse, DELLÀ PITTÜRA 203 commesse in qnello con tntto 11 resto degli staggi e delle altre cose.* Ma per essere il legno pin facile e molto dolce pin a qnesto lavoro, hanno potnto i maestri nostri lavo- rarne piii abbondantemente, ed in qnel modo cbe hanno volnto. Usarono già per far T ombre, abbronzarle col fnoco da nna banda, il che bene imitava Tombra; ma hanno gli altri nsato di poi olio di zolfo, ed acqne di solimati e di arsenichi, con le qnali cose hanno dato qnelle tinture che eglino stessi hanno volnto: come si vede di Fra nell'opre Damiano in San Domenico di Bologna.® E tale perché professione consiste solo ne' disegni che siano atti a tale.esercizio, pieni di casamenti e di cose che abbino i lineamenti qnadrati, e si possa per via di chiari e di scnri dare loro forza e rilievo; hannolo fatto che sempre per- soné hanno avnto più pacenzia che s'è disegno. E cosi cansato che molte opere vi sono fatte, e si sono in qnesta professione lavorate storie di fignre, fmtti ed ani- mali, che invero alcnne cose sono vivissime; ma, per es- sere cosa che tosto diventa ñera, e non contraf^ se non la pittnra, essendo da meno di qnella, e poco dnrabile per i tarli e per il fnoco, è tennto tempo bnttato in ancorache vano, e'sia pure e lodevole e maestrevole. Capitolo XVIII Del dipígnere le -finestre di vetro, e come elle si conduchino co'ferri co'piomhf e da sostenerle senza impedimento delle figure. Costnmarono già gli antichi, ma per gli nomini o almeno grandi di qnalche importanza, di serrare le finestre in modo, che senza impediré il Inme non vi entrassero i venti o il freddo : e qnesto non solamente ne' bagni loro e ne' sn- * La gabbia or p¡ü non si vede. " É questi fra Damiano da in Bergamo, domenicano, del patria, ed quale esistono in Bologna i postergali opere del coro di San Vecchio Domenico, dove il e Nuovo Testamento. II figuró Vasari lo rammenta nella Vita di Francesco 204 INTRODUZIONE datoi, nelle stufe e negli altri luoghi riposti, chiudendo le aperture o vani di quelle con alcune pietre trasparentó, come sono le agate, gli alabastri ed alcuni marmi teneri cbe sono mischi o che traggono al gialliccio. Ma i mo- derni, che in molto maggior copia hanno avuto le for- naci de'vetri, hanno fatto le finestre di vetro di occhi e di piastre, a similitudine od imitazione di quelle che gli antichi fecero di pietra ; e con i piombi accanalati da ogni banda, le hanno insieme serrate e ferme; e ad al- cuni ferri messi nelle muraglie a questo proposito, o ve- ramente ne'telai di legno, le hanno armate e ferrate, come diremo. E dove elle si facevano nel principio sem- plicemente d'occhi bianchi, e con angoli bianchi oppur colorati, hanno poi imaginato gli artefici fare un mu- saico delle figure di questi vetri diversamente colorati e connnessi ad uso di pittura. E talmente si e assotti- gliato ringegno in ció, che e'si vede oggi condotta que- sEarte delle finestre di vetro a quella perfezione che nelle tavole si conducono le belle pitture, unite di colori e pulitamente dipinte : siccome nella Yita di Guglielmo da Marcillà franzese largamente dimostreremo. Di questa arte hanno lavorato meglio i Fiamminghi ed i Franzesi, che r altre nazioni; attesoche eglino, come investigatori delle cose del fuoco e de' colori, hanno ridotto a cuocere a fuoco i colori che si pongono in sul vetro, a cagione che il vento, l'aria e la pioggia non le offenda in ma- niera alcuna; dove già costumavano dipigner quelle di colori velati con gomme, ed altre tempere, che col tempo si consumavano, ed i venti, le nebbie e I'acque se le por- tavano di maniera, che altro non vi restava che il sem- plice colore del vetro. Ma nella età presente veggiamo noi condotta questa arte a quel somme grado, oltra il Salviati; ma nuove e piú estese notizie di questo intarsiatore possono leggersi nel seconde volume dell'opera del P. L. Vincenzo Márchese sopra i piú insigni artefici deil'Ordine Domenicano; Firenze, 1845-46, in-8. i DELLÀ PITTÜEA 205 quale non si può appena desiderare perfezione alcuna di finezza e di bellezza e di ogni particularita che a questo possa servire; con una delicata e somma vaghezza, non meno salutífera per assicurare le stanze da' venti e dal- Parie cattive, che utile e comoda per la luce chiara e spedita che per quella ci si appresenta. Yero ë che, per condurle che elle siano tali, bisognano primieramente tre cose: cioë una luminosa trasparenza ne'vetri scelti, un bellissimo componimento di ció che vi si lavera, ed un colorito aperto senza alcuna confusione. La trasparenza consiste nel saper fare elezione di vetri che siano lucidi per se stessi: ed in ció meglio sono i franzesi, fiammin- ghi ed inghilesi, che i veniziani; perche i fiamminghi sono molto chiari, ed i veniziani molto carichi di colore; e quegli che son chiari, adombrandoli di scuro, non per- dono il lume del tutto, taie che e'non traspaiano nel- rombre loro; mai veniziani, essendo di loro naturascuri, ed escurandoli di piii con Pombre, perdono in tutto la trasparenza. Ed ancora che moiti si dilettino d'averli ca- richi di colori artifiziatamente soprappostivi, che sbattuti dalP aria e dal sole mostrano non so che di bello più che non fanno i colori naturali; meglio ë nondimeno avere i vetri di loro natura chiari che scuri, acciocchë dalla grossezza del colore non rimanghino ofifuscati. A condurre questa opera, bisogna avere un cartone disegnato con profili, dove siano i contorni delle pieghe dei panni e delle figure, i quali dimostrino dove si hanno a commettere i vetri; dipoi si pigliano i pezzi de'vetri rossi, gialli, azzurri e bianchi, e si scompartiscono se- condo il disegno per panni o per carnagioni, come ri- cerca il bisogno. E per ridurre ciascuna piastra di essi vetri alie misure disegnate sopra il cartone, si segnano detti pezzi in dette piastre pósate sopra il detto cartone con un pennello di biacca; ed a ciascun pezzo s'assegna il suo numero, per ritrovargli più fácilmente nel conmiet- 206 introduzione tergli: i quali numeri, finita Topera, si scancellano. Fatto questo, per tagliarli a misara, si piglia un ferro appun- tato affocato, con la pimta del quale avendo prima con una punta di smeriglio intaccata alquanto la prima su- perficie dove si vuele cominciare, e con un poco di sputo bagnatovi, si va con esso ferro lungo que'dintorni, ma alquanto discosto; ed a poco a poco, movendo il predetto ferro, il vetro s'inclina e si spicca dalla piastra. Dipoi, con una punta di smeriglio, si va rinettando detti pezzi e levandovi il superfino, e con un ferro, che e'chiamano grisatoio ovvero topo, si vanno rodendo i dintorni dise- gnati, tale che e'venghino giusti da poterli commettere per tutto. Cosí dunque commessi i pezzi di vetro, in su una tavola piaña si distendono sopra il cartone, e si comincia a dipignere per i panni l'ombra di quelli; la quale vuol essere di scaglia di ferro macinata, e d'un'al- tra ruggine che alie cave del ferro si trova, la quale ë rossa, ovvero matita rossa e dura macinata; e con que- ste si ombrano le carni, cangiando. quelle col nero e rosso, secondo che fa bisogno. Ma prima ë necessario aile carni velare con quel rosso tutti i vetri, e con quel nero fare il medesimo a'panni, con temperarli con la gomma, a poco a poco dipignendoli ed ombrandoli come sta il cartone. Ed appresso, dipinti che e'sono, volendoli dare lumi fieri, si ha un pennello di setole corto e sottile, e con quello si graffiano i vetri in su il lume, e levasi di quel panno che aveva dato per tutto il primo colore, e con Tastic- ciuola del pennello si va lumeggiando i capelli, le barbe, i panni, i casamenti e paesi, come tu vuoi. Sono però m questa opera moite difficultà; e chi se ne diletta, può mettere varj colori sul vetro, perchë segnando su un co- lore rosso un fogliame o cosa minuta, volendo che a fuoco venga colorito d'altro colore, si può squammare quel ve- tro quanto tiene il fogliame, con la punta d'un ferro che levi la prima scaglia del vetro, cioë il primo suolo, e non DELLÀ PITTURA 207 la passi; perche, facendo cosi, rimane il vetro di color bianco, e se gli dà poi quel rosso fatto di che più nel misture, cuocere, mediante lo scorrere, diventa E questo si giallo. può fare su tutti i colori : ma il riesce giallo sul bianco meglio- che in altri colori; l'azzurro a divien verde campirlo nel cuocerlo, perche il giallo e Tazzurro mescolati fanno color verde. Questo giallo non si da mai se non dietro dove non è dipinto, perche mescolandosi e scorrendo guasterehhe e si mescolerebbe con il quale cotto rimane quello, sopra grosso il rosso che raschiato via con un ferro vi lascia giallo. Dipinti che sono i vogliono vetri, esser messi in una tegghia di ferro, con un di suolo cenere stacciata e calcina cotta mescolata; ed a suolo a suolo i vetri parimente distesi e ricoperti délia cenere istessa, poi posti nel fornello; il quale a fuoco lento a> poco a poco riscaldato,^ venga a infuocarsi la cenere e i vetri, perche i colori che vi sono su infocati, irruggini- scono e scorrono, e fanno la presa sul vetro. Ed a questo cuocere bisogna usare grandissima diligenza, il troppo fuoco perche violento li farebbe crepare, ed il li non cocerebbe. poco Nè si debbono cavare finche la tegghia dove padella o e'sono, non si vede tutta di fuoco, e la ce- nere con alcuni saggi sopra, che si è vegga quando il colore scorso. Fatto ció, si buttano i piombi in certe di forme pietra o di ferro, i quali hanno due lato canali; cioe da dentro ogni uno, al quale si commette e serra il e si piallano vetro, e dirizzano, e poi su una tavola si confie- cano, ed a pezzo per pezzo s'impiomba tutta quadri, Topera in e si saldano più tutte le commettiture de' saldatoi di piombi con stagno; ed in alcune traverse dove vanno i ferri, si mette fili di rame impiombati, acciocchè possine reggere e legare Topra; la quale s'arma di ferri 'che non ' In alcune edizioni ^ leggesi, « il quale vôlto il rosso rimane Nella edizione del sopra grosso ecc. ». 1568 diceva per errore fácilmente di abbiamo stampa riscaldati, che corretto noi come qui si legge. 208 INTEODÜZIONE siano al dritto delle figure, ma torti seconde le commet- titure di quelle, a cagione che e'non impedischino il ve- derle. Questi si mettono con inchiovature ne'ferri che reggono il tutto, e non si fanno quadri, ma tondi, acció impedischino manco la vista; e dalla banda di fuori si mettono alie finestre, e ne'buchi delle pietre s'impiom- baño, e con fili di rame, che ne'piombi delle finestre saldati siano a-fuoco, si légano fortemente. E perché i fanciulli o altri impedimenti non le guastino, vi si mette dietro una rete di filo di rame sottile. Le quali opere, se non fossero in materia troppo frangibile, durerebbono al mondo infinito tempo. Ma per questo non resta che Parte non sia difficile, artificiosa e bellissima. Capitolo XIX Del niello, e come per quello abbiamo le stampe di rame; e come s'infa- gimo gli argenti per fare gli smalti di bassorilievo, e similmente si cesellino le grosserie. II niello, il quale non ë altro che un disegno tratteg- giato e dipinto su lo argento, come si dipigne e si trat- teggia sottilmente con la penna, fu trovato dagli orefici sino al tempo degli antichi, essendosi veduti cavi co'ferri ripieni di mistura negli ori ed argenti loro.^ Questo si disegna cou lo stile su lo argento che sia piano, e s'in- taglia col bulino, che ë un ferro quadro tagliato a un- ghia dall'uno degli angoli all'altro per isbieco, che cosi calando verso uno de'canti, lo fa più acuto e tagliente da due lati, e la punta di esse scorre e sottilissimamente intaglia. Cou questo si fanno tutte le cosè che sono in- tagliate ne'metalli, per riempierle o per lasciarle vuote. ' De'nielli e de'niellatori pubblicô il Gicognara nel 1831 una storia compi- tissima, quale, dopo tante relazioni imperfette de'nostri e tante asserzioni arri- sçhiate degli esteri, era veramente desiderata. DELLÀ PITTURA 209 ■secondo la volontà dell'artefice. Quando hanno dunque intagliato e finito col bulino, pigliano argento e piombo, 6 fanno di esso alfnoco nna cosa che, incorporatainsieme, è nera di colore e frangibile molto e sottilissima a scor- rere. Questa si pesta e si pone sopra la piastra delbargento dov'è rintaglio, il qual è necessario che sia benpulito; ed accostatolo al fnoco di legne verdi, soffiando co'man- tici, si fa che i raggi di quelle percuotino dove è il niello; il quale per la virtii del calore fondendosi e scorrendo, riempie tutti gfi intagli che aveva fatti il bulino. Appresso, quando rargento è raífreddo, si va diligentemente co'ra- schiatoi levando il superfino, e con la pomice a poco a poco si consuma, fregándolo e con le mani e con un cuoio, tanto che e'si trovi il vero piano, e che il tutto resti pulito. Di questo lavorò mirabilissimamente Maso Fini- guerra fiorentino, il quale fu raro in questa professione; come ne fanno fede alcune paci di niello in San Giovanni di Fiorenza, che sono tenute mirabili. Da questo intaglio di bulino son derivate le stampe di rame, onde tante carte italiane e tedesche veggiamo oggi per tutta Italia; chë siccome negli argenti s'improntava, anzi che fussero ripieni di niello, di terra, e si buttava di zolfo, cosi gli ijtampatori trovarono il modo di fare le carte su le stampe di rame col torculo, come oggi abbiam veduto da essi imprimersi. Ecci un'altra sorte di lavori in argento o in oro, comunemente chiamato smalto, che è spezie di pit- tura mescolata con la scultura; e serve dove si mettono l'acque, sicchë gli smalti restino in fondo. Questa, do- vendosi lavorare in su Toro, ha bisogno d'oro finissimo; ed in su 1'argento, argento almeno a lega di giulj. Ed ë necessario questo modo, perchë lo smalto ci possa re- stare, e non iscorrere altrove che nel suo luogo. Bisogna lasciarli i profili d'argento, che di sopra sian sottili e non si vegghino. Cosi si fa un rilievo piatto, ed in con- trario all'altro, acciocchë, mettendovi gli smalti, pigli Vasari , Opere. — Vol. I. 14 210 INTRODUZIONE gli scuri e chiari di quello, dall' altezza e dalla bassezza deir intaglio. Pigliasi poi smalti di vetri e di varj colori, che diligentemente si fermano col martello ; e si tengono negli scodellini con acqua chiarissima, separati e distinti l'uno dall'altro. E quelli che si adoperano ail'oro, sono diiferenti da quelli che servono per l'argento, e si con- ducono in questa maniera; con una sottilissima palettina d'argento si pigliano separatamente gli smalti, e con pu- lita pulitezza si distendono a'jluoghi loro, e vi se ne mette e rimette sopra, seconde che ragnano, tutta quella quan- tità che fa di mestiero. Fatto questo, si prepara una pi- gnatta di terra fatta apposta, che per tutto sia piena di buchi, ed abbia una bocca dinanzi; e vi si mette dentro la mufola, cioè un coperchietto di terra bucato, che non lasci cadere i carboni a basso; e dalla mufola in su si empie di carboni di cerro, e si accende ordinariamente. Nel voto che è restate sotte il predetto coperchio, in su una sottilissima piastra di ferro, si mette la cosa smal- tata a sentire il caldo a poco a poco; e vi si tiene tanto, che, fondendosi gli smalti, scorrino per tutto quasi come acqua. Il che fatto, si lascia raifreddare; e poi con una frassinella, ch'è una pietra da dare filo ai ferri, e con rena da bicchieri si sfrega, e con acqua chiara, finche si truovi il suo piano. E quando è finito di levare il tutto, si rimette nel fuoco medesimo, acció il lustro, nello scor- rere l'altra volta, vada per tutto. Fassene d'un' altra sorte a mano, che si pulisce con gesso di Tripoli e con un pezzo di cuoio, del quale non accade far menzione: ma di que- sto l'ho fatto, perche, essendo opra di pittura come le altre, m'è paruto a proposito. dellà pittuea 211 Capitolo XX Délia ' tausia, cioè lavoro alla damaschina. Hanno ancora i moderni ad imitazione degli antichi rinvenuto una spezie di commettere ne'metalli intagliati d'argento o d'oro, facendo in essi lavori piani o di mezzo o di basso rilievo ; ed in ció grandemente gli hanno avan- zati. E cosí abbiamo veduto nello acciaio 1'opere inta- gliate alia tausia, altrimenti detta alia damaschina, per lavorarsi di ció in Damasco e per tutto il levante eccel- lentemente. Laonde veggiamo oggi di molti bronzi e ot- toni e rami, commessi di argento ed oro con arabeschi, venuti di que'paesi; e negli antichi abbiamo veduti anelli d'acciaio con mezze figure e fogliami molto belli. E di questa spezie di lavoro se ne sono fatte ai di nostri arma- dure da combattere, lavorate tutte d'arabeschi d'oro commessi; e similmente staffe, arcioni di selle, e mazze ferrate; ed ora molto si costumano i fornimenti delle spade, de'pugnali, de'coltelli, e d'ogni ferro che si vo- glia riccamente ornare e guernire; e si fa cosi : cavasi il ferro in sotto squadra, e per forza di martello si com- mette l'oro in quello, fattovi prima sotto una tagliatura a guisa di lima sottile, sicchë l'oro viene a entrare ne'cavi di quella ed a fermarvisi. Poi con ferri si dintorna o con garbi di foglie o con girare di quel che si vuele, e tutte le cose, co'fíli d'oro passati per filiera, si girano per il ferro, e col martello s'ammaccano, e fermano nel modo di sopra. Avvertiscasi, nientedimeno, che i fili siano più gros- si, ed i prófili più sottili, acció si fermino meglio in quelli. In questa professione infiniti ingegni hanno fatto cose lo- devoli e tenute maravigliose ; e peró non ho voluto man- care di farne ricordo, dependendo dal commettersi, ed es- sendo scultura e pittura, cioè cosa che deriva dal disegno. 212 introduzione Capitolo XXI Belle stampe di legno, e del modo di farle, e del primo inventor loro; e come con tre stampe si fanno le carte che paiono disegnate, e mostrano il lume, il mezzo e Vomhre. Il primo inveiitore delle stampe di legno di tre pezzi, per mostrare, oltra il disegno, Tombre, i mezzi ed i lumi ancora, fu ligo da Carpi; il quale a imitazione delle stampe di rame ritrovò il modo di queste, intagliandole in legname di pero o di bossolo, cbe in questo sono ec- cellenti sopra tutti gli altri legnami. Fecele dunque di tre pezzi; ponendo nella prima tutte le cose profilâte e tratteggiate; nella seconda tutto quello che è tinto ac- canto al profilo, con lo acquerello per ombra; e nella terza i lumi ed il campo, lasciando il bianco delia carta in vece di lume, e tingendo il resto per campo. Questa, dove ë il lume ed il campo, si fa in questo modo : pigliasi una carta stampata con la prima, dove sono tutte le profilature ed i tratti, e cosi fresca fresca si pone in su Tasse del pero, ed aggravandola sopra con altri fogli che non siano umidi, si strofina in maniera, che quella che ë fresca la- scia su Tasse la tinta di tutti i profili delle figure. E al- lora il pittore piglia la biacca a gomma, e dà in su '1 pero i lumi; i quali dati, lo intagliatore gli incava tutti co'ferri, seconde che sono segnati. E questa ë la stampa che primieramente si adopera, perchë fa i lumi ed il campo, quando ella ë imbrattata di colore ad olio; e per mezzo delia tinta, lascia per tutto il colore, salvo che dove ella ë incavata, chë ivi resta la carta bianca. La seconda poi ë quella delT ombre, che ë tutta piaña e tutta tinta di acquerello; eccetto che dove le ombre non hanno ad essere, chë quivi ë incavato il legno. E la terza, che ë la prima a formarsi, ë quella dove il pro- DELLÀ PITTURA 213 filato del tutto è incavato per tutto, salvo che dove e'non ha profili tocchi dal nero delia penna. Queste si stani- pano al torculo, e vi si rimettono sotto tre volte, cioe una volta per ciascuna stampa, sicche elle abhino il me- desimo riscontro. E certamente che ció fu hellissima in- venzione. Tutte queste professioni ed arti ingegnose si vede che derivano dal disegno, il quale è capo necessa- rio di tutte; e non I'avendo, non si ha nulla. Perche, sehbene tutti i segreti ed i modi sono buoni, quello è ottimo, per lo quale ogni cosa perduta si ritrova, ed ogni difficil cosa per esso diventa facile : come si potra vedere nel leggere le Vite degli artefici, i quali dalla natura e dallo studio aiutati hanno fatto cose sopra umane per il mezzo solo del disegno. E cosi facendo qui fine alia Introduzione delle tre arti, troppo più lungamente forse trattate che nel principio non mi pensai, me ne passo a scrivere le Vite. PEOEMIO DELLE VITE 215 SOMMARIO : — I. Origine delle arti del disegno ; e dapprima presse i Caldei. - II. Presse gli Egiziani e gli Ebrei. - III. Presse i Greci ed i Remani. - IV. Presse Etruschi. gli - Y. Delia decadenza delle arti presse i Reinani. - VI. L'architettura più lenta al cadere. - VII. Per la parteuza dei Cesari da Rema, l'architettura cade in rovina. maggior - VIII. L'invasiene dei barbari nel romane impero conduce a miserabile cendiziene tutte le arti del disegno. - IX. Dei danni recati alle arti dallo zele indiscrete dei cristiani. primi - X. Maggieri danni patiti per opera ceni. delí'imperatere Costante II, e dei Sara- - XI. Dell'arte sotte i Longebardi, e dell'origine dell'architettura detta tedesca. - XII. Di alcuni migliori edificj innalzati in Eirenze, in Venezia e altrove. - XIII. L'archi- tettura riserge alquante nella Tescana, e segnatamente in Pisa. - XIV. In Lucca. - XV. La scultura, la pittura e il mosaico, lasciata la imitazione dei Greci, cominciano a riser- gere per opera degl' Italiani. - XVI. Si distingue I' arte antica dalla vecchia. - XVII. Con- chiusione. I. lo non dnbito punto che non sia quasi di tutti gli scrittori comune e certissima opinion©, che la scultura insieme con la pittura fussero naturalmente dai popoli dello Egitto primierainente tróvate; e che alcun'altri non siano, che attribuiscono a'Caldei le prime bozze dei inarmi ed i primi rilievi delle statue ; come danno anco a' Greci la invenzione del pennello e del coloriré. Ma io dirò bene, che delbuna e deiraltra arte il disegno, che è il fondamento di quelle, anzi Tisfcessa anima che con- cepe e nutrisce in se medesima tutti i parti degli intel- letti, fusse perfettissimo in su T origine di tufcte l'altre cose, quando l'altissimo Dio, fatto il gran corpo del mondo ed ornato il cielo de'suoi chiarissimi lumi, discese con r intelletto più giù nella limpidezza delh aere e nella so- 216 PROEMIO DELLE VITE lidità delia terra, e formando l'uomo, scoperse con la vaga invenzione delle cose la prima forma della scultura e della pittura: dal quale nomo, a mano a mano poi (che non si dee dire il contrario), come da vero esem- piare, fur cavate le statue e le sculture, e la difficulté deirattitudini e dei contorni; e per le prime pitture,. qual che elle si fussero, la morhidezza, Tunione, e la discordante concordia che fanno i lumi con l'omhre. Cosí, dunque, il primo modello, onde usci la prima imagine deiruomo, fu una massa di terra: e non senza cagione, perciocche il divino architetto del tempo e della natura come perfettissimo, volle mostrare nella imperfezione della materia la via del levare e dell'aggiugnere; nel medesimo modo che sogliono fare i huoni scultori e pit- tori, i quali ne' lor modelli aggiungendo e levando, ri- ducono le imperfette hozze a quel fine e perfezione che vogliono. Diedegli colore vivacissimo di carne; doves'e tratto nelle pitture, poi, dalle minière della terra gli istessi colori, per contraffare tutte le cose che accaggiono nelle pitture. Bene è vero, che e'non si può affermare per certo quelle che ad imitazione di cosí bella opera si facessino gli uomini avanti al Diluvio, in queste arti; avvegnachè verisimilmente paia da credere che essi an- cora e scolpissero e dipignessero d'ogni maniera: poiche Belo, figliuolo del superbo Isíemhrot, circa dugento anni dopo il Diluvio, fece fare la statua, donde nacque poi la idolatria; e la famosissima nuera sua, Semiramis regina di Babilonia, nella edificazione di quella citté, pose tra gli ornamenti di quella non solamente variate e diverse spezie di animali, ritratti e coloriti di naturale, ma la imagine di se stessa e di Nino suo marito, e le statue ancora di bronze del suocero e della suocera e della an- tisuocera sua (come racconta Diodoro), chiamandole coi nomi de'Greci (che ancora non erano), Giove, Giunone ed Ope. Dalle quali statue appresero per avventura i PROEMIO DELLE VITE 217 Caldei a fare le imagini de' loro Dii : poichë centocin- quanta anni dopo Eachel, nel fuggire di Mesopotamia insieme con Jacob suo marito, furo gl'idoli di Laban suo padre; come apertamente racconta il Genesi. II. Në furono però soli i Caldei a fare sculture e pit- ture, ma le fecero ancora gli Egizj, esercitandosi in que- ste arti con tanto studio, quanto mostra il sepolcro ma- raviglioso dello antichissimo re Simandio, largamente descritto da Diodoro ; e quanto arguisce il severo coman- damento fatto da Mosë neU'uscire dell'Egitto; cioë, che sotto pena della morte non si facessero a Dio imagini alcune. Costui, nello scendere di sul monte, avendo tro- vato fabbricato il vitello d'oro e adorato solennemente dalle sue genti, turbatosi gravemente di vedere concessi i divini onori all'imagine d'una bestia, non solamente lo ruppe e ridusse in polvero, ma per punizione di co- tanto errore fece uccidere da' Leviti molte migliaia degli scellerati figliuoli d' Israel che avevano commessa quella idolatria. Ma perchë, non il lavorare le statue, ma l'ado- rarle era peccato scelleratissimo, si legge nell'Esodo, che r arte del disegno e delle statue, non solamente di marmo, ma di tutte le sorte di métallo, fu donata per bocea di Dio a Beseleel della tribii di Juda, e ad Oliab della tribii di Dan; che furono quei che fecero i due cheru- bini d'oro, i candelieri, e '1 velo, e le fimbrie delle vesti sacerdotali, e tante altre bellissime cose di getto nel tabernacolo, non per altro che per indurvi le genti a contemplarle ed adorarle. Dalle cose, dunque, vedute innanzi al Diluvio, la supèrbia degli uomini trovó il modo di fare le statue di coloro che al mondo volsero che re- stassero per fama immortali. Ed i Greci, che diversamente ragionano di questa origine, dicono che gli Etiopi tro- varono le prime statue (seconde Diodoro), e gli Egizj le presono da loro, e da questii Greci. Poichë, insino a'tempi d'Omero si vede essere stata perfetta la scultura e la 218 PROEMIO BELLE VITE pittura; come fa fede nel ragionar dello scudo d'Achille quel divino poeta, che, con tutta Tarte, piuttosto seul- pito e dipinto che scritto ce lo dimostra. Lattanzio Fir- miaño, favoleggiando, le concede a Prometeo: il quale, a similitudine del grande Dio, formó Timmagine umana di loto; e da lui Tarte delle statue afferma essere venuta. Ma, seconde che scrive Plinio, quest'arte venue in Egitto da Gfige Lidio; il quale, essendo al fuoco, e l'ombra di se medesimo riguardando, subito con un carbone in mano contornó se stesso nel muro; e da quella età, per un tempo, le sole linee si costumó mettere in opera senza corpi di colore, siccome afferma il medesimo Plinio: la quai cosa da Filocle Egizio, con più fatica, e símilmente da Oleante ed Ardice Corintio e da Delefane Sicionio fu ritrovata. III. Cleofante Corintio fu il primo appresso de' Dreci che colorí, ed Apollodoro il primo che ritrovasse il pen- nello. Segui Pohgnoto, Tasio, Zeusi e Timagora Calcidese, Pitio ed Alaufo, tutti celebratissimi; e dopo questi il famosissimo Apelle, da Alessandro Magno tanto per qúella virtù stimato ed onorato, ingegnosissimo investigatore délia calunnia e del favore; come ci dimostra Luciano, e come sempre fur quasi tutti i pittori e gli scultori ec- cellenti, dotati dal cielo il più delle volte non solo del- Tornamento délia poesia, come si legge di Pacuvio, ma délia filosofia ancora, come si vede in Metrodoro, perito tanto in filosofia, quanto in pittura, mandato dagli Ate- niesi a Paulo Emilio per ornare il trionfo, che ne rimase a leggere filosofia a' suoi figliuoli. Furono adunque gran- demente in Grecia esercitate le sculture, nelle quali si trovarono molti artefici eccellenti; e tra gli altri, Fidia ateniese, Prasitele e Policleto, grandissimi maestri; cosí Lisippo e Pirgotele in intaglio di cavo valsero assai, e Pigmalione in avorio di rilievo; di cui si favoleggia che coi pregi suoi impetró fiato e spirito alia figura deUa PROEMIO BELLE VITE 219 vergine ch'ei fece. La pittura similmente onorarono, e con premj, gii antichi Greci e Romani; poichè a coloro che la fecero maravigliosa apparire, lo dimostrarono col donare loro citth e dignità grandissime. Fiori talmente quest'arte in Roma, che Fabio diede nome al suo casato, sottoscrivendosi nelle cose da lui si vagamente dipinte nel tempio della Salute, e chiamandosi Fabio Pittore. Fu proibito per decreto pubblico, che le persone serve tal'arte non facessero per le città; e tanto onore fecero le genti del continuo all'arte ed agli artefici, che l'opere rare, nelle spoglie de'trionfi, come cose miracolose, a Roma si mandavano; e gli artefici egregi erano fatti di servi liberi, e riconosciuti con onorati premj dalle re- pubbliche. Gli stessi Romani tanta riverenza a tali arti portarono, che (oltre il rispetto che nel guastar la citta di Siracusa volle Marcello che s' avesse a un artefice fa- moso di queste, nel volere pigliare la citta predetta) eb- bero riguardo di non mettere il fuoco a quella parte, dove era una bellissima tavola dipinta; la quale fu dipoi portata a Roma nel trienio, con molta pompa. Dove in spazio di tempo, avendo quasi spogliato il mondo, ridus- sero gli artefici stessi e le egregie opere loro; delle quali Roma poi si fece si bella, perche le diedero grande or- namento le statue pellegrine, e più che le domestiche e particolari: sapendosi che in Rodi, citth d'isola non molto grande, furono più di tremila statue annoverate, fra di bronzo e di marmo; në manco ne ebbero gli Ateniesi, ma molto più quei d'Olimpia e di Delfo; senza alcun numero quei di Corinto, e furono tutte bellissime e di grandissimo prezzo. Non si sa egli, che Nicomede re di Licia, per l'ingordigia di una Venere che era di marmo, di Prasitele, vi consumó quasi tutte le ricchezze dei po- poli? Non fece il medesimo Attalo? che per aver lata- vola di Bacco dipinta da Aristide, non si curó di spen- dervi dentro più di seimila sesterzj. La qual tavola da 220 PROEMIO BELLE VITE Lucio Mummio fu posta, per órname pur Roma, nel templo di Cerere, con grandissima pompa. Ma, con tutto che la nobiltà di quest'arte fusse cosi in pregio, e'non si sa però ancora per certo chi le desse il primo princi- pió. Perché, come già si è disopra ragionato, ella si vede antichissima ne'Caldei, certi la danno alli Etiopi, ed i Greci a se medesimi l'attribuiscono. rV. E puossi non senza ragione pensare ch'ella sia forse piti antica appresso a'Toscani, come testifica il no- stro Leon Batista Alberti : e ne rende assai buena chia- rezza la maravigliosa sepoltura di Porsena a Chiusi, dove non ë molto tempo che si ë tróvate sotto terra, fra le mura del Laberinto, alcune tegole di terra cotta, den- trovi figure di mezzo rilievo tanto eccellenti e di si bella maniera, che fácilmente si può conoscere l'arte non es- ser cominciata appunto in quel tempo; anzi, per la per- fezione di que'lavori, esser molto più vicina al colmo che al principio. Come ancora ne può far medesimamente fede il veder tutto il giorno molti pezzi di que'vasi rossi e neri aretini, fatti, come si giudica per la maniera, interno a quei tempi, con leggiadrissimi intagli e figurine ed istorie di basso rilievo, e molte mascherine tonde sot- tilmente lavorate da'maestri di quell'età, come per I'ef- fetto si mostra, pratichissimi e valentissimi in tale arte. Vedesi ancora, per le statue tróvate a Viterbo nel prin- cipio del pontificate d'Alessandro VI, la scultura essere stata in pregio e non piccola perfezione in Toscana; e, come e'non si sappia appunto il tempo che elle furon fatte, pure e dalla maniera delle figure, e dal modo delle sepolture e delle fabbriche, non meno che dalle iscrizioni di quelle lettere toscane, si può verisimilmente coniet- turare che elle sono antichissime, e fatte nei tempi che le cose di qua erano in bueno e grande stato. Ma che maggior chiarezza si può di ció avere ? essendosi ai tempi nostri, cioë l'anno 1554, trovata una figura di bronzo PROEMIO DEL·LE VITE 221 fatta per la Chimera di Bellerofonte, nel far fossi, for- tificazione e muraglia d'Arezzo:^ nella quale figura si eonosce la perfezione di quelfiarte essere stata antica- mente appresso i Toscani, come si vede alla maniera etru- sca, ma molto più nelle lettere intagliate in una zampa: che, per essere poche, si coniettura, non si intendendo oggi da nessuno la lingua etrusca, che elle possino cosí significare il nome del maestro, come d'essa figura, e forse ancora gli anni secondo l'uso di que'tempi: la quale figura e oggi, per la sua hellezza ed antichith, stata po- sta dal signer duca Cosimo nella sala delle stanze nuove del suo palazzo, dove sono stati da me dipinti i fatti di papa Leone X. Ed oltre a questa, nel medesimo luogo furono ritrovate molte figurine di bronze della medesima maniera; le quali sono appresso il dette signer Duca. Ma, perché le antichità delle cose de' Greci e degli Etiopi e de'Caldei sono parimente dubbie come le nostre, e forse più; e, per il più, bisogna fondare il giudizio di tali cose in su le conietture, che ancor non sieno talmente deboli che in tutto si scostino dal segno; io credo non mi es- ser punto partite dal vero: e penso che ognuno che que- sta parte vorrà discretamente considerare, giudicherk, come io, quando di sopra io dissi, il principio di queste arti essere stata l'istessa natura, e l'innanzi o modefio la bellissima fabbrica del mondo, ed il maestro quel di- vino lume infuso per grazia singolare in noi, il quale non solo ci ha fatti superióri agli altri animali, ma si- mili, se e lecito dire, a Dio. E se ne'tempi nostri si è veduto, come io credo per molti esempj poco innanzi poter mostrare, che i semplici fanciulli e rozzamente al- ' .Questa Chimera, della quale il Vasari parla ancora nel Ragionamento terzo della Giornata seconda, dal gabinetto dei bronzi antichi della Gallería degli UíSzj fu a' giorni nostri traspórtate nel Museo Nazienale. Fu data incisa e descritta dal Dempstero nella Etruria Regale, nel Museo Etrusco del Gori, nei Monumenti Etruschi del cav. Francesco Inghirami, e nei Monumenti del Winkelmann. 222 PROEMIO DELLE VITE levati ne'bosclii, in sniresempio solo di qneste belle pit- ture e sculture della natura, con la vivacitèi del loro ingegno da per se stessi hanno cominciato a disegnare; quanto più si può e debbe verisimilmente pensare, quei primi uomini, i quali quanto manco erano lontani dal suo principio e divina generazione, tanto erano più per- fetti e di migliore ingegno, essi da per loro, avendo per guida la natura, per maestro Tintelletto purgatissimo, per esempio si vago modello del mondo, aver dato ori- gine a queste nobilissime arti, e da picciol principio, a poco a poco migliorandole, condottele finalmente a per- fezione? Non voglio già negare che e'non sia stato un primo che cominciasse; che io so molto bene che e'bi- sognò che qualche volta e da qualcuno venisse il prin- cipio; në anche negherò essere stato possibile che Tuno aiutasse Taltro, ed insegnasse ed aprisse la via al dise- gno, al colore e rilievo; perche io so che l'arte nostra ë tutta imitazione della natura principalmente, e poi, perchë da së non può salir tanto alto, delle cose^ che da quelli che miglior maestri di së giudica sono condotte: ma dico bene, che il volere determinatamente affermare chi cestui o costero fussero, ë cosa molto pericolosa a giudicare, e forse poco necessària a sapere; poichë veg- giamo la vera radice ed origine donde ella nasce. Per- chë, poichë delle opere che sono la vita e la fama degli artefici, le prime, e di mano in mano le seconde e le terze, per il tempo che consuma ogni cosa venner manco ; e non essendo allora chi scrivesse, non potettono essere almanco per quella via conosciute da'posteri; vennero ancora a essere incogniti gli artefici di quelle. Ma da che gli scrittori cominciarono a far memoria delle cose state innanzi a loro, non potettono gih parlare di quelli. ' In alcune edizioni si legge « tanto alto ad arrivare le cose » ; il che, se non più elegante, è cortamente più chiaro. Forse mutando in alie il delle del testo, il costrutto ne acquistcrebbe maggior chiarezza. PROEMIO BELLE VITE 223 de'quali non avevano potuto aver notizia: in modo che primi appo loro vengono a esser quelli, de' quali era stata ultima a perdersi la memoria. Siccome il primo dei poeti per consenso comune si dice esser Omero, non perché innUnzi a lui non ne fusse qualcuno (chè ne furono, seb- bene non tanto eccellenti, e nelle cose sue istesse si vede chiaro), ma perche di quei primi, tali quali essi furono, era persa già due mila anni fá ogni cognizione. Però la- sciando questa parte indietro, troppo per l'antichità sua incerta, venghiamo aile cose più chiare, délia loro per- fezione e rovina e restaurazione, e per dir meglio, rina- scita ; delle quali con molti migliori fondamenti potremo ragionare. V. Dico adunque,^ essendo però vero che elle comin- ciassero in Roma tardise le prime figure furono, come ' Il sunto che segue sulla storia dell' architettura del medio evo onora gran- demente lo spirito indagatore del Vasar!, ma non ci dà un buon concetto del suo modo di vedere e del suo storico giudizio. Affidato ad alcune acute osser- vazioni, egli fu condotto ad ammettere, sino all'anno 1100 circa, un progressive barbarisme nell'architettura dell'impero cadente, e poscia una passeggiera in- fluenza bizantina, ed una più durevole dei modelli germanici. Sennonchè, nello svolgere l'argumente, egli s'intricô in dati storici indeterminat! o del tutto falsi; i quali, in sostanza, è a credere non fesser raccolti da lui stesso, ma piuttosto comunicatigli da erudit! privi di critica, la cooperazione dei quali non si può mettere in dubbio. Egli diede soverchia estensione alia influenza bizantina: ora chiamô, e con ragione, tedesca la maniera architettonica che dal 1200 gl'Italian! tolsero ad imitare dai Germani: poi novamente la chiama un altra maniera go- tica, riconoscendo evidentemente il tipo romano dei genuini monument! degli Ostrogot!. Siccome il Vasar! è assolutamente il creatore del moderno linguaggio dell'arte, cosi a quella confusione delle sue idee general! sulla storia dell'archi- tettura dobbiamo attribuire le denominazioni, certo non istoriche, di architettura gótica e bizantina, applicate a due distinte e posteriori maniere dell'architettura deirEuropa occidentale, le quali non hanno punto che fare coi Goti, e pochis- simo ancora coi Greci modern!, ( Rumohr , nella edizione del Vasari tradotto in tedesco da L. Schorn e E. Forster; Stocoarda e Tobinga, 1832-1845, in-8, tom. 1). ^ Non propriamente verso i tempi d'Auguste, come taluno dice, e potrebbe credersi fácilmente leggendo alcuni passi, già spesso citat!, di Virgilio, di Gio- venale, ecc. ecc. ; non però innanzi a Mummio espugnator di Corinto, come s'in- tende dai lepidi aneddoti che di lui narra Patercolo; di che veggasi il D'Agin- court ed altri. Se furono in Roma figure piü o meno antiche ( e l'Adriani nella sua Lettera ne annovera diverse) e non di mano straniera, vi furono, se cosi possiamo esprimerci, senza saputa dell'arte. 224 PROEMIO DELLE VITE si dice, il simulacro di Cerere fatto di métallo de^beni di Spurio Cassio, il quale, perche macchinava di farsi re, fu morto dal proprio padre senza rispetto alcuno; che, sebhene continuarono Tarti della scultura e della pit- tura insino alia consumazione de'dodici Cesari, non però continuarono in quella perfezione e bonta che avevano avuto innanzi: perché si vede negli edifizj che fecero, succedendo T uno alP altro, gli imperatori, che, ogni giorno queste arti declinando, venivano a poco a poco perdendo Tintera perfezione del disegno. E di ció possono rendere chiara testimonianza T opere di scultura e d'architettura che furono fatte al tempo di Costantino in Eoma, e par- ticularmente T arco trionfale fattogli dal popolo romano al Colosseo; dove si vede che, per mancamente dimae- stri buoni, non solo si servirono delle storie di marmo fatte al tempo di Traiano, ma delle spoglie ancora con- dette di diversi luoghi a Roma. E chi conosce che i vuoti che sono neHondi, cioe le sculture di mezzo rilievo, e parimente i prigioni e le storie grandi e le colonne e le cornici ed altri ornamenti fatti prima e di spoglie, sono eccellentemente lavorati; conosce ancora, che Topere, le quali furon fatte per ripieno dagli scultori di quel tempo, sono goffissime : come sono alcune storiette di figure pic- cole di marmo sotto i tondi, ed il basamento da pié, dove sono alcune vittorie, e fra gli archi dalle bande certi fiumi che sono molto goffi e si fatti, che si puó ere- dere fermamente che insino allora Tarte della scultura aveva cominciato a perdere del bueno; e nondimeno non erano ancora venuti i Uoti e T altre nazioni barbare e straniere, che distrussero insieme con T Italia tutte Tarti migliori. Ben é vero che nei detti tempi aveva minor danno ricevuto T architettura che T altre arti del dise- gno fatto non avevano; perché nel bagno che fece esso Costantino fabbricare a Laterano nelTentrata del por- tico principale, si vede, oltre alie colonne di pérfido, i PROEMIO BELLE VITE 225 «apitelli lavorati di marmo, e le base dopple, tolte d'al- trove, benissimo intagliate, che tutto il composto delia fabbrica ë benissimo inteso : dove, per contrario, lo stucco, il musaico ed alcune incrostature delle facce, fatte dai maestri di quel tempo, non sono a quelle simili che fece pprre nel medesimo bagno levate per la maggior parte dai tempj degli Dii de' gentili. Il medesimo, secondo che si dice, fece Costantino del giardino d'Equizio, nel fare il tempio che egli doto poi e diede a' sacerdoti cristiani. Símilmente, il magnifico tempio di San Giovanni Late- rano, fatto fare dallo stesso imperadore, può fare fede del medesimo; cioë che al tempo suo era di già molto declinata la scultura: perche l'imagine del Salvatore e i dodici Apostoli d'argento, che egli fece fare, furono «culture molto basse, e fatte senza arte e con pochissimo disegno. Oltre ció, chi considera con diligenza le meda- glie di esso Costantino, e l'imagine sua, ed altre statue fatte dagli scultori di quel tempo, che oggi sono in Cam- pidoglio; vede chiaramente ch'elle sono molto lontane dalla perfezione delle medaglie e delle statue dagli altri imperatori; le quali tutte cose mostrano che molto in- nanzi la venuta in Italia de' Goti era molto declinata la scultura. VI. L'architettura, come si ë dette, si ando mante- nendo, se non cosi perfetta, in miglior modo: në di ció ë da maravigliarsi, perchë, facendosi gli edifizj grandi quasi tutti di spoglie, era facile agli architetti nel fare i nuovi imitare in gran parte i vecchi, che sempre ave- vano dinanzi agli occhi; e ció molto piti agevolmente che non potevano gli scultori, essendo mancata l'arte, imitare le buone figure degli antichi. E che ció sia vero, ë manifesto che il tempio del principe degli Apostoli in Vaticano non era ñeco se non di colonne, di base, di ■capitelli, d'architravi, cornici, porte ed altre incrosta- ture ed ornamenti, che tutti furono tolti di diversi luo- Vasari 15 , Opere, — Vol. I. 226 PROEMIO DELLE VITE ghi, e dagli edifizj stati fatti innanzi molto magnifica- mente. II medesimo si potrebbe dire di Santa Crece in Gerusalemme, la quale fece fare Costantino a' pregbi della madre Elena; di San Lorenzo fuor delle mura; e di Sant'Agnese, fatta dal medesimo a richiesta di Co- stanza sua figliuola.^ E cM non sa che il fonte, il quale servi per lo battesimo di costei e d'una sua sorella, fu tutto adórnate di cose fatte molto prima? e particolar- mente di quel pilo di pérfido intagliato di figure bellis- sime, e d'alcuni candelieri di marmo eccellentemente intagliati di fogliami, e d'alcuni putti di basso rilievo che seno veramente bellissimi? Insomma, per questa o molte altre eagioni, si vede quanto già fusse al tempo di Costantino venuta al basso la scultura, e con essa in- sieme l'altre arti migliori. E se alcuna cosa mancava air ultima rovina loro, venue loro data compiutamente dal partirsi Costantino di Koma per andaré a porre la sede deir imperio in Bisanzio; perciocche egli condusse in Grecia non solamente tutti i migliori scultori ed altri artefici di quella età, comunque fussero, ma ancora una infinità di statue e d'altre cose di scultura bellissime. VII. Dopo la partita di Costantino, i Cesari che egli lasciò in Italia, edificando continuamente ed in Roma ed altrove, si sforzarono di fare le cose loro quanto po- tettero migliori: ma, come si vede, ando sempre cosi la scultura come la pittura e l'architettura di male in peg- gio. E ció forse avvenne, perché quando le cose umane cominciano a declinare non restaño mai d'andaré sem- pre perdendo, se non quando non possono più oltre peg- giorare. Parimente si vede, che sebbene s'ingegnarono- al tempo di Liberio papa gli architetti di quel tempo di far gran cose nell' edificare la chiesa di Santa Maria Mag- giore, che non però riusci loro il tutto felicemente; per- ' Tradizione confutata da un pezzo nel terzo volume della Roma sotterranea,. o delle Pitture, Sculture eco. tratte dai Cimiterj. PEOEMIO DELLE VITE 227 ciocchè, sebbene quella fabbrica, che è similmente per la maggior parte di spoglie, fu fatta con assai ragione- voli misure, non si può negare nondimeno (oltre a qual- che altra cosa) che il partimento fatto intorno intorno sopra le colonne con ornamenti di stucchi e di pitture, non sia povero afifatto di disegno, e che molte altre cose che in quel gran templo si veggiono, non argomentino rimperfezione dell'arti. Molti anni dopo, quando i Cri- stiani sotto Griuliano Apostata erano perseguitati, fu edifi- cato in sul monte Celio un templo a' santi Giovanni e Paulo martiri, di tanto peggior maniera che i soprad- detti, che si conosce chiaramente che Parte era a quel tempo poco meno che perduta del tutto. Gli edifizj an- cora, che in quel medesimo tempo si fecero in Toscana, fauno di ció pienissima fede. E per tacere molti altri, il templo che fuor delle mura d'Arezzo fu edifícate a San Do- nato vescovo di quella citta, il quale insieme con Ilariano moñaco fu martirizzato sotto il dette Giuliano Apostata, non fu di punto migliore architettura che i sopraddetti/ Ne è da credere che ció procedesse da altro, che dal non essere migliori architetti in quelPeth: conciofusseche il dette templo, come si è potuto vedere a'tempi nostri, a otto facce, fabbricato delle spoglie del teatro, colosseo ed altri edifízj che erano stati in Arezzo innanzi che fusse ' ■ Il templo di San Donato, detto anche Duomo vecchio, anzichè a' giorni di Giuliano, cioè nel quarto secolo, fu edificato nell'undécimo; di che veggasi la Storia di Glabro Rodolfo nel quarto volume delle Antichità Italiche del Mura- tori, la Relazione sullo stato antico e moderno d'Arezzo, del Rondinelli, ecc. II Garniel { Swpjplementi alia Serie de'Duchi e Marchesi della Toscana del Delia Rena) riporta uno strumento tratto dairArchivio Capitolare d'Arezzo, del- l'anno 1026, col quale Tedaldo vescovo di quella cittá assegna alcuni pezzi di terra all'architetto Mainardo in ricompensa della costruzione da lui fatta della cattedrale, pigliando per modello la chiesa di San Vitale di Ravenna, e della restaurazione del palazzo episcopale d'Arezzo. Fu distrutto d'ordine di Cosimo I, con altri tempj minori, nel 1561, per far luogo alie fortificazioni della cittá. Nella sagrestia del Duomo nuovo, nella provveditoria della Misericordia della cittá medesima ecc., se ne vedava a'di del Bottari, e forse [^ancor se ne vede dipinto in tela il prospetto. 228 PROEMIO DELLE VITE convertita alia fede di Cristo, fu fatto senza alcun rispar- mió e con grandissima spesa, e di colonne di granito, di pórfido e di mischi, che erano stati delle dette fabbriche antiche, adórnate. Ed io, per me, non dubito, alia spesa che si vedeva fetta in quel templo, che, se gli Aretini avessono avuti migliori architetti, non avessono fatto qualche cosa maravigliosa ; poichë si vede in quel che fecero, che a niuna cosa perdonarono per fare quell'opera, quanto potettono maggiormente ricca e fatta con buen ordine. E perché, come si è già tante volte dette, meno aveva delia sua perfezione l'architettura che l'altre arti perduto, vi si vedeva qualche cosa di bueno. Fu in quel tempo símilmente aggrandita la chiesa di Santa Maria in Grade a onore del dette Ilariano ^ ; perciocchë in quella aveva luugo tempo abitato, quando ando con Donate alia palma del martirio. VIII. Ma perché la fortuna, quando ella ha condotto altri al somme delia mota, o per ischerzo o per penti- mente il più delle volte lo torna in fondo ; avvenne dopo queste cose, che sollevatesi in diversi luoghi del mondo quasi tutte le nazioni barbare contra i Eomani, ne segui, fra non molto tempo, non solamente lo abbassamento di cesi grande imperio, ma la rovina del tutto, e mas- simamente di Roma stessa ; con la quale rovinarono del tutto parimente gli eccellentissimi artefici, scultori, pit- tori ed architetti, lasciando l'arti e loro medesimi sot- terrate e spmmerse fra le miserabili stragi e revine di quella famosissima città. E prima andarono in mala parte la pittura e la scultura, come arti che più per diletto che per altre servivano; e l'altra, cioé l'architettura, come necessària ed utile alla salute del corpo, ando con- '■ Delia maggiore o minore antichità di questa chiesa non resta o non si co- nosce alcun certo documento. E come sulla fine del secolo decimosesto fu rin- novata del tutto con disegno deU'Ammannato, non si puó neppur trame indizio dalla sua struttura. Lo poté, per vero dire, il Vasari; ma a farlo con più sicu- rezza, gli bisognava forse giudizio più severo ed occhio più esercitato. PROEMIO DELLE VITE 229 tinuando, ma non gik nella sua perfezione e bontk. E se non fusse stato che le scultnre e le pitture rappre- sentavano innanzi agli occhi di chi nasceva di mano in mano coloro che n' erano stati onorati per dar loro per- petua vita, se ne sarebbe testo spenta la memoria del- Tune e delf altre. Laddóve alcune ne conservarono per l'imagine e per l'iscrizioni poste nell'architetture pri- vate e nelle pubbliche; cioe negli anfiteatri, ne'teatri, nelle terme, negli acquedotti, ne'tempj, negli obelischi, ne'colossi, nelle piramidi, negli archi, nelle conserve e negli erarj, e finalmente nelle sepolture medesime: delle quali furono distrutte una gran parte da gente barbara ed eíferata, che altro non avevano d'uomo che l'effigie e '1 nome. Questi fra gli altri ftirono i Visigoti, i quali, avendo create Alarico loro re,^ assalirono 1'Italia e Roma, e la saccheggiarono due volte, e senza rispetto di cosa alcuna. II medesimo fecero i Yandali, venuti d'Africa con Genserico loro re;^ il quale, non contento alla roba e prede e crudelta che vi fece, ne menò in servitù le per- sene, con loro grandissima miseria; e con esse, Eudossia, moglie stata di Valentiniano imperatore, stato ammaz- zato poco avanti dai suoi soldati medesimi, i quali de- generati in grandissima parte dal valore antico romano, per esserne andati gran tempo innanzi tutti i migliori in Bisanzio con Costantino imperatore, non avevano pin costumi ne modi buoni nel vivere. Anzi, avendo perduto in un tempo medesimo i veri uomini ed ogni sorte di virtù, e mutato leggi, abito, nomi e lingue; tutte queste ' Nel 409 ovvero 410 dell'era volgare. (Vedi Müratori, Annali d'Italia, ad ann. ). ^ Genserico, re dei Vandali, entró in Roma nel 455; e per le preghiere del pontefice San Leone si rattenne dall'incendiare la cittá. Spoglió il palazzo im- periale di quan to vi era, non omessi gli utensili di rame; tolse al templo Ca- pitolino la metà delle lamine di bronzo indorato che lo coprivano; carleó una nave di statue, forse di bronzo, per mandarle a Cartagine, che poi peri nel mare ; e portó via, fra le altre cose preziose, i vasi d' oro tolti da Tito al templo di Gerusalemme, come riferisce Cedreno, Comp. Hist., tom. I, pag. 346. 230 PROEMIO DELLE VITE cose insieme, e ciascuna per se, avevano ogni bell'animo ed alto ingegno, fatto bruttissimo e bassissimo diventare. IX. Ma quelle che sopra tntte le cose dette fu di perdita e danno infinitamente alie predette professioni, fu il fervente zelo delia nueva religione cristiana; la quale dopo lunge e sanguinoso combattimento, avendo final- mente con la copia de'miracoli e con la sincerità delle operazioni abbattuta e annullata la vecchia fede de' gen- tili; mentrechë ardentissimamente attendeva con ogni diligenza a levar via ed a stirpare in tutto ogni minima occasione, donde poteva nascere errore; non guastò sola- mente o gettò per terra tutte le statue maravigilóse, e le sculture, pitture, musaici ed ornamenti de'fallad Dii de'gentili; ma le memorie ancora e gli onori d'infinite persone egregie, allé quali per gli eccellenti meriti lore dalla virtuosissima antichitk erano state poste in pub- blico le statue e l'altre memorie. Inoltre, per edificare le chiese all'usanza cristiana, non solamente distrusse i piíi onorati tempj degl'idoli; ma, per fare diventare più nobile e per adornare San Pietro,^ oltre gli ornamenti che da principio avuto avea, spogliò di colonne di pietra la mole d'Adriano, oggi detto Castelló Sant'Agnolo, e molte altre, le quali veggiamo oggi guaste. Ed avve- guache la religione cristiana non facesse questo per odio che ella avesse per le virtù, ma solo per contumelia ed abbattimento degli Dii de'gentili; non fu però che da questo ardentissimo zelo non seguisse tanta rovina a que- ste onorate professioni, che non se ne perdesse in tutto la forma. E, se niente mancava a questo grave infortu- nio, sopravvenne l'ira di Totila contro a Roma; che, oltre a sfasciarla di mura, e rovinar col ferro e col fuoco tutti i più mirabili e degni edificj di quella, universal- mente la brució tutta; e spogliatola di tutti i viventi ' Correggi « San Paolo » PROEMIO DELLE VITE 231 €orpi, la lasciò in preda alie fiamme ed al fnoco; e, senza che in diciotto giorni continui si ritroyasse in qnella vi- vente alcuno, abbattè e distrusse talmente le statne, le pittnre, i musaici e gli stucchi maravigliosi, che se ne perde, non dice la maestà sola, ma la forma e l'essere stesso. Per il che, essendo le stanze terrene, prima, de'pa- lazzi 0 altri edificj, di stucchi, di pitture e di statue lavo- rate, con le rovine di sopra afiPogarono tutto- il buono, che a'giorni nostri s'ë ritrovato. E coloro che successer poi, giudicando il tutto rovinato, vi piantarono sopra le vigne : di maniera che, per essere le dette stanze terrene rimaste «otto terra, le hanno i moderni nominate grotte, e grot- tesche le pitture che vi si veggono al presente. X. Finiti gli Ostrogoti, che da Narsete furono spenti, abitandosi per le rovine di Eoma in qualche maniera pur malamente, venne dopo cento anni Costante II impera- dore di Costantinopoli ; e ricevuto amorevolmente dai Romani, guastò, spogliò e portossi via tutto ció che nella misera città di Roma era rimase, più per sorte, che per libera volonth di coloro che Tavevano rovinata. Ben ë vero che e'nonpotette godersi di quella preda; perchë, •dalla tempesta del mare traspórtate nella Sicilia, giu- stamente ucciso dai suoi, lasciò le spoglie, il regno e la vita, tutto in preda delia fortuna. La quale non contenta ancora de'danni di Roma, perchë le cose tolte non po- tessino tornarvi giammai, vi condusse un'armata di Sa- racini a'danni deir isola; i quali e le robe de'Siciliani e le stesse spoglie di Roma se ne portarono in Alessandria, con grandissima vergogna e danno delf Italia e del cri- stianesimo : e cosi tutto quelle che non avevano guasto i pontefici, e San Gregorio massimamente* (il quale si dice ' Il pontefice San Gregorio Magno è stato egregiamente difeso da tale una accusa con una dottissima dissertazione di Carlo Fea, intitolata Belle vine ro- di Roma, inserita nel vol. XI delle opere del Winkelmann, .zione di pag. 321, edi- Prato, 1833. 232 PEOEMIO DELLE VITE che messe in bando tutto il restante d elle statue e delle spoglie degli edifizj), per le mani di questo scelleratis- simo greco finalmente capitò male. Di maniera che, non trovandosi piii në vestigio në indizio di cosa alcuna che avesse del buono, gli uomini che vennero appresso, ri- trovandosi rozzi e materiali, e particolarmente nelle pit- ture e nelle sculture, incitati dalla natura e assottigliati dall'aria, si diedero a fare non secondo le rególe deU'arti predette (che non l'avevano), ma secondo la qualita. degringegni loro. XI. Essendo, dunque, a questo termine condotte 1' artí del disegno, e innanzi e in quel tempo che signoreggia- roño r Italia i Longobardi, e poi; andarono dopo agevol- mente, sebbene alcune cose si facevano, in modo peg- giorando, che non si sarebbe potuto në più goffamente në con manco disegno lavorar di quello che si faceva r come ne dimostrano, oltr'a molte altre cose, alcune figure che sono nel portico di San Pietro in Eoma so- pra le porte, fatte alia maniera greca, per memoria di alcuni Santi Padri che per la Santa Chiesa avevano in alcuni concilj dispútate. Ne fauno fede similmente molte cose deiristessa maniera, che nella città ed in tutto Tesar- cato di Ravenna si veggiono; e particolarmente alcune- che sono in Santa Maria Ritonda fuer di quella citta,, fatte poco dopo che d' Italia furono cacciati i Longobardi nella qual chiesa non tacerò che una cosa si vede nota- bilissima e maravigliosa, e questa ë la volta ovvero cu- pola che la cuopre; la quale, come che sia larga dieci braccia, e serva per tetto e coperta di quella fabbrica,. ë nondimeno tutta d'un pezzo solo, e tanto grande e sconcio, che pare quasi impossibile che un sasso di quella sorte, di peso di più di dugento mila libbre, fosse tanto in alto collocato.^ Ma, per tornare al proposito nostro,, ' Conosciuta volgarmente colnome di tomba di Teodorico ( Schorn, Intorno- ai viaggi in Italia di Thiersch, vol. I, pag. 594). Che Teodorico si edificasse- PROEMIO DELLE VITE 233 uscirono dalle mani de' maestri di que' tempi quei fantocci 8 quelle goífezze che nelle cose vecchie ancora oggi appa- riscono. H medesimo avvenne dell'architettura; perché bisognando pur fabbricare, ed essendo smarrita in tutto la forma e il modo buono, per gli artefici morti e per l'opere distratte e guaste; coloro che si diedero a tale esercizio, non edificavano cosa che per ordine o per mi- sura avesse grazia nè disegno në ragion alcuna. Onde ne vennero a risorgere nuovi architetti, che delle loro bar- bare nazioni fecero il modo di quella maniera di edifizj ch'oggi da noi son chiamati tedeschi/i quali facevano alcune cose piuttosto a noi moderni ridicole, che à loro lodevoli; finché la miglior forma e alquanto alia buona antica simile trovarono poi i migliori artefici, come si veggono di quella maniera per tutta Italia le piü vecchie chiese, e non antiche, che da essi furono edificate: come da Teodorico re d'Italia un palazzo in Eavenna, uno in Pavia ed un altro in Modena, pur di maniera barbara, e piuttosto ricchi e grandi, che bene intesi o di buona architettura. II medesimo si può affermare di Santo Ste- fano in Rimini, di San Martino di Ravenna, e del tem- pió di San Giovanni Evangelista edificato nella medesima citth da Galla Placidia interno agli anni di nostra sa- lute 438, di San Vitale che fu edificato l'anno 547, e della Badia di Classi di fuori, ed insomma di molti al- tri monasteri e tempj edificati dopo i Longohardi. I quali tutti edifizj, come si é dette, sono grandi e magnifie!, da se stesso questo monumento, lo mostra 1'anónimo Valesio, autore contem- poraneo (chiamato cosi perché aggiunto dal Valesio alia sua edizione dell'Am- miaño Marcellino), a pag. 671 m fine, colle parole: se autem vivo fecit sibi fnonumentum ex lapide quadrato, mirae magnitudinis opvis, et saxum ingen- lem, quem (sic) superponeret, inquisivit. (L. Sohorn , note al Vasari tradotto in tedesco). ' Non vi sarà bisogno di maggiore spiegazione per provare che qui il Va- sari è in errore, o che almeno parla in modo troppo indeciso, se, come pare, estende al generale il nome di Architettura teutónica, col quale dal sec. xiii al xv chiamavansi gli archi acuti in edifizj di secoli antecedenti. (L. Schorn , op. cit.). 234 PROEMIO DELLE VITE ma di goffissima architettura : e fra questi sono moite badie in Francia edifícate a San Benedetto, e la chiesa e monastero di Monte Casino, il templo di San Giovanni Battista a Monza, fatto da qnella Teodelinda reina dei Goti, alia quale San Gregorio papa scrisse i suoi Dialo- ghi, Nel qual luogo essa reina fece dipignere la storia de'Longobardi; dove si vedeva che eglino dalla parte di dietro erano rasi, e dinanzi avevano le zazzere, e si ti- gnevano fíno al mento; le vestimenta erano di tela larga, come usarono gli Angli ed i Sassoni, e sotto un manto di diversi. colorí, e le scarpe fíno alie dita de'piedi aporte, e sopra legate con certi correggiuoli. Simili a'sopraddetti tempj furono la chiesa di San Giovanni in Pavia, edifí- cata da Gundiperga, fígliuola della sopraddetta Teode- linda; e nella medesima citta la chiesa di San Salvadore, fatta da Ariperto fratello della detta reina, il quale suc- cesse nel regno a Rodoaldo marito di Gundiperga; la chiesa di Sant'Amhrogio di Pavia, edifícata da Grimoaldo re de'Longobardi, che cacciò dal regno Perterit, fígliuolo di Eiperto.' II quale Perterit, restituito nel regno dopo la morte di Grimoaldo, edifícò pur in Pavia un mona- sterio di donne, detto il Monasterio Nuovo, in onore di Nostra Donna e di Sant'Agata, e la reina ne edifícò uno fuora delle mura, dedicato alia Yergine María in Per- tica. Conipert, símilmente fígliuolo d'esso Perterit, edi- fícó un monasterio e templo a San Giorgio detto di Co- ' Il Vasari, come a'tempi nostri il D'Agincourt, cerca i monumenti della dominazione longobarda nel paese che chiamasi anche oggi Lombardia ; mentre le chiese che i re longobardi hanno fatto fabbricare, soprattutto in Pavia, sono state interamente rammodernate nel secolo xii e nei seguenti. La chiesa di San Michele a Pavia, il cui ingrandimento è provato da un'iscrizione sopra r altar maggiore, possiede ancora alcuni filari di pietre fondamentali. Questi sono di grandi massi assai ben collegati, simili a quelli molto meglio consei'vati, e veri monumenti longobardi, nel ducato di Spoleto. La eostruzione romana, la técnica, la spartizione mantenevansi in molti luoghi oltre il secolo viii. II divul- gato errore che siasi fabbricato, durante il dominio longobardo dal vi all'viii secolo, nel modo che non venne in voga se non nel secolo xii, deriva da uno scambio assai ridicolo della parola lombardo e longobardo. (Rumohr). PROEMIO PELLE VITE 235 róñate, nel luego dove aveva avuto una gran vittoria contra a Alalii, di simile maniera. Ne dissimile fu a questi il templo che '1 re de'Longobardi Luiprando, il quale fu al tempo del re Pipino padre di Cario Magno, edificó in Pavia, che si chiama San Piero in Cieldauro; në quelle símilmente che Desiderio, il quale regno dopo Astolfo, edifico, di San Piero Clivate, nella diòcesi milanese; nè '1 monasterio di San Vincenzo in Milano, në quello di Santa Giulia in Brescia : perchë tutti furono di grandissima spesa, ma di bruttissima e disordinata maniera. XII. In Fiorenza poi migliorando alquanto l'archi- tettura, la chiesa di Sant'Apostelo, che fu edificata da Cario Magno, fu ancorchë piccola, di bellissima maniera; perchë, oltre che i fusi delle colonne, sebbene sono di pezzi, hanno molta grazia e sono condotti con bella mi- sura, i capitelli ancora e gli archi girati per le voltlc- ciuole delle due piccole navate mostrano che in Toscana era rimase ovvero risorto qualche bueno artefice. In- somma, l'architettura di questa chiesa ë tale, che Pippo di ser Brunellesco non si sdegnò di servirsene per mo- dello nel fare la chiesa di Santo Spirito, e quella di San Lorenzo, nella medesima città. Il medesimo si può ve- dere nella chiesa di San Marco di Yinezia; la quale (per non dir nulla di San Giorgio Maggiore state edificato da Giovanni Morosini l'anno 978) fu cominciata sotto il doge Justiniano e Giovanni Particiaco appresso San Teodosio, quando d'Alessandria fu mandato a Vinezia il corpo di queir evangelista : perciocchë, dopo molti incendj che il palazzo del doge e la chiesa molto dannificarono, ella fu sopra i medesimi fondamenti finalmente rifatta alia ma- niera greca, ed in quel modo che ella oggi si vede, con grandissima spesa e col parere di molti architetti, al tempo di Domenico Selvo doge, negli anni di Cristo 973,^ ' Questo tempio, fatto a imitazione di quello di Santa Sofia di ch'è Costantinopoli, de'giorni di Giustiniano, cioè del vi secolo, fu cominciato nel 977 sotto il 236 PROEMIO DELLE VITE il quale fece condurre le colonne di que'luoglii, donde le potette avere. E cosi si ando continuando insino al- Tanno 1140, essendo doge messer Fiero Polani; e, come si ë detto, col disegno di più maestri, tutti greci. Delia medesima maniera greca furono, e nei medesimi tempi, le sette badie che il coiite Ugo márchese di Brandiburgo fece fare in Toscana ; come si può vedere nella Badia di Firenze, in quella di Settimo, e nell'altre/ Le quali tutte fabbriche, e le vestigia di quelle che non sono in piedi, rendono testimonianza che Tarchitettura si teneva al- quanto in piedi, ma imbastardita fortemente e molto diversa della buona maniera antica. Di ció posson anco far fede molti palazzi vecchi, stati fatti in Fiorenza dopo la rovina di Fiesole, d'opera toscana, ma con ordine bar- baro nelle misure di quelle porte e finestre lunghe lun- ghe, e ne'garbi di quarti acuti nel girare degli archi, seconde 1' uso degli architetti stranieri di que' tempi. L'anno poi 1018 si vede Tarte aver ripreso alquanto di vigore nel riedificarsi la bellissima chiesa di San Miniato in sul monte, al tempo di messer Alibrando cittadino e vescovo di Firenze; perciocchë, oltre agli ornamenti che di marmo vi si veggiono dentro e fuori, si vede nella facciata dinanzi, che gli architetti toscani si sforzarono d'imitare nelle porte, nelle finestre, nelle colonne, negli archi e nelle cornici, quanto potettono il più, Tordine buono antico, avendolo in parte riconosciuto nelTanti- doge Pietro Orseolo, che ne pose le fondamenta, e terminate non prima del 1071. Interno ad esse, e interno agli altri tempj, di oui parla il Vasari in questo Proa- mió, vedi la Storia del D'Agincourt, e anche quella del Cicognara. Vedi anche, per ció che riguarda particolarmente i tempj di Firenze, le ricerche di G. Del Rosso interno a quelle di San Giovanni, compito verosimilmente, se non eretto pur esse, nel vi secóle con avanzi di più antichi edifizj; come giá dimostró il Nelli nel tom. IV àfílVArcMtettura del Ruggieri, e come puó dimostrarsi del templo di San Miniato al Monte, riedificato dal vescovo Ildehrando nel 1013. ^ Quanto al conte Ugo, detto dal Vasari di Brandiburgo, e alie sette badie che si vogliono da lui fondate in Toscana, vedi tra le note alia Vita di Arnolfo, e in quelle di Niccola e Gio. Pisani. PROEMIO BELLE VITE 237 chissimo tempio di San Giovanni nella città loro. Nel me- desimo tempo la pittura, che era poco meno che spenta affatto, si vide andaré riacquistando qualche cosa; come ne mostra il musaico che fu fatto nella cappella mag- giore délia detta chiesa di San Miniato.* Xm. Da cotai principio, adunque, cominciò a crescere a poco a poco in Toscana il disegno ed il miglioramento di queste arti; come si vide, l'anno 1016, nel dare prin- cipio i Pisani alla fahbrica del Duomo loro ® ; perche in quel tempo fu gran cosa metter mano a un corpo di chiesa cosï fatto, di cinque navate, e quasi tutto di marmo dentro e fuori. Questo tempio, il quale fu fatto con or- dine e disegno di Buschetto, greco da Dulicchio, archi- tettore in quelfeth rarissimo,® fu edificato ed ornato dai Pisani d'infinite spoglie condotte per mare (essendo eglino nel colmo della grandezza loro) di diversi lontanissimi luoghi; come ben mostrano le colonne, base, capitelli, cornicioni, ed altre pietre d'ogni sorte che vi si veggiono. E perché tutte queste cose erano alcune piccole, alcune grandi ed altre mezzane, fu grande il giudizio e la virtù di Buschetto neiraccomodarle, e nel fare lo spartimento di tutta quella fabbrica, dentro e fuori molto bene ac- ' II musaico cli'è nell'abside o tribuna, rappresentante Cristo in mezzo a San Giovanni, San Matteo Evangelista e San Miniato re d'Armenia, non è del secolo XI, ma del 1297, come dice la iscrizione ch'è nel fregio ® sottoposto. La fabbrica del Duomo di Pisa fu cominciata non nel 1016, ma si bene nel 1063, come attesta la iscrizione eh'è nella facciata, riportata per intero anche dal Grassi, Descrizione ecc. di Pisa ecc. ® La tradizione che fa Buschetto di Dulichio, venue, dice il Cicognara, dal primo distico, semicorroso, d'una delle sue iscrizioni sepolci^ali, che dal cav. Del Borgo fu restituito cosi : Busketus jacet hic qui motibus ingeniorum Dulichio fertur prevaluisse Duci. In essa Buschetto è per l'ingegno paragonato ad Ulisse, al duce di Dulichio (isoletta vicino ad Itaca), come poi è a Dédalo pel roagistero. Non si badô al paragone, e si diede per patria a Buschetto medesimo quell'isoletta, che ben diíRcilmente, nell'undecimo secolo in ispecie, poteva esser patria di tale architetto. Nè egli, probabilmente, fu d'altra isola o terra greca; ma, come sembra in- 238 PROEMIO DELLE VITE comodata. Ed oltre all'altre cose, nella facciata dinanzi con gran numero di colonne accomodò il diminuiré del frontespizio molto ingegnosamente, quelle di varj e di- versi intagli d'altre colonne e di statue antiche ador- nando : siccome anco fece le porte principali della me- desima facciata; fra le quali, cioë alíate a quella del Carroccio, fu poi dato a esse Buschetto onorato sepolcro con tre epitaffi, de'quali è questo uno in versi latini, non punto dissimili dall'altre cose di que'tempi: Quod vix mille locum passent juga juncia morere, Et quo vix potuit per mare ferre ratis; Buschetti nisu, quad erat mirahile visu, Bena puellarum turba levavit onus. E perche si ë di sopra fatto menzione della chiesa di Sant'Apostelo di Firenze, non tacerò che in un marmo di essa, dall'uno de'lati dell'altare maggiore, si leggoiio queste parole : viii. v. die vi apeilis in resurrectione domini KAKOLüs Francormn rex a Roma revertens, ingressus Floren- tiam, cum magno gaudio et trijpudio susceptus, civium copiam torqueis aureis decoravit et in Pentecostem fundavit ecclesiam Sanctorom Apostolorum; in altari inclusa est lamina plum- dicare il suo nome, fu italiano. Parlasi di un documento originale del 1064 esi- stente nella Vaticana, e comprovante che Buschetto fu chiesto dai Pisani all'im- peratore di Gostantinopoll. II documento però debb' essere sognato, poichè nè al Marini, nè al Mai, nè ad altri è riescito di rinvenirlo. Non è impossibile, in- tanto, che l'artefice bencbè italiano, fosse agli stipend] di quell'imperadore, e che, ricbiesto, venisse a lavorare in Pisa; come Olinto italiano scultore, già agli stipend] di Gassiodoro, e da lui scacciato, venue a lavorare a Monte Gassino. E ben poté essere italiano Buschetto, se italiano fu pure quel Rinaldo che compi l'opera sua; e di cui fa meraviglia che il Vasari non dica parola, veggendosi di lui nella facciata deir opera stessa, in alto presso la porta, questa iscrizione: Hoc opus eximium, tarn mirum, tam pretiosum Rainaldus prudens operator et ipse Magister constituït mire, solerter et ingenióse etc. Dalla quale iscrizione parrebbe potersi inferiré, che tutta l'opera è dovuta a due Italiani, e forse Pisani; I'uno arcbitetto principalmente dell'interno, I'altro dell'esterno. PROEMIO BELLE VITE 23D l·ea, in qua descriqqta apparet prefata fundatio et consecratio facta per archiepiscopum turpinum, testibus rolando et üliyerio.^ XÍV. L'edifizio sopraddetto del Duomo di Pisa, sve- gliando per tutta Italia, ed in Toscana massimamente, ranime di molti a belle imprese, fu cagione che nella città di Pistoia si diede principio Tanno 1032 alia chiesa di San Paulo, presente il beato Atto vescovo di quella citth, come si legge in un contratto fatto in quel tempo; ' ed in somma a molti altri edifizj, de' quali troppo lungo sarebbe fare al presente menzione. Non tacerò già, con- tinuando Tandar de'tempi, che l'anno poi 1060 fu in Pisa edifícate il templo tonde di San Griovanni, dirim- petto al Duomo ed in su la medesima piazza. ® E quelle che è cosa maravigliosa e quasi del tutto incredibile, si trova per ricordo in uno antico libro dell' Opera del Duomo dette, che le colonne del dette San Giovanni, i pilastri e le volte furono rizzate e fatte in quindici giorni, e non più. E nel medesimo libre, il quale può chimique n'avesse voglia vedere, si legge che per fare quel templo fu posta una gravezza d'un danaio per fuoco; ma non vi si dice gih se d'oro o di piccioli. Ed in quel tempo erano in Pisa, come nel medesimo libro si vede, trenta- quattro mila fuochi. Encerto questa opera grandissima, di molta spesa e diffícile a condursi; e massimamente la volta delia tribuna, fatta a guisa di pera, e di sopra ' Con questa iscrizione pare che qualche letterato suo amico abbia preso a gabbo la ignoranza del Vasari, il quale crede bonamente che Turpino, Ro- lando e Oliviero sieno personaggi storici. Ció è di poco momento, ma pure ma- nifesta con quale credulità il Vasari si facesse dare ad intendere un'infinita di notizie di tempi piú remoti, prive affatto di fondamento; il che ci dà autoritá di stimarlo giudice ed osservatore poco critico di antichi documenti. ^ (Rumohr). Seconde gli scrittori della Vita di Sant'Atto, qui sarebbe un anacronismo di 104 anni; perché egli fu fatto vescovo nel 1133, e la compra del campo, in cui è fabbricata la presente chiesa, è del 1136. Questa compra fu fatta per in- grandire e dar nueva forma all'antica chiesa, che si crede eretta nel 748. ' II Battistero di San Giovanni non fu fondato nel 1060, ma nel è 1153, come scritto in un pilastre*a destra entrando; mcliii mense aug. fúndala hec Ecclesia; fuit e nell'altre di contre: Deotisalvi magister hujus operis. 240 PROEMIO DELLE VITE coperta di piombo. II di fiiori ë pieno di colonne, d'in- tagli 0 d' istorie ; e nel fregio dalla porta di mezzo ë nn Gesù Cristo con dodici Apostoli, di mezzo rilievo di ma- niera greca/ XV. I Lucchesi ne'medesimi tempi, cioë l'anno 1081, come concorrenti de'Pisani, principiarono la chiesa di San Martine in Lucca, col disegno (non essendo allora altri architetti in Toscana) di certi discepoli di Buschetto.'' Xella facciata dinanzi della qnal chiesa si vede appic- cato un portico di marmo, con molti ornamenti ed in- tagli di cose fatte in memoria di papa Alessandro II, state poco innanzi che fusse assunto al pontificate, ve- scovo di quella città; della quale edificazione e di esse Alessandro si dice in nove versi latini pienamente ogni cosa. Il medesimo si vede in alcune altre lettere antiche intagliate nel marmo sotte il portico infra le porte. Xella detta facciata sono alcune figure, e sotte il portico moite storie di marmo di mezzo rilievo, della vita di San Mar- tino, e di maniera greca: ma le migliori, le quali sono sopra una delle porte, furono fatte cento settanta anni dope da Xiccola Pisano, e finite nel 1233 (come si dira al luego suo), essendo opérai, quando si cominciarono, Abellenato ed Aliprando; come per alcune lettere nel medesimo luego intagliate in marmo, apertamente si vede. Le quali figure di mano di Niccola Pisano mostrano quanto per lui migliorasse Tarte della scultura. Simili a ' In questo fregio non sono rappresentati 1 dodici Apostoli, ma undici Santi, tutti in mezza figura. ^ La chiesa cattedrale di San Martino di Lucca fu rifatta, secondo le Guide, nel 1160. La facciata però è opera di un tal Guidetto, fatta nel 1204, come ne fa fede la seguente iscrizione riferita dal Ciampi nelle Notizie della Sagrestia de'Belli Arredi di Pistola: mill, cciiii. condidit electi tam pulcras dextra gvibecti. Il barone di Rumohr soggiunge, poi, a questo proposito: « Vi sono in Lucca cosi stupendi monumenti di architettura dal x al xii secolo (vedi San Frediano, San Michele, Santa Maria Alba), che io non comprendo come il Vasari nomini per I'appunto San Martino; chiesa di bella architettura gótica del secolo xiii, la quale non può essere stata edificata da que'suoi immaginati allievi di Buschetto. » PROEMIO DELLE VITE 241 questi furono per lo più, anzi tutti gil edifizj, che dai tempi detti di sopra insino all'anno 1250 furono fatti in Italia; perciocchë poco o nullo acquisto o miglioramento si vide nello spazio di tanti anni avere fatto l'architet- tura, ma essersi stata nei medesimi termini, e andata continuando in quella goffa maniera,-deUa quale ancora molte cose si veggiono : di che non faro al presente al- cuna memoria, perché se ne dirh di sotto, seconde l'oc- casioni che mi si porgeranno. XVI. Le sculture e le pitture símilmente huone, state sotterrate nelle revine d'Italia, si stettono insino al me- desimo tempe rinchiuse, o non conosciute dagli uomini ingrossati nelle goffezze del moderno uso di quell'età; nella quale non si usavano altre sculture ne pitture che quelle, le quali un residuo di vecchi artefici di Grecia facevano, o in imagini di terra e di pietra, o dipignendo fígure mostruose, e coprendo solo i primi lineamenti di colore. Questi artefici, come migliori, essendo soli in que- ste professioni, furono condotti in Italia, dove portarono insieme col musaico la scultura e la pittura in quel modo che la sapevano; e cosi le insegnarono agl'Italiani, goffe e rozzamente; i quali Italiani poi se ne servirono, come si è dette e come si dirà, insino a un certo tempo. E gli uomini di quel tempi, non essendo usati a veder altra bontà ne maggior perfezione nelle cose di quella che essi vedevano, si maravigliavano ; e quelle, ancorchë haro- nesche fossero, nondimeno per le migliori apprendevano. Pur gli spiriti di coloro che nascevano, aitati in qualche luogo dalla sottilità dell'aria, si purgarono tanto, che nel 1250 il cielo a pietà mossosi dei begli ingegni che ""l terren toscane produceva ogni giorno, li ridusse alla forma primiera. E sebbene gl' innanzi a loro avevano ve- duto residui d'archi o di colossi o di statue, o pili o co- lonne storiate; nell'età che furono dopo i sacchi e le ruine e gl'incendj di Roma, e'non seppono mai valer- Vasari , Opere. — Vol. I. 16 242 PROEMIO DELLE VITE sene o cavarne profitto alcuno, sino al tempo detto di sopra. Gli ingegni che vennero poi, conoscendo assai bene il buono dal cattivo, ed abbandonando le maniere veo- chie, ritornarono ad imitare le antiche con tutta l'indu- stria ed ingegno loro. XVII. Ma perché più agevolmente s'intenda quelle che io chiami vecchio ed antico ; antiche furono le cose innanzi a Costantino, di Corinto, d'Atene e di Roma e d'altre famosissime cittk, fatte fino a sotto Xerone, ai Vespasiani, Traiano, Adriano ed Antonino: perciocchë r altre si chiamano vecchie, che da San Silvestre in qua furono poste in opera da un certo residuo de'Greci, i quali piuttosto tignere che dipignere sapevano. Perché, essendo in quelle guerre morti gli eccellenti primi arte- fici, come si é detto, al rimanente di que'Greci, vecchi e non antichi, altro non era rimase che le prime linee in un campo di colore: come di ció fauno fede oggidi infiniti musaici che per tutta Italia, lavorati da essi Greci, si veggono per ogni vecchia chiesa di qualsivoglia citta d'Italia, e massimamente nel Duomo di Pisa, in San Marco di Vinegia, ed ancora in altri luoghi;^ e cosi molte pit- ture, continovando, fecero di quella maniera, con occhi spiritati e mani aperte, in punta di piedi: come si vede ancora in San Miniato fuer di Fiorenza, fra la porta che va in sagrestia e quella che va in convento ; ed in Santo Spirito di detta citta, tutta la banda del chiostro verso la chiesa; e similmente in Arezzo, in San Giuliano ed in San Bartolommeo® ed in altre chiese; ed in Roma, in San Pietro, nel vecchio, storie intorno intorno fra le fine- * Migliori de'musaicisti greci erano alcuni italiani, romani specialmente ; fra i quali i Gosmati, cioè Lorenzo, Jacopo, Cosmate, e Luca, Jacopo, Giovanni, e Diodato suoi figliuoli, i quali lavorarono di musaico e di scultura dai primi anni del secolo xiii, fino al principio del seguente, in Roma, in 'Anagni, presso Civita Castellana, a Subiaco e ad Orvieto. Vedi Storia della Pittura in Italia di G. B. Gavalcaselle e A. Growe; Firenze, Successori Le Monnier, 1876, in-8, "voL I, cap. III. ^ Le pitture qui mentovate piú non si veggono. PROEMIO DELLE VITE 243 stre: cose che hanno plù del mostro nel lineamento, che effigie di quel che e' si sia. Di scultura ne fecero símil- mente infinite; come si vede ancora sopra la porta di San Michele, a piazza Padella di Fiorenza, di basso ri- lievo; ed in Ognissanti, e per molti luoghi, sepolture, ed ornamenti di porte per chiese : dove hanno per men- sole certe figure, per regger il tetto, cosi goffe e si ree, e tanto malfatte di grossezza e di maniera, che par im- possibile che immaginare peggio si potesse. XVIII. Sino a qui mi è parso discorreré dal principio della scultura e della pittura, e per avventura più lar- gamente che in questo luego non bisognava: il che ho io però fatto, non tanto traportato dall'affezione del- Tarte, quanto mosso dal benefizio ed utile comune degli artefici nostri; i quali, avendo veduto in che modo ella da piccol principio si conducesse alia somma altezza, e come da grado si nobile précipitasse in ruina estrema (ë per conseguente, la natura di quesearte simile a quella delTaltre, che, come i corpi umani, hanno il na- scere, il crescore, lo invecchiare ed il moriré), potranno ora piíi fácilmente conoscere il progresso della sua riña- scita, e di quella stessa perfezione dove ella è risalita ne'tempi nostri. Ed a cagione ancora, che se mai (il che non acconsenta Dio) accadesse per alcun tempo, per la trascuraggine degli uomini o perla malignità de'secoli, oppure per ordine de'cieli, i quali non pare che voglino le cose di quaggiù mantenersi molto in uno essere ; ella incorresse di nuevo nel medesimo disordine di rovina; possono queste fatiche mié, qualunque elle si siano (se elle però saranno degne di più benigna fortuna), per le cose discorse innanzi e per quelle che hanno da dirsi, mantenerla in vita, o almeno dare animo ai più ele- vati ingegni di provvederle migliori aiuti: tanto che, con la buena volonth mia e con le opere di questi tali, ella abbondi di quegli aiuti ed ornamenti, dei quali (siami '¿U PROEMIO DELLE VITE lecito liberámente dire il vero) ha mancato sino a qne- st'ora. Ma tempo ë di venire oggimai alla Vita di Gio- vanni Cimabue ; il quale siccome dette principio al nuovo mòdo di disegnare e dipignere, cosí è giusto e conve- niente che e'lo dia ancora alie Vite; nelle quali mi sfor- zero di osservare il più che si possa 1' ordine delle maniere loro, piti che nel tempo. E nel descrivere le forme e le fa;fctezze degli artefici, sarò breve; perché i ritratti loro, i quali sono da me stati messi insieme con non minore spesa e fatica che diligenza, meglio dimostreranno quali essi artefici fussero quanto all'effigie, che il raccontarlo non farebbe giammai; e se d'alcuno mancasse il ritratto, ció non è per colpa mia, ma per non si essere in alcun luogo trovato. E se i detti ritratti non paressero a qual- cuno, per avventura, simili afíatto ad altri che si tro- vassono, voglio che si consideri, che il ritratto fatto di uno quando era di diciotto o venti anni, non sarà mai simile al ritratto che sarà stato fatto quindici o venti anni poi. A questo si aggiunge, che i ritratti disegnati non somigliano mai tanto bene quanto fauno i coloriti: senza che gl'intagliatori, che non hanno disegno, tol- gono sempre alie figure, per non potere në sapere fare appunto quelle minuzie che le fanno esser buone e so- migliare, quella perfezione che rade volte o non mai haniio i ritratti intagliati in legno. In somma, quanta sia stata in ciò la fatica, spesa e diligenza mia, coloro il sapranno che, leggendo, vedranno onde lo gli abbia quanto ho potuto il meglio ricavati.' ' I ritratti, de'quali ando ornata, per la prima volta, la edizione de'Giunti, furono disegnati dal Vasari stesso e da'suoi creati; e intagliati in legno da messer Cristofano Lederer, detto dagli Italiani Coriolano. Ció racconta il Vasari medesimo nella Vita di Marcantonio. In una lettera poi ai Borghini, del 1566, parla del proprio ritratto fatto alio specchio, e dato a intagliare nel bossolo al detto M. Cristofano ( Gaye, Carteggio inédito ecc., III, 227). Abbiamo giá detto indietro per quali ragioni a noi è parso di non dover riprodurre i detti ritratti nella presente edizione. DELLE VITE PARTE PRIMA 1 » > - - f. 'ífe. /? í» -t jsri^"5r#'s ) '''' . , vit. í , ' / ¿ ;i ' • ^ .j. fT' ' • T '/'«*·"^·^^*'-··l"·^ - ^ .I/ " ^ .l.v. .^í- l'urono poi acquistati dalla Gallería suddetta. ALBERETTO CIM.VRUE I DHÍ GUALTÍERI o GlMABUOí I G iialtieri GIOVANNI detto CIMABUE + 1302 Lapo Domenico Agnolo selajuolo, fa testamento nel 13 setajuolo 11359 moglie Sandra di mess. Gio. Davizi i G iovanni 1372 Gualtieri Domenico rnoglie Giovanna n. 1365 di Bonifazio di Rerto moglie Mita di ineSs. Ridolfo Pernzzi Kkancesoo Sandra marito Ambrosio Pierozzi COMMENTARIO 261 alla Vita di G. Gimabue Nessuna autorità o antica testimonianza troviamo clie avvalori Tasser- zione del Vasari, ripetuta anche dal Baldinucci e da altri, circa al decreto emanate dalla Repubblica fiorentina interno alTanne 1240, per chiamare in Firenze greci maestri ad insegnare Tarte delia pittnra. Esse fu citato da molti, e da alcuni cercate; ma nessune pete trovarlo. Questa, pertanto, altro non è che una supposizione trovata dal Vasari per dare maggior fondamento e fermezza al sue sistema di attribuire ogni opera anteriore a Cimabue, alia mane de'soli artefici greci. Ma, ammesso per un momento che la Repubblica florentina potesse aver chiamato a dipingere greci pit- tori, piuttostochè quelli che fln dal principio del secóle xiii in. Pisa, in Siena e in Lucca, cittk vicine, ma rivali e nemiche, lodevolmente Tarte delia pittura esercitavano ; chi mai potrh farsi del pari persuaso che questi pittori greci non per altro fossero chiamati, che per rimettere in Firenze la ' pittura ¡ piuttosto perduta che smarrita? Questo non è credibile; imper- ciocche fu abbastanza provato che anche T occidente cristiano non cesso mai, bene o mal che si fosse, di dipingere e di scolpire le immagini de'suoi Santi; come e facile intendere da per se, e coi documenti dimostrare. E rispetto ai tempi che di poco precedettero Cimabue, basterh aver con- siderazione al mérito de'musaici tuttavia esistenti in San Giovanni di Firenze, da Fra Jacopo francescano e da Andrea Tafl condotti innanzi alia pretesa chiamata dei greci maestri, per tenere in tutto falsa questa opinione. ^ * Nella Vita di Cimabue, pag. 248. ' Oggi non si puô piü tenere che Andrea Tafi lavorasse i mosaici di San Gio- Tanni innanzi alia pretesa chiamata de'maestri greci, essendo stata meglio sta- bilita Tetá, in cui visse ed operó quelT artefice ; come sará chiaramente dimo- strato nella sua Vita. 262 <'(>.MM1ÍNTARI0 ALLA VITA DI G. CIMABUE Quinitu ¡x)i alJii iDresunta educazione artística di Cimabue, vuole il Vasari cite centre egli gioviiietto andava ad apprendere i primi rudimenti di lettere da un .suo parente, maestro de'novkj in Santa Maria i Novella, pittori greei prenominati lavorassero appunto nella di oui cappella de'Gondi, a' gioriii suoi le volte e le facciate erano poco men che consúmate dal tempo. ..Via gh scrittori venuti doiDO hanno gia avvertito come al di Gimabue tempo muí potesse essere edificata quella cappella, odiern-a imperciocclie la chiesu, in cui essa si trova, fu incominciata a fabbricare nel 1279. Di qui è che alcuui argomentarono che quei greci pittori nella operassero piuttosto an tica chiesa, al presente situata sotto la sagrestia; e avauzi giudicarono di Joro o])ere quelle pitture tuttavia visibili nelle sotterranee pelle, cap- dedicate runa a Sant'Anna, Taltra a Sant'Antonio. Ma, a questo proposito, rejide grandissima maraviglia il vedere 1'enorme abbaglio che prese iJ D'Ag-incourt; il quale, nella sua St07'ia dell'Arte, nella tavola da cix, come Siiggio delle pitture operate da quei greci pretesi maestri di Ci- inabue, ima delle storie dipinte nella menzionata cappella di Sant'Aiina;' mentre sap])iiauo che essa fu fondata nel sec. xiv dalla famiglia degli Stec- cuti, e che il .-juo fondatore vi fu sepolto nell'anno 1360.^ Le quali che hanno pitture, evidentemente il carattere delle cose del sec. xiv, quanto al corrispondono, tempo, a quelle che sono nella contigua cappella di Sant'An- tonio;' í'atta editicare nel 1837 da Fuligno Carboni, jter testamento di Uli- vieri .suo padre." Anche il prof. Rosini, per aver seguitato il ha D'Agincourt, gitidicato queste stesse pittime, opere dei maestri greci.Sennonche narra il .padre Eineschi' che questa cappella di Sant'Antonio era gi'a anticamente pin editicata, come un accidente a'suoi tempi occorso dimostró; e fu che, cudendo una parte d'intonaco, si scopri una pittura più antica, la quale fu giudicata opera di quei greci che dipingevano in Firenze, e da'quali .si vuole apprendesse l'arte Giovanni Cimabue: e in nione questa opi- furon concordi il Padre Delia Valle e l'ab. Lanzi.® Per buona anche sorte, al presente sono visibili nella detta cappella di Sant'Antonio alcune tracce tii que.-;te antiche pitture, sotto la storia della Crocifissione. In esse ' D'Acnxconcj , Storia dell'Arte^ tom. ^ IV, pag. 355, ediz. di Prato. Fjnkschi, Memorie sopra l'antico cimitero di Santa ® Maria FiXKSCHt, Novella, 83. Mem. cit., p. pag. 80 e seg. Fuligno Carboni vescovo di seppellito in Fiesole, fu quesla síessa cappella di Sant'Antonio nel 1349, come si ritrae dalla iscrizioue clç è nel .suo avello, riportata per intiero dal P. Fincschi, e che ora non si vede che per metà. ' Storia delia Piltura italiana, tom. I, pag. 74. " Mem. cit., pag. 18. ® Lettere Seneyi, II, 8. — Storia iñttorica della Italia eco., tom. I, Scuola Fiorentbiu, lib. i. COMMENTAKIO ALLA VITA DI G. CIMABUE 263 a mala pena si scorgono i segni di cinque arclii sorretti da altrettanti pilastri di proporzione assai tozza ; qualclie testa uinanauna die sembra di cavallo; le braccia, il torso e una gamba di una piccola figura tutta tinta di un solo color bigio; e un'altra figura che pare abbia le ali, colla destra alzata e munita di una specie di bastone o scettro. Nell'areata di mezzo, un avanzo di una testa piíi grande, e il vestigio della mano si- nistra. ^ Noi non dubitiamo di affermare cbe questi franunenti non sono niente affatto lavoro greco ; ma un mostruoso e rozzissimo lavoro a tempra di un qualche ignorantissimo italiano pittore, se cosi pub cbiamarsi cbi è digiuno finanche d' ogni principio d' arte. E quanto dei greci pittori dice il Vasari in varj luoghi del Proemio delle Vite, meglio si attaglia a qua- lificare questo informe lavoro, piuttostoclib le opere dei veri greci, i quali •certamente non erano tanto goffi ed ignoranti quanto egli li volle far credere:^ e a proferiré si sfavorevole giudizio sopra di loro (sebbene ne'suoi viaggi a Roma, a Ravenna, ed in altre cittfi d'Italia, il Vasari ■dovesse aver veduto opere grecbe veramente stimabili per mérito artistico) egli fu portato dalla forza del suo prestabilito sistema di gettare a terra tutto quanto innanzi a Cimabue si era fatto ; e mettendo in discrédité gran- dissimo i greci pittori esaltar maggiormente il suo Cimabue, e far credere •che sotto la disciplina di si perversi maestri l'ingegno di lui valesse a tramutar Tarte, e rinnovaria maravigliosamente, come fece. Quando venue al mondo Cimabue, gia in moite parti d'Italia ei-a sorta una maniera di pittura, dove il tipo greco incominciava ad esser cacciato via da nuove fattezze ; le quali a grado a grado colla scorta del vero mi- gliorandosi, ben presto dettero alla pittura un aspetto tutto nuovo e un carattere nazionale. In varie parti d'Italia greci artefici e seguaci di essi saranno stati, come vi furono; e specialmente in quelle cittk, dove Tin- eivilimento arrivb .più tardi e si andava svolgendo più lentamente : ma in Toscana, dove la rinnovata civiltli si propago précoce, e in breve dette splendidi frutti in ogni genere d'arte e di disciplina, la pittm-a stessa dovette spogliare la veccbia veste più presto, e più presto vestire la nuova. Dopo di che, toccando di nuovo della educazione artística di Cimabue, è agevole il farsi persuaso che quanto il Vasari ci racconta, altro non è -che una mera invenzione romanzesca, immaginata dal Biógrafo per dar * Abbiamo descritto tritamente questi frammenti, perché essi tra breve non ■esisteranno più, essendo molto deperiti. ^ « dipingevano figure mostruose, coprendo solo i primi lineamenti ■di colore; che più tosto che dipingere tingevano; di quei Greci vecchi e non antichi, dei quali altro non era rimaso che le prime linee in un campo di co- lore, con un profilo che ricinge per tutto le figure, le quali hanno piú del mostro nel lineamento, che effigie di quel che e' si sia ». 264 COMMENTARIO ALLA VITA DI G. CIMABUE corpo cli storia seguita e provata ad una tradizione volgare, délia quale» nessuna memoria certa per documenti si trova, e dal Yasari stesso a noi tramandata con tutto quel di più clie la sua poética fantasia vi seppe ag- giungere. SaVa pertanto più giusto e di verità, più istorica il dire che, nel modo istesso che Siena ehhe pittori anche avanti il suo Guido, ' cosi Fi- renze potesse avere in quel tempo pittori e miniatori capaci di potere, con esempi e con buone discipline, rettamente avviare nell'arte della pit- tura la gioventù florentina. E difatti, de'tempi che precessero a Cimahue,. si ha memoria di un Rustico, cherico e pittore florentino nel 1066;^ e di una tavola dipinta nel 1191 da un tal Marchisello florentino, la quale^ flno al tempo di Cosimo Pater Patriae stette nell'altar maggiore della- chiesa di San Tommaso. ® Del 1112 è ricordo di un Girolamo di Morello,. parimente cherico e pittore. * Nel 1224 si trova un maestro Fidanza pit- tore; ' e nel 1236 un altro pittore florentino, di nome Bartolommeo. ® E per dare un esempio de'tempi stessi di Cimahue, il Del Migliore riferisce il nome di un « Maso dipintore, flgliuolo di Risalito, del popolo di San Mi- chele Bisdomini; il quale visse nel 1260, ahile al governo in tempo che * In Siena, dove non è nè memoria nè tradizione che siano stati greci ar- tefici, abbiamo nella Galleria delle Belle Arti un paliotto, che fu già della Badia della Berardenga, nel quale a caratteri romani è questa iscrizione: anno dominí MiLLESiMO ccxv MENSE NOVEMBRi HEC TABULA FACTA EST. È opera di maniera affatto diversa e più antiquata di quella di maestro Guido, t Intorno al quale ed alla sua celebre tavola in San Domenico di Siena è stato provato a'nostri giorni che egli fu Guido di Graziano, vissuto nell'ultima metà del secolo xiii,. e che dipinse quella tavola, non nel 1221, come è detto nelia iscrizione alterata nel suo millesimo da posteriori restauri, ma sibbene cinquant'anni dopo, cioè nel 1281. (Vedi Milanesi Gaetano, Della vera età di Guido pittore senese e della celebre sua tavola in San Domenico di Siena, nel Giornale Storico deglt Archivi Toscani, vol. III, anno 1859). ^ Archivio diplomático di Firenze: carte di San Pier maggiore di Pistoia- ® Del M igliore, Firenze illustrata, pag. 468. ' *Anno 1112. Aprile — Bernardo di Signoretto vende a Girolamb, cherico- e pittore, figliuolo di Morello, la sua parte deile terre in luogo Callebuono e in Materaio, pel prezzo di soldi 30. Fatto nella Pieve di San Pietro a Sillano,nel territorio florentino. Regato Teuzzo notare l, Archivio diplomático di Firenzet: carte dell'Abazia di Passignano ). Ragionevolmente è da credere che questo pit- tore fosse florentino. " « Nel 1224, Diotifeci, priore della chiesa di Santa Maria Maggiore di Fi- « renze, col consenso del suo Gapitolo, vendé una casa posta in campo Corbolini, « per pagare un debito a maestro Fidanza pittore ; come si ha da una carta del « nostre Archivio capitolare di quell'anno ». (Lamí, Dissertazione relativa ai Pittori e Scultori Italiani che fiorirono dal 1000 al 1300). L'original testo di questo documento nelle parti più importanti fu pubblicato dal Rumohr nel tomo II delle sue Ricerche italiane, in nota, pag. 28. ® Lamí , 1. c . « E nel 1236 era in Firenze un pittore chiamato Bartolomeo,, «c come si ha da una carta del predetto Archivio capitolare ». COMMENTAEIO ALLA VITA DI G. CIMABUE 265 la signoria era ne'Magnat! e nelle persone di alto lignaggio; senza la comunitk délia gente bassa »; e di un tal Gbese di Pietro pittore, che nel 1297 era gih morto. ' Notabilissimo e pure il trovare che nel 1269 si fa menzione délia F/a de'P/ííor¿ (palazzo de'Ghibellini inter dipintores): per il che, se una delle principal! vie delia cittk aveva gih preso il nome da loro, ció sta a provare che Firenze aveva abbondante numero di pittori.^ A quest! fatti, i quali ci mostrano gih formata e stabilita in Firenze una scuola propria, un altro ne abbiamo da aggiungere, che mentre ci fa conoscere un altro pittore fiorentino, e (quel che molto più importa alia storia) un'opera segnata del suo nome e dell'anno, servirh eziandio a formare un più sicuro e intero giudizio interno al mérito di questa scuola. Questo pittore, nato cortamente innanzi a Cimabue, e degno pel suo va- lore di non andar dimenticato, è Coppo di Marcovaldo fiorentino. Cestui solamente da alcuni anni in qua era noto per un documento pubblicato dal Ciampi,' dal quale si ritrae che nel 1265 dipinse nella cappella di " San lacopo di Pistoia una facciata verso la porta : opera oggi perduta. Ma ' Il corpo di Madonna Riguardata, ucear olim Ghesis dipintoris, nel 1297 fu riposto nella sepoltura di famiglia in Santa Reparata. ( Del Migliore , op, cit., pag. 417). ® II Del Migliore, {op. cit., pag. 414), fa cenno di una serie di pittori da lui messa insieme da Cimabue indietro, fin ne'tempi di Federigo II. b Noi ancora possiamo regístrame molti altri che vissero ed operarono sul finiré di questo me- desirao secolo, e il cominciare del seguen te. Da un protocolio di ser Matteo Biliotti dal 1294 al 1296, conservato nell'Archivio Generate de'contratti di Fi- renze, togliamo i nomi de' seguenti pittori fiorentini, che pattuiscono d' insegnare l'arte loro ad alcuni giovani, i più per tre e qualcuno anche per quattro anni. Lapo di Cambio, Lapo di Beliotto, Lapo di Taldo, Corso di Buono, Andrea di Cante, Grifo di Tancredi, Tura di Ricovero, Vanni di Rinuccio, Chele di Pino, Ranuccio di Bogolo, Guiduccio di Maso, Cresta di Fiero, Bindaccio di Bruno, Guccio di Lippo, Bertino della Marra, Rossello e Scalore di Lottieri, Dino e Lippo Benivieni, Asinello d'Alberto, Lapo di Compagno detto Scatapecchia, Van- nuccio di Duccio e Bruno di Giovanni, il compagno di Buffalmacco e di Calandrino. Troviamo in altro notaio ancora che nel 1282 Azzo del fu Mazzetto pittore del pop. di San Tommaso fece patto d'insegnare l'arte sua per sei anni a Vanni di Bruno del fu Papa del popolo di San Romolo ; il qual Vanni è forse Giovanni padre di Bruno sopra nominato. ' Notizie della Sagrestia Pistoiese ecc., pag. 143, documento xxii; donde è utile a sapere che il padre di M. Coppo era giá morto tra il 1265 e 1267, anno, a cui si riferisce quel documento. « Di mano del medesimo Coppo fu pure, seconde il Dondori nella Pietá di Pistoia, una Nostra Donna con putto, che stava giá in un tabernacolo all'al- tare maggiore del Duomo, d'onde venne poi tolta all'occasions che quell'altara dovette in altra forma rifabbricarsi, e fu collocata nell'ora soppressa chiesa di San Luca. Al presente non ne resta memoria ». (Ciampi, Notizie della Sagre- stia Pistoiese ecc.). 266 COMMENTARIO ALLA VITA DI G. CIMABUE le ricerclie che continuamente andianio facendo d'opere e di notizie di belle arti, ci lianno fatto scoprire la esistenza di un'altra opera impor- tantissima di questo pittore, condotta fuori di patria. Essa si cçnserva iiella chiesa di Santa Maria dei Servi in Siena; ed è la Madonna cosí detta del Bordone, in una cappella in prima appartenuta, seconde che si dice, ai Bordoni, ' poi ai Ronconi, e nel 1617 ai Biringucci, dai quali verso il 1700 passo in monsignor Borgognini vescovo di Montalcino. In questa tavola, col fondo messo a oro, è figurata tutta intera, e della gran- dezza inaggiore del naturale, una Nostra Donna seduta in un inolto or- nato seggio, tenendo in braccio con aggraziato modo il Divino Infante, che fa r atto del benedire. Due piccoli Angeli stanno sospesi in aria presso la testa della Vergine e del Bambino. Quest'opera e ben conservata: e sehbene nella movenza degli Angeli, e soprattutto nelle pieghe della veste della Vergine e nella forma e negli ornamenti del trono, tenga assaissimo della maniera bizantina; le teste però, si pel carattere come per la forma, che ò più aggraziata e rotondeggiante, se ne allontanano notabilmente. Il Faluschi e il Romagnoli, autori delle più moderne Guide di Siena che si hanno a stampa, attribuiscono questa pittura a Diotisalvi Retroni, pittore senese ; e percio sotto questo nome si vede incisa nella tav. vi della Storîa del prof. Rosini. Ma certi ricordi sopra il convento e la chiesa de'Servi di Siena, ^ ciel padre Filippo Buondelmonti servita, il quale visse nella prima metk del secolo xvii, ci dicono che questa tavola è opera di Coppo di Marcovaldo; e meglio ]poi, da una Descrizione inédita delle cose più notabili della citta di Siena, del 1625, seconde il parère di alcunî fatta da Fabio Chigi, poi i^apa Alessandro VII, veniamo a sapere che in questa tavola a quel tempo si leggeva 1' anno e il nome del pittore cosi : MccLxi. Coppus DE Florentia ME piNxiT. ^ Sebbene questa iscrizione sia do- vuta sparire quando fu variata la forma della tavola e rifatta la cornice, la quale è evidentemente moderna; tuttavia nessuno verra impúgname l'autenticita. Ció posto, sembra a noi di peter concludere che questa tavola di Coppo Marcovaldo sia uno de' più evidenti e forti argomenti in favore della indqjendenza della scuola florentina al tempo di Cimabue. Per quali cagioni, adunque, tra i pittori che a quella stagione pro- dusse la scuola florentina, il solo Cimabue levo alto grido di se, non tanto ^ Essendoci sconosciuto che in Siena sia stata in antico una famiglia di questo nome, propendiamo a credere che piuttosto questa Madonna fosse cosi detta da qualche bordone appeso presso di lei, in segno di voto o di grazia ricevuta. ^ Manoscritto nella Biblioteca Comunale di Siena. ® Descrizione delle cose piú notabili di Siena (ms. originale nella Biblioteca. Chigiana di Roma, e in copia nella Comunale di Siena). COMMENTAEIO ALLA VITA DI G. CIMABUE , 267 ti'a i coetanei, ^ quanto ancora tra quelli che in patria lo precedettero in qnesto esercizio ? Taie eccellenza su tutti gli altri è chiaro che da queste cagioni derivo : primo, dalT avere egli avuto in dono dal cielo un ingegno più felicemente disposto d'ogni altro, col quale pote più produrre opere migliori, e più potentemente aiutare, quasi sul principio, Taffrancamento che nella pittura si andava operando; poi, daU'essere stato maestro di Giotto; onde il nome delTuno non fu j)iù disgiunto da quello delTaltro; e finalmente, dalla fortuna che il suo nome fosse tramandato ai posteri nei noti versi del Divino Poeta, quando disse: Credette Gimahue nella pintura Tener lo campo ecc. ' A provare che egli vinse i suoi contemporanei, recheremo T esempio di una tavola d'ignoto pittore, il quale operó nei medesimi tempi di Cimabue, anzi gli sopravvisse, e fu piú di lui seguace della greca maniera, ma non al pari di lui valente. Questa importante tavola, da noi con piacere veduta in questi giorni, è appena accennata dalf ultima Guida di Firenze, del 1841, e da nessuno dei patrii scrittori considérala. Essa si trova nella sagrestia della chiesa di San Si- mone, dove fu traspórtala da quella, oggi demolita, di San Pier Maggiore, per la quale fu falta. ( t Ora è nel primo altare a destra, entrando, di delta chiesa). È una tavola alquanto grande, simile, nella forma e in certi ornati e accessor] dipinti, a quella di Cimabue in Santa Maria Novella. In essa è figúralo, su fondo d'oro, e piú grande del naturale,un San Pietro maestosamente seduto in catte- dra, con chiavi e un libro nella sinistra, e colla destra benedicente, e ai lati due Angeli in piedi. A piè della tavola abbiamo letto, non senza fatica perché mezzo spenta, questa scritta a lettere d'oro, da nessun altro conosciuta: istam. tabulam , fecit. sotietas. beati. petri. appstoh. de. mense. lunii. sub. annis. domini. m. cgc. viii. AENOLFO DI LAPO 269 AECHITETTO FIOKENTIKO ( Nato nel Í232 ? ; morte nel 1310 ) Essendosi ragionato nel Proemio delle Vite d' alcnne fabbriche di maniera veccbia non antica,* e taciuto per non sapergli i nomi degli arcliitetti cbe le fecero fare; faro menzione nel proemio di questa Vita d'Arnolfo d'alcuni altri edifizj fatti ne'tempi suoi o pocoinnanzi, dei qnali non si sa similmente chi furono i maestri; e poi di qnelli che furono fatti nei medesimi tempi, dei quali si sa chi furono gli architettori, o per riconoscersi benissimo la maniera d' essi edifizj, o per averne notizia avuto mediante gli scritti e memorie lasciate da loro nelle opere fatte. Nè sarà ció fuor di proposito, perché sebbene non sono në di bella në di buona maniera, ma solamente grandissimi e magnifici, sono degni nondimeno di qualche considerazione. Furono fatti, dunque, al tempo di Lapo e d'Arnolfo suo figliuolo^ molti edifizj d'impor- tanza in Italia e fuori, dei quali non ho potuto trovare io gli architettori; come sono la Badia di Monreale in ' Savia distinzione fatta da lui anche sulla fine del Proemio delle Vite, ove spiega ció che intende per vecchio e ció che intende per antico. " Arnolfo, come si mostrerá piii sotto, nou fu figliuolo d'un Lapo. 270 ARNOLFO DI LAPO Sicilia/ il Piscopio di Napoli/ la Certesa di Pavia/ il Duomo di Milano/ San Piero e San Petronio di Bolo- gna/ ed altri molti clie per tntta Italia, fatti con inere- dibile spesa, si veggiono: i qnali tutti edificj avendo io ' Fondata verso il 1177, probabilmente da un principe francese d'origine nor- manna; onde si annovera fra i monumenti di quell'architettura che qui dicesi gótica, altrove normanna o francese; e potrebb'anche, per certa imitazione che vi si scorge dell'arábico, annoverarsi fra i monumenti d'al tro nome. Molte ri- cerche fece indarno per discoprirne l'architetto o gil architetti chi ne diede in Palermo una descrizione sui principio del secolo scorso. Il D'Agincourt stimò opera perduta il far ricerche ulteriori. i Non cosi la pensarono Domenico Lo Faso Pietrasanta duca di Serradi- falco, e Don Domenico Benedetto Gravina abate cassinense, i quali pvxbblicarono in Palermo, il primo- nel 1838, ed il seconde nel 1859 in un magnifico volume in-folio, la Storia del Duomo di Monreale. Circa al suo fondatore, il padre Gra- vina dice essere stato Guglielmo II detto il Buono, e che fosse posto mano alla sua edificazione verso il 1172. " *Vedi la nota 4, pag. 303 nella vita di Niccola e Giovanni, Pisani. ® Fatta erigere sulla fine del secolo decimoquarto da Gio. Galeazzo Visconti, primo duca di Milano ; poi adornata sul declinar del seguente degli stupendi lavori che veggonsi nella sua facciata specialmente, e che fanno di essa una delle me- raviglie d'Italia. I nomi di quelli che si segnalarono in questi lavori, si son rac- colti alia meglio da'registri delia Certosa medesima, e posson leggersi nelle de- scrizioni che abbiamo di essa, nella storia del Cicognara e altrove. II nome deir architetto o degli architetti non s'è ancor discoperto. i II Calvi nell'op. cit., p. 105, crede, e con buone ragioni e documenti, che il primo e principale architetto della Certosa di Pavia sia stato' maestro Ber- nardo da Venezia. '*Sebbene una iscrizione incastrata dietro il coro della cattedrale milanese dica che essa fu fondata nel 1386, tuttavia un decreto dei deputati alia fabbrica, dei 16 ottobre 1387, afferma che da molto tempo era già cominciata. Architetti italiani e tedeschi ebbero mano alia fabbrica; ma sbaglierebbe chi, col Cicognara, credesse di vedere somiglianza tra questa e la cattedrale di Strasburgo. Del ri- manente, 1' interno di questo Duomo è tenuto da tutti come uno dei piú magnifici delle cattedrali archiacute, e forse a tutti superiore; e quella specie di capitelli de'piedritti sono cosa singolarissima, e che non trovasi in nessun altro edifizio gotico. Questa insigne cattedrale, fondata da Giovanni Galeazzo, fu compita sotto Napoleone. i Nuove ricerche fatte modernamente ne' libri della fabbrica hanno escluso che architetto del Duomo di Milano sia stato un Enrico di Gamundia tedesco, e dimostrato che invece questa lode si debba con piú ragione e giustizia conce- dere a Marco da Campione, architetto lombardo. (Vedi Calvi Girolamo Luigi, Notizie sulla vita e sulle opere de'principali architetti^ scultori e pittori che fiorirono in Milano durante il governo de' Visconti e degli Sforza. Milano, Ron- chetti, 1859, in-8; vol. I, p. 59). ' San Piero,' che è la Metropolitana, fu eretta non si sa ancora per opera di chi, nel secolo'décimo, e probabilmente al principio; poi rinnovata nel deci- ARNOLFO DI LAPO 271 Yeduti e considerati, e cgíbi molte scultiire di que'tempi ^ e partieolarmente in Eavenna, e non avendo tróvate mai non che alcuna memoria dei maestri, ma ne anche molte volte in che millésime fussero fatte; non posso se non maravigliarmi della goffezza e poco desiderio di gloria degli uomini di quell'età. Ma tornando al nostre propo- sito, dopo le fabbriche dette di sopra cominciarono pure a nascere alcuni di spirito piti elevate, i quali se non trovarono, cercarono almeno di trovar qualche cosa di bueno. II primo fu Bueno, ^ del quale non so ne la patria në il cognome, perché egli stesso, facendo memoria di se in alcuna delle sue opere, non pose altro che semplice- mente il nome.® Cestui, il quale fu seul tore ed archi- tetto, fece primieramente in Ravenna molti palazzi e chiese ed alcune sculture negli anni di nostra salute 1152: per le quali cose venuto in cognizione, fu chiamato a Napoli, dove fondo (sehbene furono finiti da altri, come mottavo sotto Benedetto XIV. * Quanto a San Petronio, da un documento stam- pato a pag. 92 della Serie terza delle Memorie di Belle Arti, pubblicate per cura di Michelangelo Gualandi, si ritrae che, li 8 d'aprile dell'anno 1392, fu deputato a capo maestro della detta Basilica (della quale fu posta la prima pie- tra nel 1390) Antonio Vincenzi, architetto bolognese ; uomo celebre allora, il quale fu dei riformatori, e nel 1396 degli ambasciatori alia Repubblica Vene- ziana. Gli fu dato però a compagno in quella fabbrica il Padre Andrea Manfredi, generate dell'Ordine dei Servi di Maria; valente architetto esso pure, di cui si vedono fabbriche in Bologna ed altrove. Questo decreto che al Vincenzi dà per compagno il Manfredi, è riportato per intiero dal Cicognara, Storia della Seul- tura, vol. II, lib. ii, cap. vii, p. 235 dell'ediz. in-8. ^ *11 Vasari, come vedremo, confonde qui piú artefici di diverse età e di di- verso nome. ^ *In Pisa fu certo a lavorare (se non vuol dirsi Pisano) un tal Buonamico, del quale in Campo Santo è un architrave con rozzissime sculture, dov'è rap- presentato, dentro una mandoida ch'è nel mezzo, il Redentore benedicente, e ai lati i quattro Evangelisti, con sopra il re David seduto, che suona il salterio. In basso è scritto: -f- opvs qyod videtis bonvsamicvs magister fecit, pro eo orate. Di questo infelice lavoro fa menzione il Da Morrona {Pisa antica e mo- derna, per servira di guida ecc. Pisa, 1821, pag. 55). Ma chi crederebbe che di questo Buonamico s'incontri il nome in un'altra iscrizione fin qui ignota, e da noi scoperta, l'anno 1841, nella pieve di Mensano, terra vicino a Casóle nel Senese? In fatti, in una lastra di fino marmo, posta ora nel fianço delí'altar maggiore a cornu evangelii, con grandi e singolari lettere è scritto : agla. ARNOLFO DI LAPO si dirà) Castel Capoano e Castel delP llevoe dopo al tempo di Domenico Morosini doge di Yinezia fondo il campanile di San Marco con molta considerazione e giii- dizio/ avendo cosi bene fatto palificare e fondare la platea di quella torre, ch' ella non ha mai mosso nn pelo, come aver fatto molti edifizj fabbricati in quella città innanzi a lui si ë veduto e si vede. E da lui forse ap- pararono i Viniziani a fondare nella maniera che oggi fanno i bellissimi e ricchissimi edifizj che ogni giorno si fanno magnificamente in quella nobilissima città. Bene è vero che non ha questa torre altro di bueno in së, në maniera në ornamento, në insomma cosa alcuna che sia molto lodevole. Fu finita sotto Anastasio IV e Adriano IV pontefici, l'anno 1154. Fu símilmente architettura di Bueno la chiesa di SanFAndrea di Pistola : ë sua scultura un architrave di marmo che ë sopra la porta, pieno di figure fatte alla maniera de' Groti : nel quale architrave ë il suo nome intagliato, ed in che tempo fu da lui fatta queiropera, che fu l'anno 1166.® Chiamato pol a Firenze, opvs qvod videtis bonvsamicvs magister fecit. pro eo oretis. Sebbene il cr- rattere delle sculture simboliche che adornano i capitelli delle colonne di traver- tino che sostengono la navata di mezzo di questa importante chiesa, sia somi- gliantissimo a quelle dell'architrave sopra descritto, in guisa che si potrebbe anche credere che Buonamico fosse I'architetto di questa pieve; tuttavia la iscri- zione páre che alluda piuttosto a qualche altro lavoro di scultura, fatto per questa chiesa, ed oggi disperso. i II Gavalcaselle, op. cit., pag. 181, crede probabilmente di lui i bassirilievi nella porta orientale del Battistero di Pisa, con Cristo, Maria, San Giovanni, ed altri apostoli e angeli in mezze fígure. ^ *Vedi la nota 2, pag. 309, nella vita di Niccola e Giovanni, Pisani. ^ *Quegli, di cui qui parla il Vasari, e che non fondô, per vero dire, ma condusse innanzi il campanile di San Marco, opera di mirabile ardimento eso- lidità, fu, siccome scrive il Cicognara, un Bartolommeo Buono bergamasco, autore delle vecchie Procuratie, e d'altri begli edifizj del secolo xvi che sono in Venezia. (Vedi anche Gicogna , Iscrizioni Veneziane). ' La chiesa di Saut'Andrea, come osserva il Giampi nella Sagrestia de Belli Arredi, è forse del secolo viii. Si crede, egli dice, che la sua facciata, quale la vediamo, sia d'un Gruamonte, chi dice Pisano, chi Ravennate, o oggi opera di qualche aJtro artefice che lavorava con lui. Suo è cortamente l'architrave con bassirilievi rappresentanti l'adorazione deiMagi, corne attesta l'iscrizione (ove pur si nomina'corne compagno dell'opera un Adeodato suo fratello), ivi chia- ARNOLFO DI LAPO 273 diede il disegno di ringrandire, come si fece,.la chiesa di Santa Maria Maggiore, la quale era al]ora fuor di citta/ ed avuta in venerazione, per averia sagrata papa Pelagio molti anni innanzi: e per esser, qnanto alia grandezza e maniera, assai ragionevole corpo di chiesa.^ Condotto poi Bueno dagli Aretini nella loro città, fece Tabitazione vecchia dei signori d'Arezzo; cioë un palazzo della maniera de'Goti,® ed appresso a quelle una torre per la campana: il quale edificio, che di quella maniera era ragionevole, fu gettato in terra per essere dirimpetto ed assai vicino alia fortezza di quella città, Tanno 1533. Pigliando poi Tarte alquanto di miglioramento per Topere d'un Guglielmo di nazione ( credo io ) Tedesco, furono mato per encomio magister bornxs, onde 1' equivoco del Vasari. — *La iscrizione, già esibita dal Ciampi e dal Tolomei, è questa: Fecit hoc opus Gruamuns ma- gister bon (nus) et Adot. (Adeodatus) frater eius. Tunc erant operarii Villa- nus et Pathus filius Tignosi. a. d. mcixvi. t Ma circa I'anno di essa iscrizione il dott. Roulin fece le seguenti osser- vazioni comunícate alla Società Filomatica di Parigi nel 1859 ( V. Giornale di Liouville, tom. IV). Le lettere m e c di questo millesimo, seconde lui equival- gone, come è comunemente, a millecento: il nove poi cosi notato, ix, e posto alla sinistra delle cifre che indicano le unità prende qui un valore di posizione, cioè dieci volte maggiore che se fosse nel luogo di queste ultime, e indica no- vanta; il vi che gli succédé ha il solito valore di sei unità: e cosi prese com- piessivamente tutte le dette cifre mc ix vi debbono significare 1196. Notisi che fin qui il detto millesimo è stato letto e stampato per 1166, prendendo la i in- nanzi alla x per una l , mentre veramente non è che una i. ( Tigri; Guida di Pistoia del 1853, p. 255 in nota). L'architetto Buono lavorô in piú fabbriche di Pistoia fra il 1260 e il 1270, vale a dire piû di 60 anni dopo Gruamonte. * Di questa chiesa, di cui ancor rimangono le mura maestre e la volta, fu probabilmente ringranditore un Buono fiorentino, che lavorô nel secolo décimo- terzo alla cappella di San lacopo e in varie chiese di Pistoia, siccome risulta dagli archivj dell'Opera di San lacopo detto, e da altre memorie. Di che vedi la Sagrestia, già citata, del Ciampi, e i Monumenti Pistoiesi illustrât! dal Tolomei. ^ *Fu consacrata da Pelagio I il 15 d'aprile del 556, seconde la iscrizione che riporta il Del Migliore, pag. 425; la quale oggi non si vede piú. ' *11 Palazzo de'Signori, di cui esiste tuttora in Arezzo un avanzo fra il Duomo e la fortezza, fu (come leggesi negli Annali Aretini inserit! dal Mura- tori nel tom. XXIV degli Script. Rer. Ital., e nel Catalogo de'Potestà d'Arezzo) edificato nel 1232. Però non puô essere architettato da questo Buono, che il Va- sari stesso piú sopra ha detto che operava nel secolo xii. *Questo Guglielmo, che il Vasari dubitativamente dice tedesco, dal Demp- stero è chiamato d'Inspruk : ma le ricerche istituite in Inspruk non hanno por- Vasahi , Opere. — Vo). I. 18 274 ARNOLFO DI LAPO fatti alcuni edifizj di grandissima spesa e d' un poco mi- gliore maniera; perché questo Gruglielmo, seconde che si dice, l'anno 1174, insieme con Bonanno scultore, fondo- in Pisa il campanile del Duomo, dove sono alcune pa- role intagliate che dicono : a. d. mclxxiiil campanile hoc FviT FVNDATVM MENSE AVGYSTi. Ma, non avondo questi due architetti molta pratica di fondare in Pisa, e perciò non palificando la platea come dovevano, prima che fussero al mezzo di quella fabhrica, ella inchinò da un lato e piegò in sui piu debele; di maniera che il dette cam- panile pende sei braccia e mezzo fuer del diritto suo, seconde che da quella banda caló il fondamento : e seb- bene ció nel disette è poco, e alhaltezza si dimostra assai, con far star altrui maravigliato, come possa essere che non sia rovinato e non abbia gettato peli; la ragione è, perché questo edifizio é tondo fuori, e dentro é fatto a guisa d'un pozzo voto, e collegato di maniera con le pietre, che é quasi impossibile che rovini, e massima- mente aiutato dai fondamenti, che hanno fuer della terra un getto di tre braccia, fatto, come si vede, dopo la ca- lata del campanile per sostentamento di quelle/ Credo tato a farci sapere di questo architetto piú in là di quel che ci dicono gli scrit- tori italiani (vedi Torri, Cenno storico analítico eco. sul campanile pisano. Pisa, 1838). ± Questo maestro Guglielmo che forse fu pisano, ma senza dubbio italiano, era nel 1165 capomaestro in compagnia di un maestro Riccio, della Primaziale di Pisa. Tra le pergamene che appartennero a quella chiesa, oggi consérvate nell'Archivio di Stato di Pisa, è uno strumento del primo di gennaio di quello col quale i detti maestri fauno convenzione anno, cogli Opérai di Santa Maria di Pisa circa il loro salario e de' discepoli. Questo Guglielmo è cortamente quel medesimo, di cui parla qui il Vasari. E di piú crediamo che l'autore dell'antico della Primaziale, fatto innanzi a quello di Giovanni: del pergamo qual lavoro fatto da un Guglielmo maestro parla un' iscrizione scoperta a' nostri come giorni. ' Questo getto, che il Vasari dice fatto dopo la calata del campanile per so- stentamento suo, fu aggiunto nel 1637 circa, come il Da.Morrona ricavô dai libri dell' Opera. E nella occasione di alcuni scavi fatti nel 1838 per sgombrare il la balaustrata ed il terreno che circondava la pisana torre muro, pendente, si è veduto che questa mole sta in piedi senza 1' aiuto di quel rinfianco ; e che la esterna sua ipclinazione è di braccia 7 e 2/3. Nessun' opera poi diè luogo a piú curiosi discorsi come questa. Molte quistioni si sono agitate intorno alla AENOLFO DI LAPO 275 bene che non sarebbe oggi, se fusse state quadro, in piedi; perciocchë i cantoni delle guadrature Tavrebbono, come spesso si vede avvenire, di maniera spinto di fuori, che sarebbe rovinato. E se la Carisenda,* torre in Bologna, ë quadra, pende e non rovina,^ ció avviene perchë ella ë sottile e non pende tanto, non aggravata da tanto peso, a un gran pezzo, quanto questo campanile: il quale ë lodato, non perchë abbia in së disegno o bella maniera, ma solamente per la sua stravaganza, non parendo a chi lo vede che egli possa in niuna guisa sostenersi. Ed il sopraddetto Bonanno, mentre si faceva il detto campa- nile, fëce Tanno 1180 la porta reale di bronzo del detto Duomo di Pisa, nella quale si veggiono queste lettere: Ego Bonannus Fis. mea arte liane portam uno anno 'perfeci, tempore Benedictí operarii.^ Nelle muraglie, poi, che in Roma furono fatte di spoglie antiche a San Giovanni La- vera cagione della pendenza di questo campanile; assegnandoie alcuni ad un accidéntale avvallamento del suolo, avvenuto quando era state sin circa alia metà costruito ; altri sostenendo doversi attribuire al bizzarre e ardite pensiere degli architetti, che vollere dare ad esse questa singelare postura. E I'esame di tutte ció che di piú importante si è scritte interne a taie quistiene, puô ve- dersi nell'epuscele del sig. A. Terri sepra citato, nel quale l'autere prende a cembattere, non senza ferti e buene ragieni, colore che furene della prima sen- tenza. Netereme in ultime che il Vasari, nella Vita di Andrea Pisane, dice- che la fine di queste campanile, cieè quella parte dove sene le campane, fu posta da Temmase Pisane, architette e scultere. ' 0 Garisenda, dalla famiglia Garisendi, che la fece fabbricare, dicesi,, nel 1110. Chiamasi anche Terre mezza. ® Anche la sua pendenza fu attribuita da alcuni a capriccie dell'architette. Fu mostrate ad evidenza dal Bianceni e da altri, com' era un eífette del terrene cedevele. ® * Questa porta peri nell'incendie del 1596. II Da Morrena riferi due volte per intere la iscriziene che il Vasari dà sole per metà. Netisi ancora che, sei anni dope, le stesse Benanne fece la porta della chiesa di Santa Maria Nueva di Menreale, tuttera esistente; dove scrisse il neme sue, e I'anne in questa ma- niera; anno dñi mclxxxvi indetione m bonañvs cms pisanvs me fecit . Reca maraviglia il silenzie, nen solamente del D'Aginceurt e del Cicegnara su que- St' opera, ma benanche quelle degli scritteri pisani di Belle Arti ; tante piú che üLanzi, in una neta al libre i della sua Storia, ne aveva fatte menziene. Una bella illustraziene di questa ricchissima porta puó vedersi nell'opera già citata di Demenice Le Fase Pietrasanta, duca di Serra di Falce, stampata in Palermo nel 1838 in-fel. mas. con tav., intitelata: Bel Buomo di Monreale e di altre chiese siculo-normanne ^ ragionamenti tre\ nella quale la bentà e copia della. 276 AENOLFO DI LAPO terano sotto Lucio Til ed Urbano III ^ pontefici, quando da esso Urbano fu coronato Federigo imperatore, si vede che Tarte andava seguitando di migliorare; perché certi tempietti e cappelline, fatti, come s'è detto, di spoglie, hanno assai ragionevole disegno ed alcune cose in se degne di considerazione : e ira Taltre questa, che le volte furono fatte, per non carleare le spalle di quegli edifizj, di can- noni piccoli, e con certi partimenti di stucchi, seconde quel tempi, assai lodevoli; e nelle cornici ed altri membri si vede che gli artefici si andavano aiutando per trovare il buono.^ Fece poi fare Innocenzio III in sul monte Ya- ticano due palazzi, per quel che si ë potuto vedere, di assai buena maniera : ma perché da altri papi furono ro- vinati, e particolarmente da JSTiccola Y, che disfece e rifece la maggior parte del palazzo, non ne diré altro, se non che si vede una parte d' essi nel torrione tondo, e parte nella sagrestia vecchia di San Fiero.® Questo Innocenzio III, il quale sedette anni diciannove e si dilettò molto di fab- bricare, fece in Eoma molti edifizj; e particolarmente, col disegno di Marchionne Aretino, architetto e scultore, la torre de'Conticesi nominata dal cognome di lui, erudizione ben corrisponde alia splendidezza e magnificenza della stampa. E lode sia al prof. Rosini, che alla diíficoltá ch' altri puô avere di poter consultare la oc- stosa del Pietrasanta, ha in parte riparato col riportare nel tomo I della opera sua Storia della Pitt. Ital. i disegni di due storie, e la surriferita iscrizione di quest'opera di Bonanno. — Due frammenti di antica lapida scritta, trovati re- centemente nello sgombrare il terrapleno che era alla base del campanile pisano, furono ragionevolmente creduti un avanzo del sepolcro dell' architetto Bonanno, essendovi visibilmente scolpito il suo nome. Essi furono pubblicati dal dott. Aies- sandro Torri,, con illustrazione, nel tomo XXXVI, n° 97, anno 1838, á%\ Nuovo Giornale de' Letterati di Pisa. ' Lucio fu creato Papa nel 1181, e Urbano nel 1185. ^ L'abbondanza degli antichi monumenti serbô in Roma più che altrove certo gusto dell'arti, che doveva aiutarle ad uscire dalla barbarie. ® *11 torrione tondo rimane dietro al forno di Palazzo, nelle mura degli orti pontificj. Circa alla sagrestia di San Pietro, qualche antiquario ha creduto che fosse essa mostra un tempio più antico assai del secolo xi ; ma la struttura di la verità di quanto dice il Vasari. Gosi notava il Bottari. * Vedi interno ad essa una dissertazione epistolare del Valesio al barone di Stosch, e altri scritti posteriori. ARNOLFO Dl LAPO 277 che era di quella famiglia. Il medesimo Marchionne fini, ramio che Innocenzio III mori, la fabbrica delia Pieve d'ArezzOy e símilmente il campanile; façendo di scultura nella facciata di detta chiesa tre ordini di colonne, l'una sopra r altra molto variatamente non solo nella foggia de'capitelli e delle base, ma ancora nei fusi delle colonne essendo fra sè alcune grosse, alcune sottili, altre a due a due, altre a quattro a quattro legate insieme. Pari- mente, alcune sono avvolte a guisa di vite, ed alcune fatte diventar figure che reggòno, con diversi intagli. Yi fece ancora molti animali di diverse sorti, che reggono i pesi, col mezzo,della schiena, di queste colonne; e tutti con le più strane e stravaganti invenzioni che si possino immaginare; e non pur fuori del bueno ordine antico, ma quasi fuer d'ogni giusta e ragionevole proporzione. Ma con tutto ció, chi va bene considerando il tutto, vede che egli ando sforzandosi di far bene, e pensó per av- ventura averio tróvate in quel modo di fare e in quella capricciosa varieta. Fece il medesimo di scultura, nell'arco che ë sopra la porta di detta chiesa, di maniera barbara, un Dio Padre, con certi Angelí di mezzo rilievo assai grandi; e nell'arco intaglió i dodici mesi, ponendovi sotto il neme suo in lettere tonde come si costumava, ed il mil- lesimo, cioë l'anno 1216/ Dicesi che Marchionne fece in Roma, per il medesimo papa Innocenzio III, in Borgo Vec- chio, l'edifizio antico dello spedale e chiesa di Santo Spi- rito in Sassia, dove si vede ancora qualche cosa del vec- ^ Ció fece credere al Vasari, che Marchionne fosse l'architetto e lo scultore di tutta la facciata e del campanile. Ma il campanile, la facciata e buona parte della chiesa sono opere del 1300 (vedi gli Annali Aretini, la Descrizione d'Arezzo del Rondinelli, ecc. ); vale a dire molto posteriori a quell'artefice.— *E difatti la iscrizione non qualifica Marchionne se non come autore delle seul- ture. Avendo ottenuto dalla cortesia del sig. Ranieri Bartolini scultore un calco fedele di essa, crediamo utile qui riferirla, perché (per quanto sappiamo) da nés- suno pubblicata: anni d. m. cc. xvi. ms. {mense) madii. marchiô sculpsit. pbr matïïs {presbiter Matheus?) mvnera pvlsit. i tPb (m tempore) archipbi. z. {ArcM- presbiteri Zenonis), 278 ARNOLFO DI LAPO cilio; ed a'giorni nostri era in piedi la cliiesa antica, quando fu rifatta alia moderna, con maggiore ornamento e disegno, da papa Paulo III di casa Farnese. E in Santa Maria Maggiore, pur di Eoma, fece la cappella di marmo,* dove è il presepio di Gesù Cristo. In essa fu ritratto da lui papa Onorio III di naturale: del quale anco fece la sepoltura, con ornamenti alquanto mi- gliori, ed assai diversi dalla maniera che allora si usava per tutta Italia comúnemente.® Fece anco Marcliionne, in que'medesimi tempi, là porta del fianco di San Piero di Bologna, che veramente fu Opera in que'tempi di grandissima fattura, per i molti intagli che in essa si veggiono; come leoni tondi® che sostengono colonne, ed uomini a uso di facchini, ed altri animali che reggono ' Rifatta poi da Sisto V. ® *Nella edizione Giuntina, il passo che sotto riportiamo precede \Indice delle cose notabili del primo volume, dove il Vasari lo pose per aggiunta alla Vita d'Arnolfo, richiamandolo a questo luogo di detta Vita: « Gominciô il detto Arnolfo in Santa Maria Maggiore di Roma la sepoltura « di papa Onorio III di casa Savella, la quale lasciô imperfetta, con il ritratto « di detto papa, il quale con il suo disegno fu posto poi nella cappella maggiore « di musaico in San Paolo di Roma, con il ritratto di Giovanni Gaetano abate « di quel monasterio. « E la cappella di marmo, dove è il presepio di Gesú Cristo, fu dell'ultime « sculture di marmo che facesse mai Arnolfo, che la fece ad istanza di Pandolfo « Ipotecorvo r anno dodici, come ne fa fede un epitaffio che è nella facciata al- « lato detta cappella ; e parimente la cappella e sepolcro di papa Bonifazio VIII « in San Pietro di Roma, dove è scolpito il medesimo nome d'Arnolfo che la « lavoró. » È da notare che il Vasari con questo passo non solo volle fare un' aggiunta alie notizie di Arnolfo, che seguono ; ma volle anche ricredersi del suo detto circa ali'autore della sepoltura di papa Onorio III, da lui qui attribuita a Mar- chionne Aretino. Se non che il Cicognara, per quante ricerche e diligenze fa- cesse, nessuna iscrizione potè trovare nel sepolcro di Bonifazio VIII; nel quale egli dice, anzichè lo stile della scuola pisana, di cui Arnolfo era allievo, appa- risce quelle dei Cosmati. Il Cicognara però lesse il nome di Arnolfo in un ta- bernacolo nella Basilica di San Paolo fuori di Roma; dov'era scolpita questa iscrizione: Hoc opus fecit Arnolfus cum suo socio Petro. OjUno milleno centum bis et octuageno quinto etc. (Vedi Storia della Scultura., tom. Ill); e prima di lui il D'Agincourt, il quale ne dette un intaglio nella tavola xxiii della Scultura. ' * Questa porta scolpita da Marchionne non si vede piú; e i due leoni ora reggono le pile dell'acqua santa, poste allato la porta maggiore. Delle due ARNOLFO Dl LAPO 279 pesi; 0 neirarco di sopra fece di tondo rilievo i dodici mesi con varie fantasie, e ad ogni mese il suo segno ce- leste : la quale opera dovette in que' tempi essere tenuta maravigliosa. Nei medesimi tempi, essendo cominciata la religione de'Frati Minori di San Francesco, la quale fu dal detto Innocenzio III pontefice confermata Tanno 1208; ^ crebbe di maniera, non solo in Italia, ma in tutte T altre parti del mondo, cosi la divozione come il numero de'Frati, che non fu quasi alcuna città di conto, che non edifi- casse loro chiese e conventi di grandissima spesa, e cia- scuna secondo il poter suo. Laonde, avendo Frate Elia, due anni innanzi la morte di San Francesco, edificato, mentr'esso Santo, come generale, era fuori a predicare ed egli guardiano in Ascesi, una chiesa col titolo di Nostra Donna; morto che fu San Francesco, concorrendo tutta la cristianita a visitare il corpo di San Francesco, che in morte ed in vita era stato conosciuto tanto amico di Dio, e facendo ogni nomo al santo luogo limosina se- condo il poter suo, fu ordinato che la detta chiesa co- minciata da Frate Elia si facesse molto maggiore e più magnifica.® Ma essendo carestia di buoni architettori, ed avendo T opera che si aveva da fare bisogno d' uno eccel- lente, avendosi a edificar sopra un colle altissimo, alie radici del quale cammina un torrente chiamato Tescio; fu condotto in Ascesi, dopo molta considerazione, come migliore di quanti allora si ritrovavano, un maestro lacopo Tedesco:® il quale, considerate il sito ed intesa la volonth colonne sostenute una volta da essi leoni una sola si vede nel giardino del- r arcivescovo, con un busto di marmo sopra. Delle altre sculture non si ha piú ■memoria. ' *La regola fu confermata oralmente da papa Innocenzo III, ma formal- mente, ossia per bolla pontificia, soltanto nel 1216 da Onorio III. ^ Ció fu, per le memorie che se ne hanno, nel 1228. ' Quel che qui dice il Vasari di questo lacopo, e il credersi ch' ei fosse stato «ondotto in Italia da Federigo II, favorisce, dice il Cicognara, l'opinione di co- 280 AENOLFO DI LAPO de'Padri, i quali fecero perciò in Ascesi un capitolo ge- nerale, disegnò un corpo di chiesa e convento bellissimo, facendo nel modello tre Ordini, uno da farsi sotto terra, e gli altri per due chiese; una delle quali sul primo piano servisse per piazza, con un portico intorno assai grande; Taltra per cliiesa; e che dalla prima si salisse alla seconda per un ordine comodissimo di scale, le quali girassono intorno alia cappella maggiore, inginocchiandosi in due pezzi, per condurre più agiatamente alia seconda chiesa; alia quale diede forma d'un T, facendola cinque volte lunga quanto ell'e larga, e dividendo l'un vano dall'altro con pilastri grandi di pietra; sopra i quali poi giró archi gagliardissimi, e fra l'uno e l'altro le volte in creciera. Con si fatto, dunque, modello si fece questa veramente grandissima fabbrica, e si seguitò in tutte le parti, ec- cette che nelle spalle di sopra, cbe avevano a mettere in mezzo la tribuna e cappella maggiore, e fare le volte a creciere; perche non le fecero come si ë dette, main mezzo tonde a botte, perche fussero più forti. Misero poi dinanzi alla cappella maggiore délia chiesa di sotto l'ai- tare, e sotto quelle, quando fu finito, collocarono con so- lennissima traslazione il corpo di San Francesco. E perche la propria sepoltm^a che serba il corpo del glorioso Santo, loro, i quali sostengono che quell'architettura, in oui è fatto uso del sesto acuto, e del quale la chiesa d'Assisi è fra noi uno de' monumenti più celebri e più antichi, ci venga originaiñamente dalla Germania. Se non che di quest'architettura si hanno monumenti assai più antichi; p. e. la Badia di Subiaco, la quale è del nono secolo. Che se potesse provarsi che la chiesa già detta sia, come piace- all'autore delle Lettere Senesi (tom. I, pag. 185), opera di Niccola Pisano (il che, nelle note alla Vita di quest'artefice, vedrenm che non si puô), sarebbe invece corroborata 1' opinione di quelli che vogliono taie architettura d'origine italiana. È da notarsi intanto, che lacopo stesso fu italiano, delia Valtellina forse o de'Laghi: 1 cui artefici per lungo tempo, siccome pur dice il Cicognara, fu- rono nel resto d'Italia, ove andavano operando, chiamati tedeschi. E poichè la fabbrica della chiesa d'Assisi fu data a fare per concorso; se lacopo veramente, come attesta anche una cronaca latina di questa chiesa, ne fu l'architetto, convien dire che fosse valen''ssimo. In quella cronaca gli è dato per aiuto o per seconde architetto un Fra Filippo di Campello. — *Questi fu artefice valente, il quale architettô eziandio la fabbrica dell' antica chiesa di Santa Chiara d'Assisi. ARNOLFO DI LAPO 281 e nella prima, cioë nella più bassa phiesa, dove non va mai nessimo e che ha le porte múrate ; interno al dette altare sono grate di ferro grandissime, con ricchi orna- menti di marmo e di musaico, che laggiù riguardano/ E accompagnata questa muraglia dalfuno dei lati da due sagrestie e da un campanile altissimo, ció è cinque volte alto quanto egli ë largo. Aveva sopra una pirámide al- tissima a otto facce, ma fu levata, perchë minacciava ro- vina. La quale opera tutta fu condotta a fine nello spazio di. quattro anni e non più dalf ingegno di maestro lacopo Tedesco e dalla sollecitudine di Erate Elia: dopo la morte del quale, perchë tanta macchina per alcun tempe mai non rovinasse, furono fatti interno alia chiesa di sotto dodici gagliardissimi torrioni, ed in ciascun d'essi una scala a chiocciola che saglie da terra insino in cima. E col tempe poi vi seno state fatte molte cappelle e altri ric- chissimi ornamenti ; dei quali non fa bisogno altro rae- contare, essendo questo interno a ció per oraabbastanza; e massimamente potendo ognuno vedere quanto a questo principio di maestro lacopo abbiano aggiunto utilità, or- namento e bellezza molti sommi pontefici, cardinali, prin- cipi, ed altri gran personaggi di tutta Europa. Ora, per tornare a maestro lacopo, egli mediante questa opera si acquistó tanta fama per tutta Italia, che fu da chi governava allora la cittk di Firenze chiamato, e poi ricevLito quanto piíi non si puó dire volentieri: sebbene, seconde Tuso che hanno i Fiorentini, e più ave- vano anticamente, d'abbreviare i nomi, non lacopo, ma ^ *11 racconto di questa chiesa invisibile, creduto ciecamente da tutti e trasmesso di secolo in secolo fino ai nostri giorni, fu smentito finalmente nel 1818; nel quale anno facendosi diligenti ricerche del corpo di San Fran- cesco, si rinvenne che questa chiesa invisibile non era mai esistita; e che il corpo del santo patriarca era stato sepolto in una fossa scavata in parte nel vivo sasso del monte, ricopérta e chiusa con muri fortissimi sotto 1' altar mag- giore della chiesa inferiere. Vedi Memorie storiclie del ritrovamento delle sacre- sj)oglie di San Francesco d'Assisi; Assisi 1824, in-8., cap. 15 e 16. . 282 ARNOLFO DI LAPO Lapo * lo chiamarono in tutfco il tempo di sua vita, perche abitó sempre con tutta la sua famiglia qnesta cittk. E seb- bene ando in diversi tempi a fare molti edifizj per Toscana, come fu in Casentino il palazzo di Poppi a quel conte, che aveva avuto per moglie la bella Gualdrada ed in dote il Casentino; ® agli Aretini il Vescovado, ® ed il Palazzo Vec- chio de'signori di Pietramala; fu nondimeno sempre la sua stanza in Firenze: dove fondate, Tanno 1218, le pile del ponte alia Carraia, ° che allora si chiamò il Ponte Nuovo, le diede finite in due anni; ed in poco tempo poi fu fatto il rimanente di legname, come allora si costu- mava. E Tanno 1221 diede il disegno e fu cominciata con ordine suo la chiesa di San Salvadore del Vescovado, ® e quella di San Michele a Piazza Padella; dove sono alcune sculture della maniera di quei tempi. Poi dato il disegno di scolare T acque della citta; fatto alzare la piazza * Qui cominciano tali favole intorno a lui, che hanno persin fatto dubitare della sua esistenza. ^ *Da due documenti, Tuno del 1180, I'altro del 1190, citati dal Repetti nel suo Dizionario, airarticolo Popjpi, si ritrae che la contessa Gualdrada fu moglie di un conte Guido palatino di Toscana, che debb'essere il conte Guido Guerra V. Ma l'Ammirato ci dice che, nell'agosto del 1274, il conte Simone (di cui fu avo Guido Guerra suddetto) ottenne dai capitani di Parte Guelfa di poter fabbricare un palazzo con un castello dentro Poppi: a somiglianza del quale Arnolfo disegnó poi il palazzo de'Priori in Firenze. Tal che, se debbesi credere alie parole dello storico florentino, il Vasari cadde in errore dicendo che il palazzo di Poppi fu fatto ediflcare dal marito della bella Gualdrada, vis- suto piü d'un secolo innanzi ad Arnolfo. ® *11 Vescovado, ossia 1' odierna cattedrale, già chiesa de'Monaci Cassinensi, fu cominciata a restaurarsi dai fondamenti nel 1218 da questo lacopo o Lapo; e fu seguitata, dopo non breve interruzione, dall'architetto aretino Margaritone nel 1275. Interrotta di nuovo, fu finalmente terminata, s'ignora da quale archi- tetto, sotto il governo del celebre vescovo Guglielmino degli Ubertini, morto nel 1289. (Vedi Brizi, Guida d'Arezzo^ Rondinelli, Relazione d'Arezzo). ^ *La rôcca de'Pietramaleschi, insieme col palazzo, fu buttata a terra dai Fiorentini nel 1384, quando i flgliuoli di Pier Saccone si arresero. " *Lepidissima veramente! fondo le pile del ponte alia Carraia nel 1218, egli che venne in Firenze, chiamatovi per la riputazione che si acquistô nella fabbrica della chiesa d'Assisi, cominciata nel 1228. ® * Della prima di queste due chiese altro non rimane di antico fuor che parte della facciata; l'altra, detta San Michele degli Antinori ed oggi San Gae- taño, fu rifatta dai fondamenti nel secolo xvii con disegno del Nigetti. AENOLPO DI LAPO 283 di San Griovanni;' e fatto al tempo di messer Rubaconte da Mandella milanesa il ponte che dal medesimo ritiene il nome; e trovato l'utilissimo modo di lastricare le strade, che prima si mattonavano; face il modello del palagio ® oggi del podesta, che allora si fabbricò per gli Anziani: e mandato finalmente il modello d'una sepoltura in Si- cilia alla Badia di Monreale per Federigo imperatore, e d'ordine di Manfredi, si mori,® lasciando Arnolfo suo figliuolo, erede non mano dalla virtù che dalle facolta pa- terne.'^ II quale Arnolfo, dalla cui virtù non manco ebbe * *Due deliberazioni, del 23 gennaio e 12 aprile 1289, parlano di mattonare la piazza di San Giovanni. ( Gaye, Carteggio inédito ecc., I, 418, 419). ® *Ora palazzo del Bargello, che ebbe principio nel 1250; fu riattato nel 1292 (Gaye, Carteggio inédito, I, 423), ed ebbe ingrandimento nel 1345 sotto la di- rezione di Agnolo Gaddi, o meglio sotto Neri Fioravanti e Benci di Cione, che lo ridussero nel modo che oggi si vede. (Vedi Ricordano Malespini , cap. 137; Matteo Villani , lib. xx, cap. 46; e Vasari , nella Vita di Agnolo Gaddi). ' *Se Lapo mori al tempo di Manfredi re di Sicilia, il quale regno dal 1258 al 66, è certo che non poté essere autore di molte fabbriche che il Vasari gli attribuisce, perché esse sono posteriori ; come, per esempio, il Vescovado di Arezzo, il Palazzo Vecchio de'Pietramaleschi nella stessa città, ed altre. * *11 Del Migliore {^Fir. illustr., pag. 9) e il Manni (note al Baldinucci) certificarono quel che il Baldinucci non seppe asseverare circa al padre di Ar- nolfo, per mezzo di un privilegio concesso dalla" repubbüca florentina all'archi- tetto di Santa Reparata, dove é detto Magister Arnolfus de Colle, filius olim Camba, caput magister lahorerii et operis S. Repárate', il qual documento, ch'é dell'anno 1300, fu pubblicato dal Del Migliore, dal Moreni, e últimamente dal Gaye nel tomo I del Carteggio d'Artisti, pag. 445-46. É indubitato pertanto, che il padre d'Arnolfo fu Cambio e non Lapo, e che la patria sua fu Colle di Val d'Eisa. Di piú, da un altro documento del 1266, spettante all'allogagione del pergamo di Siena a Niccola Pisano, si ritrae che Arnolfo non fu flgliuolo di Lapo, ma suo compagno e condiscepolo sotto la disciplina del maestro Nic- cola, al quale é imposto che secum ducat Senas Arnolfum et Lapum suos discípulos, a fare quel lavoro. (Vedi Lettere Senesi, tom. I, pag. 180, e Rocu- menti per la storia delVArte senese, vol. I, p. 148). t Ora si puô credere senza pericolo d'ingannarsi, che il Vasari abbia orri- biimente confuso i fatti, i tempi e i nomi; e che di mezzo a questa confusione non si possa cavare altro di meno incerto, se non che a'tempi d'Arnolfo visse ed operó un maestro Lapo, florentino, flgliuolo di Ciuccio di Ciuto e fratello di Donato e di Goro parimente scultori, i quaii tutti nel 1272 ottennero la cittadi- nanza di Siena in benemerehza dell' opera da loro prostata nei lavori del Duomo di quella cittá; e che il detto Lapo, condiscepolo di Arnolfo e non padre suo, fu forse l'architetto di alcuni ediflzj fatti in Toscana negli ultimi anni del se- colo xiii, e ricordati qui dal Vasari. 284 ARNOLFO DI LAPO miglioramento l'achitettura, che da Cimabue la pittura avuto s'avesse, essendo nato Tanno 1232, era quando il padre mori, di trenta anni ed in grandissime crédito: perciocchè, avendo imparato non solo dal padre tutto quelle che sapeva, ma appresso Cimabue dato opera al disegno per servirsene anco nella scultura, era in tanto tenuto il migliore architetto di Toscana, che non pure fon- darono i Fiorentini col parere suo 1' ultimo cerchio delle mura della loro città l'anno 1284, e fecero seconde il di- segno di lui, di mattoni e con un semplice tetto di sopra la loggia ed i pilastri d'Or San Michele, dove si vendeva il grano; ma deliberarono, per suo consiglio, il medesimo anno che revino il poggio de' Magnoli della costa di San Giorgio sopra Santa Lucia nella via de'Bardi, me- diante un-decreto pubblico, che in dette luego non si murasse più, në si facesse alcuno edifizio giammai, at- tesochë per i relassi delle pietre, che hanno sotte gemitii d'acque, sarebbe sempre pericoloso qualunque edifizio vi si facesse: la quai cosa esser vera si ë veduto a'giorni nostri, con rovina di molti edifizj e magnifiche case di gentiluomini. L'anno poi 1285, fondo la loggia e piazza dei Priori; e fece la cappella maggiore, e le due che la mettono in mezzo, della Badia di Firenze; rinnovando la chiesa ed il coro,^ che prima molto minore aveva fatto fare il conte Ugo fondatore di quella Badia e facendo per lo cardinale Giovanni degli Orsini, legato del papa in Toscana, il campanile di detta chiesa, che fu seconde r opere di que'tempi lodato assai, come che non avesse il suo finimento di macigni se non poi l'anno 1330.® Dope * La chiesa quai or si vede ( di croce greca ) fu rifahbricata nel 1625. ^ *La fondazione di questa insigne Badia, avvenuta nel 978, si deve alia con- tessa "Willa figliuola di Bonifazio márchese di Toscana, e non al conte Ugo suo figliuolo, come, seguendo il Villani, qui ripete il Vasari. (Vedi Puccinelli, Sto- ria della Badia Florentina eco. ). ^ *Racconta Giovanni Villani, che nel 1307 avendo i monaci ricusato di pagare la imposta, chiuse le porte in faccia all'uificiale esattore, e quindi so- ARNOLFO DI LAPO 285 ció fu fondata col suo disegno, Tanno 1294, la cliiesa di Santa Croce,' dove stanno i Frati Minori; la quale con- dusse Arnolfo tanto grande nella navata del mezzo e nelle due minori, che con molto giudizio, non potendo fare sotto '1 tetto le volte per lo troppo gran spazio, fece fare archi da pilastre a pilastre, e sopra a quelli i tetti a fren- tespizio per mandar via Tacque pievane con docce di pietra murata sopra detti archi, dando loro tanto pendió, che fussero sicuri, come sono, i tetti dal pericote deirin- fracidare; la qual cosa, quanto fu nueva ed ingegnosa, tanto fu utile e degna d'essere oggi considerata. Diede poi il disegno dei primi chiostri del convento vecchio di quella chiesa; e poco appresso fece levare d'interno al templo di San Giovanni,® dalla banda di fuori, tutte l'arche e sepolture che vi erano di marmo e di macigno, emetterne parte dietro al campanile, nella facciata delta calonaca, alíate alia compagnia di San Zanohi; e riñere- star poi di marmi neri di Prato tutte le otto facciate di fuori di dette San Giovanni, levandone i macigni che nato a stormo; il Comune fece disfare questo campanile presse che alla metà; e poi soggiunge, che nel 1330 s'alzó e compiè il campanile di Badia; e per noi fu fatto fare a prego e istanza di messer Giovanni degli Orsini di Roma, cardinale e legato in Toscana, e signore délia detta Badia, e délia sua en- trata (Lib. viii, cap. 89; e lib. x, cap. 76). Il Vasari confonde le cose, dicendo che il campanile fu fatto costruire dal cardinale suddetto, mentre egli non fece altro che richiedere i Signori che fosse ristaurato. Ed ancora apparisce chiaro, che essendo Legato in Toscana il cardinale Orsini nel 1330, non poteva Arnolfo, morto molti anni avanti, lavorare quel campanile per commissione sua. ' *Lo stesso dice il Villani, sebbene la iscrizione ch'è in chiesa, e il de- creto délia'Signoria portillo l'anno 1295. (Vedi MoisÈ, Santa Croce ^ illustrata). *Giò sappiamo da Giovanni Villani, lib. viii, cap. 3; il quale dice che neU'anno 1293 « levarsi tutti i monumenti, sepolture e arche di marmo, che erano intorno a San Giovanni ». Queste arche, dice il Lami nelle Antichità To- scane, dovettero essere avelli di Gentili, come si vede dalle figure che vi sono scolpite; e di esse essersi serviti poscia i cristiani, come risulta dai coperchi appostivi più modernamente, dove sono scolpite le armi di alcune an tiche fami- glie florentine. Di questi sarcofagi alcuni furono illustrati dal Gori nelle Inscri- ptiones Antiquce, e sono quelli che al presente si vedono nell'atrio del palazzo Riccardi; oltre un altro di privato possesso de'signori di Montalvo, che si trova da molto tempo nel loro palazzo di abitazione. 286 arnolfo di lapo prima erano fra que'marmi antichi/ Volendo, in qnesto mentre, i Fiorentini murare in Valdarno di sopra il ca- stello di San Giovanni, e Castel Franco, per comedo della citta e delle vettovaglie, mediante i mercati; ne fece Arnolfo il disegno, Tanno 1295,® e soddisfece di maniera cosí in questa, come aveva fatto nelf altre cose, che fu fatto cittadino fiorentino. Dopo queste cose, deliberando i Fiorentini, come rac- conta Giovanni Villani nolle sue Istorie,® di fare una chiesa principale nella loro città, e faria tale che, per grandezza e magnificenza non si potesse desiderare nè maggiore në più bella dall' industria e potere degli uo- mini; fece Arnolfo il disegno ed il modello del non mai abbastanza lodato tempio di Santa Maria del Fiore, or- dinando che s'incrostasse di fuori tutto di marmi lavorati ^ *11 barone di Rumohr dice che il Vasari qui con troppa facilita attribut ad Arnolfo tutta la parte esteriore di questo tempio. « Arnolfo era, come tutti i suoi contemporanei, un architetto go tico: ora, non è verisimile che egli vo- lesse far risorgere quell' antica architettura già da lungo tempo dismessa, e che per imitarla si astenesse al tutto dalla propria ed allora usata maniera. Ma questa difficoltà non ha bisogno di ulterior! dichiarazioni, essendo manifesto che il Vasari ha preso tali notizie, senza troppo disaminarle, da Giovanni Vil- ■lani (lib. VIII, cap. 3). Questo storico fiorentino, quasi coetáneo d'Arnolfo, dice solamente che furono restaurat! e coperti di marmo bianco e nero i pilastri di San Giovanni: con che debbonsi intendere i pilastri ad angelo ottuso ne'cantoni deir ottagono, i quali erano prima di mattoni, e furono poi da Arnolfo rifatti di gheroni, ossia di grossi e triangolari pezzi di marmo .... Sembra altresi che il Villani riguardasse quella viziosa costruzione come un ingegnoso rimedio adoperato dall' architetto ; intanto che egli usa le parole formal! rifece di ghe- roni ecc. Imperciocchè era pur difficile il congiungere durevolmente negli angoli ottusi de'pilastri le tavole di marmo e piane, con cui tutte le mura si veggon coperte. E forse per ció avevano i prim! architetti lasciate quelle parti nude, finché non venne ad Arnolfo il pensiero di soprapporvi que'massicci gheroni, mentre ricopriva di tavole di marmo anche il tetto delia chiesa ». ( Vedi VAn- tologia di Firenze, tom. I, p. 467-68). i Ma è bene di notare che i gheroni della cupola furono rifatti come oggi si vedono, dal 1450 al 1465; come pure nello stesso tempo fu ricoperto il tetto di lamine di piombo. ^ *In un ms. in pergamena contenente gli Statut! dell'Oratorio della Madonna delle Grazie di detta terra, códice del 1486, si legge che San Giovanni fu edificato córvente I'anno 1298. E in un'antica vita di Francesco Petrarca dices! quel castello eretto nel 1300: ma è più raglonevole attenersi a Giovanni Villani, scrittore con- temporáneo, che lo dice fabbricato nel 1296 ( 8torie Fiorentine, lib. viii, cap. 17). ® Libro VIII, cap. 7. ARNOLFO DI LAPO 287 con tante cornici, pilastri, colonne, intagli di foglianai, figure ed altre cose, con quante egli oggi si vede con- dotto, se non interamente, a una gran parte almeno della sua perfezione. E quello che in ció fu sopra tutte T altre cose maraviglioso, fu questo, che incorporando, oltre Santa Keparata, altre piccole chiese e case che gli erano interno, nel fare la planta (che è bellissima) fece con tanta diligenza e giudizio fare i fondámenti di si gran fahhrica larghi e profondi, riempiendoli di buena materia, cioë di ghiaia e calcina, e di pietre grosse in fondo (Ih dove ancora la piazza si chiama: lungo i fondámenti), che eglino hanno benissimo potuto, come oggi si vede, reggere il peso della gran macchina della cupola, che Filippo di ser Brunellesco le voltò sopra.^ II principio dei quali fondámenti, e di tanto templo, fu con molta so- lennita celebrate: perciocchè il giorno della nativita di Nostra Donna del 1298, fu gettata la prima pietra dal cardinale legato del papa,® in presenza non pure di molti vescovi e di tutto il clero, ma del podestà ancora, capi- tani, priori ed altri magistrati della città, anzi di tutto il popolo di Firenze, chiamandola Santa Maria del Fiore.® ^ Hanno i fondanaenti d'Arnolfo retto il peso della cupola, come dice il Va- sari, ma non si che dopo molt'anni non abbian fatto un poco di movimento, e la cupola per tutto il suo lungo una fessura, di cui per altro i piú dotti archi- tetti mai non fecero gran caso. Ma di ció nelle note alla Vita del Brunellesco. i Parrebbe, secondo il Vasari, che la presente fabbrica del Duomo, come fu incominciata da Arnolfo, cosi fosse da lui condotta a fine nel modo che oggi si vede. Ma i moderni critici hanno potuto stabilire, mediante un più accurato ,esame delle parti che la compongono, e coll'aiuto de'documenti dell'Archivio dell'Opera, quello che rimase del primo disegno d'Arnolfo, allorchè dopo lunga interruzione la fabbrica fu ripresa nel 1357, ingrandita, e condotta a fine dal- l'architetto Francesco Talenti. Si rileva infatti che di Arnolfo furono consérvate le navate nella loro larghezza, ma che il corpo della chiesa fu accresciuto di due archi verso la facciata; che i mûri laterali furono alzati, e mutata in parte la loro decorazione esterna. ^ Pietro Valeriano di Piperno (notava il Bottari), creato cardinale da Bo- nifazio VIII. ® t Air antico nome di Santa Reparata che ebbe la cattedrale di Firenze non fu sostituito 1'altro che tuttora conserva, cioè di Santa Maria del Flore, se non nel 1412, per deliberazione de'Signori e Collegi. .288 ARNOLFO DI LAPO E perche si stimò le spese di questa fabbrica dóver es- sere, come poi sono state, grandissime; fu posta una ga- bella alia camera del Comune di quattro danari per lira di tutto quelle che si mettesse a uscita, e due soldi per testa r anno : senza che il papa ed il legato concedettono grandissime indulgenze a coloro che per ció le porges- sino limosine. Non tacerò ancora, che, oltre ai fonda- menti larghissimi e profondi quindici braccia, furono con molta considerazione fatti a ogni angelo delh otto facce quegli sproni di muraglie; perciocchè essi finrono poi quelli che assicurarono l'animo del Brunellesco a porvi sopra molto maggior peso di quelle che forse Arnolfo aveva pensato di porvi. Dicesi, che, cominciandosi di marmo le due prime porte de' fianchi di Santa Maria del Flore, fece Arnolfo intagliare in un fregio alcune foglie di fice, che erano l'arme sua e di maestro Lapo suo padre; e che perciò si può credere che da cestui avesse origine la famiglia dei Lapi, oggi nobile in Fiorenza. Altri di- cono símilmente, che dai discendenti d'Arnolfo discese Filippo di ser Brunellesco : ma lasciando questo, perché altri credono che i Lapi siano venuti da Figaruolo, ca- stello in su le foci del Po,^ e tornando al nostre Arnolfo; dice, che per la grandezza di quest'opera egli mérita infinita lode e neme eterno; avendóla, massimamente, fatta incrostare di fuori tutta di marmi di più colorí, e fatte insino le minime cantónate di quella stessa pietra. Ma perché ogn'uno sappia la grandezza appunto di questa maravigliosa fabbrica,^ dice che dalla porta insino all'ul- ' *Provato coi documenti che Arnolfo fu fígliuolo di un Cambio e non di un Lapo, cadono a terra tutte le supposizioni di coloro che immaginarono il nostro -artista disceso dai Lapi, o Lapi Ficozzi. ® Pili descrizioni pregiate si hanno questa fabhrica maravigliosa : quella di B. Sgrilli, ricca di belle e grandi tavole: quelle di O. B. Nelli, ricchissima d'erudizione, ed ove (sia dette per incidenza) si danno misure più precise che quelle date qui dai Vasari delle varie parti delia fabbrica medesima: quella di V. Follini, che empie il tomo II della sua Firenze antica e moderna, ecc. ecc. Può vedersi l'ultima, impressa magnificamente dai Molini, e attribuita a G. Del Rosso. ARNOLFO DI LAPO 289 -timo delia cappella di San Zanobi, è la lungliezza di braccia dugento sessanta, e larga nelle creciere cento sessantasei, nelle tre navi braccia sessanta sei; la.nave sola del mezzo ë alta braccia settantadue, e Paître dne navi minori braccia quarantotto; il circuito di fuori di tutta la chiesa ë braccia mille dugento ottanta; la cu- pola ë da terra insino al piano della lanterna braccia cento cinquantaquattro ; la lanterna senza la palla ë alta braccia otto; tutta la cupola da terra insino alia som- inità della crece ë braccia dugento dueP Ma, tomando ad Arnolfo, dice, che essendo tenuto, come era, eccel- lente, si era acquistato tanta fede, che niuna cosa d'iin- portanza senza il suo consiglio si deliberava : onde il me- desimo anno, essendosi finito di fondar dal Comune di Firenze P ultimo cerchio delle mura della città, come si disse di sopra essersi gia cominciato, e cosi i torrioni delle porte, ed in gran parte tirati innanzi, diede al Pa- lazzo de'Signori principio e disegno,® a simiglianza di quelle che in Casentino aveva fatto Lapo suo padre ai Conti di Poppi. Ma non potette già, comecchë magnifico e grande lo disegnasse, dargli quella perfezione che Parte ed il giudizio suo richiedevano : perciocchë, essendo state disfatte e mandate per terra le case degli Uberti, rubelli del popolo fiorentino e ghibellini, e fattone piazza, potette tanto sciocca caparbietà d'alcuni, che non ebbe forza Arnolfo, per molte ragioni che allegasse, di far si che gli fusse conceduto almeno mettere il palazzo in isquadra * *Le misure piú esatte di questo tempio si possono vedere nella nuova Guida di Firenze dell' architetto Federigo Fantozzi. Firenze 1842. *In una delle pareti della stanza d'ingresso che si presenta appena per- corso r ándito unito alia piccola porta di entratura della fabbrica dov'erano le Stinche, si vede una pittura di naaniera giottesca, allusiva al discacciamento del Duca d'Atene, nella quale è ritratta la esterna primitiva forma di Vedi questo palazzo. Cenni sulle Stinche di Firenze dell'ab. Fruttuoso Becchi dov'è (Firenze, 1839), riportata la incisione di questa pittura; e F. MoisÈ, lllustrazione stO' nico-artistica del Palazzo Vecchio eco. Vasari , Opere. — Vol. I. 19 290 ARNOLFO DI LAPO per non aver volnto chi governava, che in modo nessuna il palazzo avesse i fondamenti in sul terreno degli Uherti rnbelli; e piuttosto comportarono che si gettasse per terra la navata di verso tramontana di San Piero Scheraggio, che lasciarlo fare in mezzo della piazza con le sue mi- sure: oltre che vollero ancora che si unisse ed accoino- dasse nel palazzo la torre de'Forahoschi chiamata la torre della Vacca, alta cinquanta braccia, per uso della campana grossa; ed insieme con essa alcune cose com- prate dal Comune per cotale edifizio. Per le quali ca- gioni niuno maravigilare si dee, se il fondamento del palazzo è bieco e fuor di squadra; essendo stato forza, per accomodar la torre nel mezzo e renderla più forte, fa- sciarla interno colle mura del palazzo : le quali da Gior- gio Vasari, pittore e architetto, essendo state scoperte, l'anno 1551, per rassettare il dette palazzo al tempo del duca Cosimo, sono state tróvate bonissime. Avendo, dunque, Arnolfo ripiena la detta torre di buena materia, ad altri maestri fu poi facile farvi sopra il campanile altissimo che oggi vi si vede,^ non avendo egli in termine di due anni finito se non il palazzo; il quale poi, di tempo in tempo, ha ricevuto que'miglioramenti che lo fauno esser oggi di ■ quella grandezza e maesta che si vede. Dopo le quali tutte cose ed altre moite che fece Arnolfo, non meno comode ed utili che belle, essendo d'anni set- tanta, mori nel 1300,^ nel tempo appunto che Giovanni ' *La provvisione, colla quale il Comune Florentino decretó la fabbrica del Palazzo de'Priori, è del 30 dicembre 1298. (Vedi Gaye, Carteggio ecc., tom. I,, pag. 490). II Vasari, seguendo qui il Villani, ripete le ragioni politiche che ob- bligarono 1' architetto a costruire questo palazzo a sbieco e fuori di squadra. Ma Filippo Moisè, con plausibili, ma non incontrastabili ragioni, si oppone al detta del Vasari {lllustrazione del Palazzo de'Priori-, Firenze, 1843). ^ *La morte di Arnolfo si trova registrata a carte 12 dell'antico Nécrologie di Santa Reparata, esistente neU'Archivio dell'Opera del Duomo, con queste parole: nii idus (martii). Ohiit magister Arnolfus de l'opera di sancta Re- parata, mcccx . Sbaglia dunque il Vasari, e quanti lo seguirono, ponendo la morte di Arnolfo nel 1300. AKNOLFO DI LAPO 291 Víllani cominciò a scrivere l'istorie universali suoi. E de'tempi perche lasciò non pure fondata Santa Maria del Fiore, ma voltate, con sua molta gloria, le tre princi- pali tribune di quella, che sono sotto la cupola; mérito che di së fosse fatto memoria in sul canto delia chiesa dirimpetto al campanile, con questi versi intagliati in marmo con lettere tonde: ANNIS. MIL·LENIS. CENTVM. BIS. OCTO. NOGENIS VENIT. LEGATVS. EOMA. BONITATE. DOTATVS QVI. LAPIDEM. EIXIT. EVNDO . SIMYL. ET. BENEDIXIT PEESVLE. EEANGISCO. GESTANTE. PONTIFIGATÜM ISTVD. AB . AENVLFO . TEMPEUM. FTIT. EDIFIGATVM EGG. OPVS. INSIGNE. BEGOEANS. FLOEENTIA. DIGNE. EEGINE. GEL·I. GONSTEVXIT. MENTE. FIDELI QYAM. TY. YIEGO. PIA. SEMPEE. DEFENDE. MAEIA.* Di questo Arnolfo avemo scritta con quella brevitk, che si ë potuta maggiore la Vita; perchë, sebbene l'opere sue non s'appressano a gran pezzo alla perfezione delle cose d' oggi, egli mérita nondimeno essere con amorevole memoria celebrato, avendo egli fra tante tenebre mo- strato a quelli che sono stati dopo së la via di caminare alla perfezione.^ Il ritratto d'Arnolfo si vede di mano di Griotto in Santa Croce, a lato alia cappella maggiore, dove * t È stato creduto che questa iscrizione stabilisse che i fondamenti di S. Maria' del Fiore fossero gettati nel 1298. Ma punteggiando il primo verso in modo che il his si unisca a octo nogenis, si ha propriamente Panno 1296, che fu, secondo altre memorie, quello, in cui fu dato principio alia chiesa. ^ *Tra le opere degne di memoria, fatte da Arnolfo, è da annoverare il de- posito del cardinal di Braye, morto nel 1290, posto in San Domenico nel d'Orvieto; quale lavorò di musaico, di scultura e di architettura magníficamente. II Delia Valle vorrebbe che fosse opera di Arnolfo anche il bassorilievo colla resur- rezione dei morti nella facciata del Duomo della medesima cittá ; ma ció è un suo supposto, non convalidato dai documenti. Della sua andata a Perugia, per co- mando di Garlo I d'Angiô, a richiesta dei Perugini, faremo cenno nella notai, pag. 307 della Vita di Niccola e Giovanni, Pisani. ARNOLFO DI LAPO i Frati piangono la morte di San Francesco, nel principio della storia, in uno de'due uomini che parlano insieme/ Ed il ritratto della chiesa di Santa Maria del Fiore, cioe del di fnori, con la cupola, si vede di mano di Simon Sánese nel Capitolo di Santa Maria Novella, ricavato dal proprio di legname che fece Arnolfo. Nel che si considera, che egli aveva pensato di voltaré immediate la tribuna in su le spalle al finimento della prima cornice : laddove Filippo di ser Brunellesco, per levarle carico e farla più svelta, vi aggiunse, prima che cominciasse a voltaria, tutta quell'altezza dove oggi sono gli occhi: la quai cosa sarebbe ancora più chiara di quello che ella è, se la poca cura e diligenza di chi ha governato l'Opéra di Santa Maria del Fiore negli anni addietro, non avesse lasciato andar male l'istesso modello che fece Arnolfo, e di poi quello del Brunellesco e degli altri ' *Questa storia è tra le moite di questo luogo che oggi più non si vedono. ^ *Si attribuiscono a lui due modelli (oggi molto danneggiati dalle tarme) delle tribune della chiesa, corne stanno presentemente. Si crede che Arnolfo, nel farli, avesse l'idea di dimostrare per intero la fabbrica; essendo memoria nel- l'Opéra, per tradizione di uomini vecchi, che vi fosse anco parte della navata latérale. NICCOLA E GIOVANNI 293 SCULTOKI ED AECHITETTI PISANI ( II primo, nato tra il 1205 e il 1207 ; morto nel 1278 : r altro j nato nel 1250 in circa ; morto dopo il 1328 ) Avendo noi ragionato del disegno e délia pittura nella Yita di Cimabue, e deir architettura in quella d'Arnolfo Lapi, si tratterà in questa di Niccola e Giovanni Pisani délia scultura, e delle fabbriche ancora che essi fecero di grandissima importanza: perche, certo, non solo corne grandi e magnifiche, ma ancora come assai bene intese, meritano T opere di scultura ed architettura di costero d'essere celebrate; avendo essi in gran parte levata via, nel lavorare i marmi e nel fabbricare, quella vecchia maniera greca, goffa e sproporzionata; ed avendo avuto ancora migliore invenzione nelle storie, e dato aile figure migliore attitudine. Trovandosi dunque Niccola Pisano sotto alcuni scultori greci che lavorarono le figure e gli altri ornamenti d' intaglio del Duomo di Pisa e del tempio di San Giovanni;^ ed essendo fra moite spoglie di marmi * *Nacque Niccola da un Pietro da Siena, figliuolo di Biagio Pisano ; il quale, perché nei documenti del tempo ha il titolo di Sere, puó credersi che fosse un notaio. Rispetto all' anno della sua nascita, varie furono le congetture degli scrittori; ma non potevano essi circoscriverle entro si brevi confini da fermare il giudizio degli eruditi. Viene ora fuori una iscrizione della fontana di Perugia, di cui parleremo più sotto; dove un verso, per disgrazia non in- 294 mCCOLA E GIOVANNI, PISANI stati condotti dalFarmata de'Pisani, alcuni pili antichi, che sono oggi nel Campo Santo di qnella citta ; uno ve n'aveva fra gli altri bellissimo, nel quale era scolpita la caccia di Meleagro e del porco Calidonio con bellissima maniera, perche cosi gfignudi come i vestiti erano la- vorati con molta pratica e con perfettissimo disegno. Questo pilo, essendo per la sua bellezza stato posto dai Pisani nella facciata del Duomo, dirimpetto a San Eocco, allato alia porta di fianço principale, servi per lo corpo delia madre delia contessa Matelda;^ se però sono vere queste parole che intagliate nel marmo si leggono: tiero, farebbe sospettare che a quel lavorio, fatto ai tempi di papa Niccolô III, che governo dal 1277 all'80, Niccola nelF età di 74 anni, insieme col figliuolo, presiedesse. La quale interpretazione se non potesse esser soggetta a dubbio, ci darebbe l'anno della nascita di Niccola fra il 1205 e il 1207. Determinazione, come ognun vede, importantissima, per meglio fissare in molta parte la crono- logia artistica di questo fondatore di una nuova scuola italiana. i II primo ad aífermare che Niccola nacque da un Pietro da Siena figliuolo d'un Ser Biagio pisano, fu il Ciampi nelle Notizie inedite della Sagrestia Pi- stoiese de'Belli Arredi ecc., Firenze, Molini, 1810 in-4, giovandosi di due do- cumenti dell'Archivio di Sant'Iacopo di Pistoia, oggi riunito all'Archivio Comu- nale di quella città. Egli lesse infatti nel primo dell' 11 di luglio 1272 : magister Nichola pisantes filius q. Petri de.... (la carta è lacera, ma il Ciampi suppli la lacuna colla parola Senis)-, e nell'altro del 13 di novembre 1273: Magistro Nichole quondam Petri de Senis ser Blasii pisani .... ( altra lacuna per la lacerazione della pergamena). Ma noi avendo avuto comodità di rivedere gli originali di que' documenti, ci siamo accorti, non senza maraviglia, che quel dotto pistoiese aveva arbitrariamente suppli to aile lacune del primo, e letto maie il seconde, il quale, sciolte le sue abbreviature, dice veramente cosi : magistro Nichole quondam Petri de cappella Sancti Blasii pisa.... Ora è chiaro che il Ciampi lesse de Senis dove è scritto de Capella, e ser Blasii invece di Sancti Blasii, e cosi diede a Niccola per padre un Senese, e per avolo un ser Biagio pisano: il che, come si vede, è privo di fondamento. Perció con più verità oggi si deve dire che Niccola nacque da un Pietro pisano, ed abitó nella cappella o parrocchia di S. Biagio di Pisa. * II sarcófago che racchiude le ceneri della madre della contessa Matilde, giá posto nel Campo Santo Pisano, poi incassato in una delle muraglie laterali del Duomo, poi restituito (nel 1810) al Campo Santo ond'erasi tolto, rappre- senta, non la caccia di Meleagro, o, com'altri imaginó. Atalanta invitata alia caccia dal figliuolo d'Ocno; ma, come opinano i piú intelligenti, la storia d'Ip- polito e Fedra: di che vedi 1'illustrazione fattane dal Ciampi, le Lettere sul Campo Santo del Rosini e del De Rossi, ecc. Esso è lavoro greco e stupendo, benchè assai danneggiato. Quello che rappresenta veramente la caccia di Me- leagro , e che pur trovasi nel Campo Santo, è lavoro romano. — *La storia di NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 295 Anno domini mcxvl ix Kal. Aug. ohiit D. Matilda memoriœ felicis comitissa, guœ pro anima genitricis suce Dominai Beat^ñcis comitissœ venerabilis, in hac tumba honorabili scentis, in multis guie- partibus mirifice hanc dotavit ecclesiam: rum animce gua- reguiescant in pace, E poi : Anno Domini mccciii. sub dignissimo operario Burgundio Tadi, occasione fiendoi'um graduum per ipsum circa ecclesiam supradictam, tumba superius notata bis translcda fuit, tunc de sedibus in ecclesiam, primis nunc de ecclesia in hunc locum, ut ■excellentem. cernitis, Mccola, considerando la bontà di qnest^ opera e cendogli pia- fortemente, mise tanto studio e imitare diligenza per quella maniera, ed alcune altre buone sculture che erano in quegli altri pili antichi, che fn giudicato, non passò molto, il migliore scultore de'tempi suoi, non essendo stato in Toscana in quoi tempi dopo Arnolfb ^ in pregio niuno altro scultore che Fuccio, architetto e seul- tore fiorentino,® il quale fece Santa Maria sopra Arno in questo insigne monumento si ha in una iscrizione dettata dal posta nello stesso prof. e sarcófago, quando Ciampi, nel 1810 fu tolto dalla facciata del e traspórtate nel Campo Santo. Duomo, Questa iscrizione si trova a zione del 1150 Vasari délia fatta pag. edi- in Firenze nel 1832-38. ' Parrebbe da queste parole, che Arnolfo, il quale fu fosse a lui di anteriore. discepolo Niccola, ^ Ecco una delle più vaghe favolette che in Vite Baldinucci queste sieno la narrate. Il ricopiô; il Bottari la confutó, ma con altra Alíate favoletta « alla bella. porta di Santa piú Maria pietra sopr'Arno, egli disse, è un quest' iscrizione arco di che sopra dice ; Fuccio mi feci ; ch' è stato letto roncamente. E di ma qui fece, er- nacque che Fuccio ne fu creduto 1' íione architetto. Ma 1' accenna che ivi si iscri- nascose uno, che, tróvate dalla corte del notte, si finse ladro Bargello di per non vituperare una alia quivi, gentildonna, cui poichè Fuccio (vedi posta stava Dante, Inf. 24) era un famoso ladro » come ec. II osserva il Cicognara, allude Bottari, qui finto, probabilmente al fatto notissiiho o non importa) d'Ippolito Buondelmonti (vero e Dianora fatto, de'Bardi. essendo Or del secóle xiv,nonpuò questo Non servirgli a spiegare un'iscrizione puó del xiii. nemmen servirgli il passo, a cui Ule il egli allude, di di Dante; nome Fuccio, poichè, grazie al gran furto supposto ricordato da antonomastico Dante, fosse divenuto pe'ladri; e quel furto non avvenne che nel scoperto che nel 1293, anzi 94 non fu ; come mai quel nome Non poteva essere perció antonomastico direm nel noi ch' 93 ? esse sia nome d' architetto o •chiesa di scultore. Che piccolissima, né delle la cui poche antichita si era conservata, rimodernandola. 296 NICCOLA E GIOVANNI, PISANI Firenze, Tanno 1229, mettendovi sopra una porta il nome suo ; e nella chiesa di San Francesco d'Ascesi, di marmo, la sepoltura della regina di Cipri con molte figure, ed il ritratto di lei particolarmente a sedere sopra un leone per dimostrare la fortezza dell'animo di lei, la quale dopo la morte sua lasciò gran numero di danari, perche si desse a quella fahhrica fine.* Niccola dunque, essen- dosi fatto conoscere per molto miglior maestro che Fuccio non era, fu chiamato a Bologna Taimo 1225, essendo morto San Domenico Calagora primo istitutore delT Or- dine de'Frati Predicatori, per fare di marmo la sepoltura l'iscrizione giá detta, fu mai insigne per architettura o per sculture ; nè Tiscri- zione, che tuttor vi si legge (benchè il Gícognara dica il contrario), posta al sommo di una porta, é scolpita o accompagna opera di scultura, ma dipinta e la ridipinta, come l'arme della città, che è sotto. Quindi Fuccio che fece chiesa,, o fecie, come doveva essere scritto an ticamente, puô credersi colui che fece rifare e che vi la chiesa (giá fatta, giusta un documento citato dal Moreni, nel 1180); lavoró, e del quale, come vedremo, non si parla in alcun'antica memoria. Intorno questo tanto disputato Fuccio, uoi propendiamo a credere che- i a egli sia vissuto dopo Niccola Pisano. La chiesetta di S. Maria Sopr'Arno, stata distrutta pochi anni sono per fare il nuovo lungarno Torrigiani, potrebbe essere stata rifatta o restaurata da lui ne' primi anni del 1300. E la forma delle lettere- della detta iscrizione, che oggi si vede nel Museo Nazionale, è certamente di quel secolo. Forse questo Fuccio non fu l'architetto, ma solamente il soprastante alia restaurazione della detta chiesa. Ad un Fuccio d'Amadore, che potrebbe ben Firenze commise essere quelle stesso nominate dal Vasari, la Signoria di il 7 di febbraio 1327 di restaurare il lastrico del ponte di Rubaconte, ossia delle- Grazie. La deliberazione dice cosi : Domini Priores artium et Vexillifer lusti- tie stantiaverunt quod Camerarii Camere dent — Fuccio Amadoris libras — — sexaginta florenorum parvorum, pro ipsis — expendendis in reparando et aptare faciendo, seu lastricando pontem Ruhacontis, qui ut asseritur, adeo est dirutus et devastatus, quod super eo commode transiri non potest, maxime tempore pluviali. (Archivio di State in Firenze; Provvisioni de'Consigli mag- giori del Gomune di Firenze, vol. 22, c. 61'), ' Ghi fosse questa regina di Gipri, non si sa. Nella Gronaca del convento di Assisi altre volte citata, essa chiamasi Ecuba; ma qui la Gronaca non sembra meritare alcuna fede. Ben sembra meritarla interissima, ove la dice morta nel 1240, cioè, undid anni dopo il tempo in cui il Vasari dice fatta la sua se- poltura; e quindi nè dal suo Fuccio, di cui la Gronaca non dice nulla, nè da altro artefice anteriora a Niccola. Lo stile stesso di questa sepoltura ha alcun che della scuola di questo maestro, e fa pensare a qualche opera del figliuolo, della si dirà. Mal dunque non si apporrebbe chi la credesse opera di quale poi Lapo, o d'altro non piú valante de'suoi allievi, poich'essa, per vero dire, è- assai mediocre. NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 297 • del dette Santo:' onde, convenuto con chi aveva di cio la cura, la fece plena di figure in quel modo ch' ella ancor oggi si vede, e la diede finita Tanno 1231, con molta sua lode, essendo tenuta cosa singolare, e la migliore di quante- opere infino allora fussero di scultura state lavorate. Fece símilmente il modello di quella chiesa, e d' una gran parte del convento.® Dopo ritornato Mccola in Toscana, trovo die Fuccio s'era partite di Firenze, ed andato in que'giorni die da Onorio fu coronate Federigo imperatore,® a Roma, e di Roma con Federigo a Napoli; dove fini il castel di Capoana, oggi detta la Vicaria, dove sono tutti i tribu- nali di quel regno; e cesi Castel deirUovo: * e dove fonda * *San Domenico Guzman, nativo di Galaroga o Caiaruega, e non come scrive Calagora il Vasari, avea cessato di vivare a' 6 di agosto del 1221. Soltanto nel 1234 vanne ascritto al novero dei Santi. Non ara partante verisimile che Niccola Pisano, nel 1225, coma si legge nel Vasari, scolpisse l'urna marmórea del Santo ove è effigiata la sua vita e i suoi miracoli. Dalla Cronaca del convento di Santa Catarina di Pisa dei Frati Predicatori, che in breve vedrá la luce del per le cure ch. prof. Bonaini xí&WArchimo Storico Italiano (tom. VI), apparisce come soltanto al tempo delia seconda traslazione del corpo di San Domenico, avvenuta. a'5 di giugno dei 1267, le sacre reliquia fossero collocate entro un' urna marmórea scolpita da Niccola Pisano ; e che questo scultore avesse per aiuto in quel lavoro il suo discepolo Fra Guglielmo da Pisa, laico domenicano. Le parole dalla Cronaca sono le seguenti: Hic ( fr. Gulielmus ), cum beati Dominici corpus sanctissimum in sollempniori tumulo levaretur, quem sculpserant (sic) magistri Nicole de PisiSj Policretior manu, sociatus dicto architectori, ecc. II P. Marchase, che ne ha scritto a lungo nelle Memorie degli Artisti Domenicani (vol. I, lib. i, cap. V e iv), è d'avviso, che opera di Niccola siano le sculture che ornano la parte anteriora del monumento, e le due laterali ; e che appartengano alio seal- pello di Fra Guglielmo quelle dalla parte posteriora, che sono molto piú debolr nella esecuzione. Congettura altresi, che il tempo, in cui vennero incominciate,. si debba fissare o sul terminare del 1265, o nei primi del 1266; perciocchè ar 29 setiembre di detto anno 1266 (s. c. 1265) Niccola era giá in Pisa, e fermava il , contralto per iscolpire il ' pulpito di Siena, che dovea eseguire in un solo anno. Intorno all'urna di San Domenico in Bologna, può leggersi ancora un importante- opuscolo del ch. marchase Virgilio Davia. Vedi la seconda edizione del 1842. ^ *L'antichissima chiesa di San Domenico di Bologna, eretta con di disegno Niccola, e nella quale il figlio Giovanni fece la cappella maggiore, dopo su- bite parziali innovazioni, fu totalmente rimodernata nei primi del secolo passato- par ordine del pontefice Benedetto XIII. ® *Ciô fu nel 1221. Si noti con quan to disordine e con quanta confusione- di tempi e di fatti sia distesa questa Vita di Niccola Pisano. ' * * Castel Capuano, giá stato cominciato da Guglielmo I, e nel 1231 com- pito da Federigo II, fu nel 1540 da Pietro di Toledo convertito in sede de'Tri- 298 NICCOLA E GIOVANNI, PISANI similmente le torri, face le porte sopra il fiume del Vol- turno alla città di Capua, un barco cinto di mura per r uccellagioni presse a Gravina, e a Melfi un altro per le cacee di verno ; oltre a inolte altre cose che per bre- vità non si raccontano. Mccola intanto, trattenendosi in Firenze, andava non solo esercitandosi nella scultura, ma neirarchitettura ancora, mediante le fabbriche che' s' andavano con un poco di buen disegno facendo per tutta Italia, e particolarmente in Toscana. Onde si adoperó non poco nella fabbrica della Badía di Settimo, non stata finita dagli esecutori del conte ügo di Andeborgo, come le altre sei, seconde che si disse di sopra/ E sebbene si legge nel campanile di detta Badía, in un epitaífio di marmo: Giigliel. me fecit, si conosce nondimeno alia maniera, che si governava col consiglio di Hiccola:^ il quale, in que'medesimi tempi, fece in Pisa il palazzo degli Anziani vecchio; oggi state disfatto dal duca Cosimo per fare nel medesimo luego, servendosi d'una parte del vecchio, il magnifico palazzo e convento della nueva religione de' ca- valieri di Santo Stefano, col disegno e modello di Giorgio Vasari aretino, pittore ed architettore; il quale si è ac- comodato, come ha potuto il meglio, sopra quella mura- glia vecchia, riducendola alia moderna. Fece similmente bunali. Gastel deirUovo, fondato nel 1154 dallo stesso Guglielmo, ebbe il suo ■compimento da Federigo II nel 1221. 11 primo disegno di ambedue i castelli fu di Buono architetto, come nella Vita di Arnolfo ha detto il Vasari, e che alcuni scrittori vogliono napoletano. * *Non ci sono prove per sostener I'opinione invalsa in antico, ed abbrac- -ciata da molti scrittori, che il conte Ugo, malamente detto di Andeburgo, giac- che si può credere toscano, fondasse queste sette Badie. E rispetto a quella di Firenze, avvertimmo ciò nella nota 2, pag. 284 della Vita di Arnolfo. ^ *A questa asserzione del Vasari pare che contradica il Repetti, il quale, nel suo Bizionario, all'articolo Ahhadia a Settimo, riferisce che in una pietra di esso campanile trovansi solamente queste lettere : glasitdno ( Gloria sit Bo- mino). E prima di lui il Manni, in una nota ai Discorsi di Vincenzo Borghini (tom. I, pag. 133), aveva osservato che la iscrizione non dice come la riporta il Vasari, ma in vece comitis Guielmi tempore fecit \ che è il nome di uno dei donatori, e non dell'architetto di quella Badia. NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 299 Mccola in Pisa molti altri palazzi e chiese: e fu il primo, essenclosi smarrito 11 buon modo di fabbricare, che mise in uso fondar gli edifizj a Pisa in sui pilastri, e sopra quelli voltaré archi, avendo prima palificato sotto i detti pilastri; perche facendosi altrimenti, rotto il primo piano sodo del fondamento, le muraglie calavano sempre; dove il palificare rende sicurissimo Tedifizio, siccome la spe- rienza ne dimostra. Col suo disegno fu fatta ancora la chiesa di San Michele in Borgo, de'monaci di Camaldoli.^ Ma la più bella, la più ingegnosa e più capricciosa archi- tettura che facesse mai Niccola, fu il campanile di San Me- cola di Pisa, dove stanno Frati di Sant'Agostino: percioc- chè egli è di fuori a otto facce, e dentro tondo, con scale che girando a chiocciola vanno insino in cima, e lasciano dentro il vano del mezzo libero ed a guisa di pozzo; e sopra ogni quattro scaglioni sono colonne che hanno gli archi zoppi, e che girano interno interno; onde, posando la salita della volta sopra i detti archi, si va in modo sa- lendo insino in cima, che chi è in terra vede sempre tutti quelli che sagliono; coloro che sagliono, veggion coloro che sono in terra; e quei che sono a mezzo, veggono gli uni e gli altri, cioë quei che sono di sopra e quei che sono a basso. La quale capricciosa mvenzione fu poi, con mi- glior modo e più giuste misure e con più ornamento, messa in opera da Bramante architetto a Boma, in Bel- vedere, per papa Giulio 11; e da Antonio da Sangallo, nel pozzo che ë a Orvieto, d' ordine di papa Clemente VII; come si dirà quando fia tempo.® Ma tornando a Mccola, il quale fu non meno eccellente scultore che architettore, ' *Fondata, come si vuele , nel 1018, fu amplíala nel 1219; poi nel 1262, ed infine nel 1304, col disegno di Fra Guglielmo da Pisa, scolare di Niccola Pisano. ^ *Alla singolarità della scala di questo campanile, imitata poi da moUi altri architetti, si aggiunge quella della sua notabile divergenza dalla perpendi- Colare; la qual pendenza attribuita da alcuni al cedimento del suolo, da altri si crede piuttosto fatta ad arte. 300 NICCOLA E GIOVANNI, PISANI egli fece, nella facciata della chiesa di San Martine in Lucca, sotto il portico che ë sopra la porta minore a man manca entrando in chiesa, dove si vede un Cristo deposto di croce, una storia di marmo di mezzo rilievo, tutta piena di figure, fatte con molta diligenza, avendo traforato il marmo e finito il tutto di maniera, che diede speranza a coloro che prima facevano V arte con stento grandisshno, che tosto doveva venue chi le porgerebhe con pm facilita migliore aiuto/ H medesimo Mccola diede, l'anno 1240, il disegno della chiesa di SanCIacopo di Pistoia,® e vi mise a lavorare di musaico alcuni maestri toscani, i quali fe- cieno la volta della nicchia; la quale, ancora che in que'tempi fusse tenuta cosí difficile e di molta spesa, noi più tosto mueve oggi a riso ed a compassione che a ma- raviglia: e tanto più che cotale disordine, il quale pro- cedeva dal poco disegno, era non solo in Toscana, ma per tntta Italia; dove molte fahhriche ed altre cose, che si lavoravano senza modo e senza disegno, fanno cono- scere non meno la povertà degli ingegni loro, che le smi- surate ricchezze maie spese dagli uomini di quei tempi, per non avere avuto maestri che con buena maniera con- ducessino loro alcuna cosa che facessero. Mccola, dunque, 1 *Questa si dice fatta nel 1233, ed ha, nell'architrave che opera g^li sta sotto, uii'adorazione de're magi, attribuita a Giovanni da Pisa. (Vedi Guida di Liícca ). t È errore il dire che quest'opera, lodata dal Cavalcaselle (op. cit. p. 208), sopra tutte le altre uscite dallo scarpello di Niccola e di Giovanni, sia del 1233. si Questo millesimo che si legge sulla párete del portico di San Martino, non puô in nessun modo riferire alla scultura de'Pisani, ma più veramente all'in- nalzamento del detto portico. ^ *È di il Tolomei, e ne porta buone ragioni, che Niccola sia parera stato soltanto 1'architetto della volta della nave di mezzo, dell'altra a co^nu epístoles, e forse ancora dell'antica nicchia del coro; nella cui demolizione, fatta nel 1599, andarono perduti i musaici che il. Vasari nomina qui ap- presso. 1 Niccola si allogô con strumento degli 11 di luglio 1272 a restaurare l'al- tare di Sant' lacopo di Pistoia. E perciò si puô credere che 1' andata sua colà fosse piuttosto in quel tempo, che nel 1240, come affermi^ il Vasari. (Vedi Ciampi, Notizie ecc., a pag. 122). NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 301 per r opere che faceva di sciiltura e d'architettura, an- dava sempre acqnistando inigiior nome che non facevano gli scultori ed architetti che allora lavoravano in Roma- gna: come si pnò vedere in Sant'lppolito e San Giovanni di Faenza, nel Duomo di Ravenna, in San Francesco, e nelle case de'Traversait e nella chiesa di Porto; ed in Arimini, nell'abitazione del palazzo pubblico, nelle case de'Malatesti ed in altre fabbriche; le quali sono molto peggiori che gli edifizj vecchi fatti ne' medesimi tempi in Toscana/ E quello che si è detto di Romagna, si pnò dire anco con verita di una parte di Lombardia. Veggiasi il Duomo di Ferrara^ e l'altre fabbriche fatte dal márchese Azzo, e si conoscera cosi essere il vero; e quanto siano differenti dal Santo di Padoa, fatto col modello di Nic- cola,® e dalla chiesa dei Frati Minori in Yenezia; fab- briche amendue magnifiche ed onorate. Molti nel tempo di Mccola, mossi da lodevole invidia, si misero con piti studio alia scultura che per avanti fatto non avevano ; e particolarmente in Milano, dove concorsero alia fab- brica del Duomo molti Lombardi e Tedeschi, che poi si sparsero per Italia per le discordie che nacquero fra i Milanesi e Federigo imperatore/ E cosi cominciando questi artefici a gareggiare fra loro, cosi nei. marmi come ' Non si puô vedere ( son parole del Bottari ) delle quel che dice il nostro autore goffezze degli antichi architetti, perché quasi tutte le fabbriche che qui egli nomina, son rovinate o guaste o rimodernate. Ben può vedersi anche in inolte fabbriche de'tempi nostri quel ch'ei dice piú versi sopra; cioè che sono fatte con molta spesa e con poco sapere. ^ Fu rifatto verso la metà del secolo scorso. ® *« Nessuna iscrizione, nessuna memoria neir contemporánea, nessun documento archivio del Santo, conforma l'asserzione del Vasari. Solo mezzo a raccer- tare questa opinione, sarebbe trovare in questa basilica lo stile conforme allé altre opere di Niccola; ma lo stile invece fa pensare tutt'altro. Quando io esa- mino i pergami di Siena e di Pisa, e le architetture non dubbie di Niccola, vi ravviso maniere ben differenti, cosi nel concetto come negli ornamenti » ( Sbl- VATioo; Guida di Padova -per gli Scienziati). ' *Qui si deve intendere del piú antico Duomo di di Milano, il quale ai tempi Federigo II o s'ingrandiva o si fondava di nuovo. 302 NICCOLA E GIOVANNI, PISANI nelle fabbriche, trovarono qualclie poco di buono. Il me- desimo accadde in Firenze, poi che furono vedute 1'opere d'Arnolfo e di Niccola: il quale, mentre che si fabbri- cava col suo disegno, in su la piazza di San Giovanni, la chiesetta della Misericordia, vi fece di sua mano in marmo una Nostra Donna, un San Domenico ed un altro Santo, che la mettono in mezzo; siccome si può anco veder nella facciata di fuori di detta chiesa/ Avendo al tempo di Niccola cominciato i Fiorentini a gettare per terra molte torri, gia state fatte di maniera barbara per tutta la citta, perche meno venissero i popoli, me- diante quelle, offesi nelle zuffe che spesso fra' Guelfi e Ghibellini si facevano, o perché fusse maggior sicurth del pubblico ; gli pareva che dovesse esser molto difScile il rovinare la torre del Guardamorto, la quale era in su la piazza di San Giovanni, per avere fatto le mura cosi gran presa, che non se ne poteva levare con i picconi, e tanto più essendo altíssima: perche, facendo Mccola tagliar la torre da piedi da uno de' lati, e fermatala con puntelli corti un braccio e mezzo, e poi dato lor fuoco, consumati che furono i puntelli, rovinò e si disfece da së quasi- tutta ; il che fu tenuto cosa tanto ingegnosa ed utile per cotali affari, che ë poi passata di maniera in uso, che, quando bisogna, con questo facilissimo modo si rovina in poco tempo ogni edifizio/ Si trovó Mccola ^ *Della Misericordia vecchia, oggi parte del Bigallo. La Madonna, con San Domenico e Santa Maria Maddalena, che esistono sempre dentro ad altret- tanti tabernacoli, sopra la prima areata a tramontana, sono di altra mano, cioè di un Filippo di Cristoforo e del 1413. La Madonna con due Angelí nell'Ora- torio è di Alberto Arnoldi. ^ *La torre del Guardamorto fu cosi detta, perché in essa era una stanza, dove per un corso di ore determinate si guardavano, ossia custodi vano, i ca- daveri da seppellire in San Giovanni ; e per 120 braccia sorgeva all' entrare del corso degli Adimari. Nel 1248, i Ghibellini avendo, per odio ai Guelfi, gettato a terra molte torri di loro, a disfare questa saldissima usarono dell'ingegnoso modo che il'Vasari dice invéntate da Niccola Pisano; coll'intendimento che, ca- dendo, rovinasse sopra la chiesa di San Giovanni, dove i Guelfi facevano molto NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 303 alia prima fondazione del Duomo di Siena, e disegnò il templo di San Giovanni nella medesima città ^ ; poi, tor- nato in Firenze, Tanno medesimo che tornarono i Guelfi, disegnò la chiesa di Santa Trinita,^ edil monasterio delle donne di Faenza^ oggi rovinato per fare la cittadella.® Essendo poi richiamato a Napoli, per non lasciar le fac- cende di Toscana, vi mandó Maglione suo creato, seul- tore ed architetto: il quale fece poi, al tempo di Currado, la chiesa di San Lorenzo di Napoli; fini parte del Pi- scopio,^ e vi fece alcune sepolture, nelle quali imitó forte la maniera di Mccola suo maestro. Mccola intanto, es- capo di loro; ma per buona ventura, quando venne a basso schivô la chiesa, e rivolsesi, e cadde per lo diritto delia piazza; e il batistero rimase inoffeso. (Vedi G. ViLLANi, lib. vi, cap. 34). ' *11 Vasari che asserisce aver Niccola, nel 1240, dato il disegno del Duomo di Siena, pare che cada poi in contradizione, allorchè vuole che i Senesi fossero mossi ad allogargli il pergamo del loro Duomo dalla fama che egli si era acqui- stata per quello di Pisa : perché per giudicare del mérito dell' arteflce pisano non era bisogno ai Senesi di questa prova, se già vent'anni innanzi avevano avuto campo di conoscere e di esercitare 1' ingegno di lui nella edificazione della loro principal chiesa. II tempio di San Giovanni poi fu fondato'dopo il 1300, come sará detto piú sotto. ^ *Nel 1250, secondo il Villani e l'Ammirato. ® *La cittadella di San Giovan Batista, detta Fortezza da basso. Ma è da osservare che di questo monastero, fondato nel 1281, non poteva fare il disegno Niccola, morto nel 1278, come dice lo stesso Vasari. *La chiesa di San Lorenzo martire fu eretta da Cario I d'Angiô nel 1266, per voto della vittoria riportata sopra a Manfredi; e non giá ai tempi di Cor- rado, come per errore narra il Vasari. Interrotta, si ripigliò da Garlo II e si dice coir opera dell'architetto Masuccio, e l'edifizio non si vide compiuto se non piú tardi dell'anno 1324. La parte che v'ebbe Masuccio è tanta, che il tempio puô dirsi piú da lui che da Maglione architettato. Ma, sventuratamente, per i danni operati in quella fabbrica dai distruttori e rifacitori, oggi non restaño d'antica architettura che la porta maggiore e le nove cappelle della tribuna. II Piscopio poi, cioé Tantico vescovado di rito greco, fu basilica dedicata a Santa Restituta, ed eretta verso Tanno 334 di nostra salute. Sugli avanzi di questa basilica. Carlo I nel 1272 gettò le fondamenta del Duomo; che poi Carlo II continuó, tra il 1286 e il 1309; e che, verso il 1321, il re Roberto compi col disegno e col- T opera di Masuccio napoletano. Ai primi lavori d'edificazione è probabile che qui alluda il Vasari. ( Vedi Guida di Napoli pel congresso del 1845 ). t Quanto agli architetti Maglione, Masuccio primo e secondo, a'quali si at- tribuiscono i soprannominati edifizj, si ha molta ragione di dubitare che non sieno mai esistiti. La storia delle arti napoletane in questi antichi tempi, e per quasi un secolo dopo, è piena di favole, d'oscurità e d'incertezze. 304 NICCOLA E GIOVANNI, PISANI sendo chiamato dai Volterrani Tanno 1257 che vennono sotto i Fiorentini, perche accrescesse il Duomo loro, che era piccolo; eglilo ridusse, ancorche storto molto, ami- glior forma, e lo fece più magnifico che non era prima. Foi ritornato finalmente a Pisa, fece il pergamo di San Gio- vanni di marino, ponendovi ogni diligenza per lasciare di se memoria alla patria; e fra l'altre cose, intagliando in esso il Giudizio universale, vi fece moite figure, se non con perfetto disegno, almeno con pacienza e dili- genza infinita; come si può-vedere. E perche gli parve, come era vero, aver fatto opera degna di lode, v'intaglio a pie questi versi: Anno milleno centum his bisque trideno Hoc opus insigne sculpsit Nicola Pisanus. ' I Sanesi, mossi dalla fama di quesF opera, che piacque molto non solo a' Pisani, ma a chiunque la vide, alloga- rono a Mccola il pergamo del loro Duomo, dove si canta r evangelio, essendo pretore Guglielmo Mariscotti: nel quale fece Niccola molte storie di Gesù Cristo con molta sua lode, per le figure che vi sono lavorate e con molta difficultà spiccate intorno intorno dal marmo.^ Fece si- milmente Niccola il disegno delia chiesa e convento di San Domenico d'Arezzo, ai signori di Pietramala che lo edificarono; ed ai preghi del vescovo degli Ubertini re- ' *11 Vasari non riportô intera la iscrizione, la quale è quesl^a: Anno milleno bis centum bisque triceno Hoc opus insigne sculpsit Nicola Pisanus. Laudetur digne tam bene docta manus. ^ *Lo strumento d'allogazione del pergamo del Duomo di Siena è de'29 ■«ettembre 1266; al tempo di Fra Melano, moñaco cisterciense, operaio del- r Opera di Santa Maria. A questo lavorio ebbe in aiuto Arnolfo e Lapo suoi discepoli, e senza forse anche Giovanni suo figliuolo. Vedi il documento pub- blicato nel tom. I delle Lettere Senesi, dal Rumhor, Ricerche Italiane {Ita- lienische Forschungen), da Gaetano Milanesi nel vol. I, pag. 149 dFRocumenti per V arte Senese. Guglielmo Marescotti da Bologna fu pretore di Siena, cioè potestà, nel 1268; mentre nel 1265 stile comune (1266 stile pisano), quando fu allogato il lavoro del pergamo, era potestà Ranieri d'Andréa da Perugia. NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 305 staurò la pieve di Cortona, e fondo la chiesa di Santa Mar- gherita pe' Frati di San Francesco in sul più alto luogo di quella città/ Onde, crescendo per tante opere sempre più la fama di Mccola, fu l'anno 1257 chiamato da papa Clemente IV a Viterbo; dove, oltre a moite altre cose, restauró la chiesa e convento de' Frati Predicatori. Da Vi- terbo ando a Napoli al re Garlo I; il quale, avendo rotto e morto nel pian di Tagliacozzo Ourradino, fece fare in quel luogo una chiesa e badia ricchissima, e seppellire in essa V infinito numero de' corpi morti in quella gior- nata; ordinando appresso, che da molti monaci fusse giorno e notte pregato per l'anime loro. Nella quai fab- brica restó in modo soddisfatto il re Carlo dell' opera di Niccola, che l'onoró e premió grandemente. Da Napoli tornando in Toscana, si fermó Mccola alia fabbrica di Santa Maria d' Orvieto ; e lavorandovi in compagnia d' al- cuni Tedeschi, vi fece di marmo, per la facciata dinanzi di quella chiesa, alcune figure tonde, e particolarmente due storie del Giudizio universale, ed in esse il Paradise e rInferno. E siccome si sforzó di fare nel Paradise, della maggior bellezza che seppe, l'anime de'beat! ne'loro corpi ritornate; cosi nell'Inferno fece ]e più strane forme di diavoli che si possano vedere, intentissime al tormentar l'anime dannate. Nella quale opera, non che i Tedeschi che quivi lavoravano, ma superó se stesso, con molta sua lode. E perche vi fece gran numero di figure, e vi duró molta fatica, è stato, non che altro, lodato insino a'tempi nostri da chi non ha avuto più giudicio che tanto nella scultura. ^ ' *11 Da Morrona {Pisa ill, II, 69) dice che ció fu nel 1297, e in una del pietra campanile della chiessf di Santa Margherita lesse scolpiti i nomi Nicolaus et Johannes. ® *Se il Duomo d'Orvieto non ebhe il suo principio che nel 1290, e il ter- înine dopo il 1310. ne! quale anno gli Orvietani, perché ne fosse accelerata la fabbrica, con piii larghi stipendj obbligarono I'architetto Lorenzo Maitani di Siena a risiedere nella loro città, ov'egli mori nel 1330; è manifesto che qui il Vasíbi , Opere. — Vol. I. 20 306 NICCOLA E GIOVANNI, PISANI Ebbe,. fra gli altri, Niccola mi figliuolo cbiamato Gio- vanni: 11 quale, perclië seguitò sempre il padre, e sotte la disciplina di lui attese alla scultura ed airarchitet- tura, in pochi anni divenne non solo eguale al padre, ma in alcuna cosa superiore; onde essendo già vecchio, Mccola si ritirò in Pisa, e li vivendo quietamente, la- sciava d'ogni cosa il governo al figliuolo. Essendo dun- que morto in Perugia papa Urbano IV, fu mandato per Giovanni, il quale andato là fece la sepoltura di quel pontefice di marmo; la quale, insieme con quella di papa Martine IV,^ fu poi gettata per terra quando i Perugini aggrandirono il loro vescovado, di modo che se ne veg- giono solamente alcune reliquie sparse per la chiesa. E avendo nel medesimo tempo i Perugini, dal monte di Pacciano, lontano due miglia dalla città, condotto per canali di piombo un'acqua grossissima, mediante Tin- gègno ed industria d'un Erate de'Silvestrini; fu dato a fare a Giovanni Pisano tutti gli ornamenti delia fonte, cosi di bronze come di marmi; onde egli vi mise mano, e fece tre ordini di vasi, due di marmo ed uno di bronze; il primo è poste sopra dodici gradi di scalee a dodici che Vasari cade in ci fanno tenere grave errore, perché moite buone congetture come- Niccola a quel tempo fosse da qualche anno morto. Ed è meraviglia che, dice il Cicognara, sieno stati tratti in questo stesso errore anche i più chiari storici delle Belle Arti, compresi il Lanzi e il D'Agincourt. Puossi bensi credere che in quei bassorilievi delia facciata lavorasse Giovanni figlio di Niccola, Ar- Delia nolfo, Frate Guglielmo da Pisa, ed altri scultori delia scuola di Niccola. II Valle, nella sua Storia del Duomo d' Orvieto, è d'opinione che l'errore di at- tribuiré quei bassorilievi a Niccola da Pisa sia nato dall' avér trovato che nel 1321 era agli stipendj degli Orvietani un Niccolò seul tore florentino; il quale, per fu scam- la somiglianza del nome, senza ben riñettere alla età molto posteriora, il Va- biato con,il Pisano maestro. Rispetto poi a quei Tedeschi, che secando sari aiutarono Niccola in questi lavori, non accade ripeter qui quel che altrove dicemmo. ^ credere che Gio- ^ * Urbano IV mori nel 1264. II Mariotti inclinerebbe a a mortd vanni Pisano facesse la sepoltura, piuttosto che a Urbano, Martina IV, di finis- in Perugia nel 1285 perché lo storico Pellini rammenta un ; sepulcro la simi marmi innalzato a pubbliche spese a questo ponteflce; e perché dopo sua morte fu tenuto da'Perugini in singolare venerazione {Lett. pitt. perug-, pag. 21). NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 307 facce ; 1' altro sopra alcune colonne che posano in sul del piano primo vaso, cioè nel mezzo; ed il terzo, che è di bronze, posa sopra tre figure, ed ha nel mezzo alcuni grifoni, pur di hronzo, che versano acqua da tutte le hande. E perche a Giovanni parve avere molto bene in quel lavoro operate, vi pose ilnome sue/ Circa I'anno ^ *Nel 1254 i Perugini decretarono di condurre per canali di le acque del Monte Pacciano piombo nella piazza del Comune. Un Frate Plenerio dette principio a quest'opera, la quale poi fu continuata da un tal Leonardo, da un Bevegnate perugino (e questi è il Frate dei Silvestrini nominato dal da Alberto Frate Vasari), un Minorita, e da un Boninsegna da Venezia. Piú tardi si tro- vano registrati negli atti pubblici Guido da Cittá di Castelló, un tal maestro Copo, un Ristoro da Santa Giuliana, un Frate Vincenzo pur Minorita. adunque, furono Questi, gl'ingegneri idraulici che presiedettero alia condotta delle Paccianesi dentro acque Perugia. Agli ornamenti, sia di marmo, sia di bronzo, della fontana, vuole il Vasari che dèsse opera il solo Giovanni da Pisa; ma una preziosa iscrizione, stata per lungo tempo nascosta sotto il tártaro, e pochi anni sono scoperta dal prof. Massari, mentre ci dà i nomi degl'ingegneri Fra Beve- gnate e Boninsegna, ci fa conoscere altresi che lo stesso Niccola ebbe a quel lavorio. Al magistero dei parte due pisani scultori, quello d' un altro non men valeroso maestro si aggiimge; e questi fu il florentino Arnolfo, il quale da Garlo I d'Angiô, con un diploma del 1277, fu mandato ai Perugini per continuare il appunto sospeso lavoro della fonte. Ma l'esser questo il solo documento che sin ad ora ci parli di Arnolfo chiamato in Perugia, e il non trovarsi scol- pito insieme cogli altri il nome suo in quella iscrizione, ci farebbe che sospettare o egli per qualsivoglia cagione non andasse altrimenti a la iscrizione Perugia, o che fosse già messa su quando egli giunse colà. Alquanto difficile ancora è il distinguere il lavoro che a ciascuno dei due maestri pisani si partiene. Si ap- vogliono assegnare a Niccola le ventiquattro flgure addossate ne' lastri del secondo pi- catino; a Giovanni si danno le sculture delle (e venticinque faccie non dodici, come dice il Vasari) che girano intorno al primo e cratere di piú grande essa fontana. Compie questo insieme piramidale una tazza, sorretta da una colonna e adorna di tre ninfe, di grifoni e di leoni; lavoro tutto di da bronzo, eseguito un tal maestro Rosso nel 1277, come dice la iscrizione che intorno alla gira tazza. Costui, sin qui conosciuto per questa epígrafe solamente, forse potrebbe esser quel maestro Rosso padellaio (arte che nel secolo xiii, e nei due seguenti, indicava un lavoratore di metalli), il quale nel 1264 ebbe varie somme per la palla di rame della cupola del Duomo di Siena {pro mela mete operis Sánete Marie). E un arteflce che viveva e lavorava nel 1264, puô ben essere che vivesse e lavorasse nel 1277. Intanto in Siena era un maestro Rosso gettatore di metalli: non sappiamo se in Perugia o altrove, altro arteflce di tal nome e a quei tempi fosse dato di trovare. Ció poniamo come con- ghiettura, semplice e non per cosa certa e provata. La fonte fu finita durante il cato di Niccola pontifl- III, che resse la chiesa dal 1277 al 1280. — 1 Oggi questa con- gettura circa al maestro Rosso non ha piú nessun valore, essendosi che írovato veramente fu a'quei tempi un maestro perugino cosi nominato, che fece 308 NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 1560, essendo gli archi e i condotti di questa fonte, la quale costó cento sessanta mila ducati d'oro, guasti in gran parte e rovinati; Yincenzio Danti perugino seul- tore, e con sua non piccola lode, senza far gli archi (il che sarebbe state di grandissima spesa), ricondusse molto ingegnosamente Tacqua alia detta fonte nel modo che era prima/ Finita quest'opera, desideroso Giovanni di riveder il padre vecchio ed indisposto, si parti di Perugia per tornarsene a Pisa; ma, passando per Firenze, gli fu forza fermarsi, per adoperarsi, insieme con altri, all'opera delle mulina d'Arno, che si facevano da San Gregorio appresso la piazza de'Mozzi. Ma finalmente, avendo avuto nuove che Mccola suo padre era morto, se n'andò a Pisa ; dove fu per la virtii sua da tutta la citta con molto onore ricevuto, rallegrandosi ognuno che dopo la per- dita di Niccola, fusse di lui rimase Giovanni erode cesi delle virtù come delle facoltà sue. E venuta occasione di il lavoro di métallo délia detta fonte. — CM, infine, bramasse maggiori e più estese notizie su questa celebre fonte, potrà consultare l'eruditissimo e diligente ragionamento del prof. G. B. Vermiglioli, intitolato Dell' Acquedotto e délia Fontana maggiore di Perugia ecc., Perugia 1827, in4; e l'altra bell'opera Le sculture di Niccolò e Giovanni da Pisa e di Arnolfo florentino, che ornano la Fontana maggiore di Perugia, disegnate e incise da Silvestro Massari, e descritte da Gio. Battista Vermiglioli ; Perugia 1834, in4, con 80 tavole in rame. — t Dell' andata e dimora a Perugia di Arnolfo oggi abbiamo altre maggiori testimonianze scoperte dal valoroso e diligente ricercatore e illustratore dei do- cumenti della storia dell'arte perugina, che è il prof. Adamo Rossi. Egli adun- que comunicó al Cavalcaselle le seguenti preziose notizie. Avendo fra Bevignate il la- soprastante all' acquedotto della fonte fatto venire in Perugia Arnolfo per 1277 voro marmóreo della fontana, il maestro fiorentino dichiarô nel 27 agosto di non potersi trattenere nella città, nè intraprendere quell'opera, senza licenza di re Carlo, o di Ugo suo vicario in Roma. E re Carlo, soddisfacendo al Co- muñe di Perugia che ne lo aveva pregato, con sua lettera data presso il Lago Pensile il 10 settembre di quell'anno, concesse non solo che Arnolfo andasse colà per quell' opera, ma insieme i marmi che vi sarebbero bisognati. E si trova che a'4 di febbraio del 1481 furono pagate ad Arnolfo per ventiquattro giorni di lavoro dato alia fontana lire 10, e soldi 4 di denari, a ragione di 10 soldi al giorno. É però da notare che i libri di spese degli anni precedenti mancano, e cosí non possiamo sapere altri particolari intorno a questo fatto. * * II Danti a titolo d' onore fu creato officiale della fonte ; e per ricompensa gli furono assegnati 250 scudi romani. NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 309 far prova di lui, non fu punto ingannata la loro opi- nione; perché, avendosi a fare alcune cose nella picciola., ma ornatissima chiesa di Santa Maria delia Spina, furono date a fare a Griovanni; il quale, messovi mano, con 1' aiuto di alcuni suoi giovani, condusse molti ornamenti di quel- l'oratorio a quella perfezione che oggi si vede; la quale opera, per quelle che sipuò giudicare, dovette esser in que' tempi tenuta miracolosa, e tanto più avendovi fatto in una figura il ritratto di Mccola di naturale, come seppe meglio. Veduto ció i Pisani, i quali molto innanzi aveVhno avuto ragionamento e voglia di fare un luogo per le sepolture di tutti gli abitatori della citta, cosi no- bili come plebei, o per non empiere il Duomo di sepol- ture 0 per altra cagione ; diedero cura a Griovanni di fare I'edifizio di Campo Santo, che è in su la piazza del Duomo verso le mura; onde egli, con buen disegno e con molto giudizio, lo fece in quella maniera, e con quelli orna- menti di marmo, e di quella grandezza che si vede. E perché non si guardó a spesa nessuna, fu fatta la coperta di piombo; e fuori della porta principale si veggiono nel marmo intagliate queste parole : A. D. mcclxxxviu, tempore Domini Friderigi archiepiscopi Pisani, et Domini Tarlati potestatis, operario Orlando Sardella, loJianne magistro edi- ficante. Finita quest'opera, l'anno medesimo 1283 andó Giovanni a Napoli, dove per lo re Cario fece il Castel Nuevo di Napoli;' e, per allargarsi e farlo più forte, fu forzato a rovinare molte case e chiese, e particolarmente un convento di Frati di San Francesco ; che poi fu rifatto maggiore e più magnifico assai che non era prima, Ion- taño dal castello, e col titolo di Santa Maria della Nueva. ^ Le quali fabbriche cominciate e tirate assai bene innanzi, * Credesi 1'interno del Castel Nuevo, finito poi nel secóle xvi sotto il di go- verno D. Pietro di Toledo. ^ Anche questa fabbrica (Vedi Signorelli, Culto delle due buita Sicilie) è attri- a Giovanni. 310 NICCOLA E GIOVANNI, PISANI si parti Giovanni di Napoli per tornarsene in Toscana; ma giunto a Siena, senza essere lasciato passaré più oltre, gli fa fatto fare il modello della facciata del Duomo di quella citta, e poi con esso fa fatta la detta facciata ricca e magnifica molto/ L'anno poi 1286, fabbricandosi il ve- scovado d'Arezzo col disegno di Margaritone architetto aretino, fa condotto da Siena in Arezzo Giovanni, da Gu- glielmo TJbertini vescovo di quella cittk; dove fece di marmo la tavola delf altar maggiore, tatta plena d'in- tagli di figure, di fogliami ed altri ornamenti, scompar- tendo per tutta Topera alcune cose di mosaico sottiîe, e smalti posti sopra piastre d' argento commesse nel marmo con molta diligenza. Nel mezzo è una Nostra Donna col figliuolo in collo, e dalTuno de'lati San Gregorio papa (il cui volto è il ritratto al naturale di papa Onorio IV); 6 dalTaltro, un San Donato, vescovo di queUa città e protettore; il cui corpo, con quelli di SanDAntilla e di altri Santi, è sotto Tistesso altare riposto. E perché il detto altare è isolate, interno e dai lati sono storie pie- cióle di basso rilievo della vita di San Donato ; ed il fini- * *11 Duomo senese ebbe cerlamente un principio piü antico assai di quello che Torrebbe il Vasari. II barone di Rumhor, che sulla storia di questo magni- fico tempio portó luce maggiore d'ogni altro scrittore, addusse autentiche me- morie, le quali si conosce che fino dai primi anni del secolo xiii si lavorava per in quella chiesa. Si puó bensi credere che questi lavori riguardassero il restauro o l'ornamento maggiore di alcuna sua parte, e non una nuóva forma o disegno di troviamo essere essa. Ma dopo il 1250 crebbero assai i lavori; perche mag- giore il numero de'maestri stipendiati, e maggiori le somme spesevi; in modo che nel 1258 e 1259 si fecero dei notabili accrescimenti nel corpo della chiesa, di cui nel 1264 era già compita la cupola. Si sgombrava, frattanto, la piazza col demolire, nel 1276, il palazzo del vescovo. E nel 1297 si proponeva a que- st'effetto di abbattere ed innalzare altrove la chiesa di San Giovanni, situata in quei tempi sulla piazza del Duomo allato alia presente casa dell' Opera. La qual proposizione, sebbene rinnovata nel 1301 e 1315, non ebbe il suo effetto se non dopo quest'ultimo anno. Da tutto ció adunque si raccoglie, che se non puó tenersi per vero che Giovanni si trovasse alia prima fondazione del Duomo Giovanni. senese, ben puó essere ch'egli desse il disegno dell'antico San t Vedi a questo proposito quel che è detto in una nota posta ai documenti riguardanti il vecchio Duomo di Siena, pubblicati nel vol. 1, p. 255 de'Docw- menti per la Storia delVArte Senese raccolti ed illustrati dai Dr. Gaetano Mi- lanesi (Siena, Porri, 1855-56; vol. 111, in-8). NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 311 mento di tutta Topera sono alcuni tabernacoli pieni di figure tonde di marmo, lavorate molto sottilmente. Nel petto della Madonna detta è la forma d' un castone d'oro, dentro al quale, seconde che si dice, erano gioie di molta valuta; le quali sono state per le guerre, come si crede, -dai soldati che non hanno moite volte në anco rispetto al SS. Sagramento, pórtate via insieme con alcune figu- rine tonde che erano in cima e interno a quelT opera, nella quale tutta spesero gli Aretini, seconde che si trova in alcuni ricordi, trentamila fiorini d'oro. Në paia ció gran fatto, perciò che ella fu in quel tempo cosa, quanto potesse essere, preziosa e rara;^ onde tornando Federigo Barbarossa da Roma, dove si era incoronato, e passando per Arezzo molti anni dopo ch'era stata fatta, la lodo, anzi ammhò infinitamente. ® Ed in vero a gran ragione; * Esiste ancora in quel Duomo, benchè molto danneggiata. t II Cavalcaselle (op. cit., vol. I, pag. 222) a proposito di questo lavoro del- raltar maggiore del Duomo d'Arezzo, crede che sia stato fatto coi di Giovanni disegni da suoi scolari, perché gli pare che non corrisponda-nè all'ingegno suo nè alla maniera l'architettura pesante e senza grazia, il dalle comporre confuso storie, il modellare delle figure, la loro volgarità, le attitudini forzate e la poca diligenza. E noi in conforma delle giuste osservazioni del Cavalcaselle possiamo addurre alcuni documenti, i quali ci scoprono che quell'ornamento marmóreo-fu lavorato in tempo posteriora, e da altri maestri. Infatti tra i di rogiti ser Adatto Cungi notaio aretino si trova uno strumento del 22 di che febbi'ajo si 1369, dice fatto sotto il portico della cattedrale di Arezzo, essendo presenti ma- gistro loTianne Francisai de Aretis et magistro Betto Francisai de Florentia magistris lapidum et intalli lahorerii quod fit super altare beati JDonati in dicta ■ecclesia\ ed in un altro del 9 di marzo 1375 fatto parimente sotto il portico sud- detto fu tra i testimoni magistro lohanne magistro intallii marmorei con- struitur quod super altare beati Bonati in ecclesia aretina, filio olim cive aretino. È facile che la somiglianza del norae abbia fatto scambiare I'artefice aretino col pisano : sebbene la diversità della maniera che si riscontra nel lavoro d'Arezzo, e la inferiorita sua appetto allé altre opere del Pisano, dovessero fare accorto il Vasari del suo errore. Delia dimora di Giovanni da Pisa in Arezzo noi non abbiamo nessun ricordo o testimonianza antica. Invece è per certissimi •documenti provato che m.° Agostino da Siena e Giovanni suo figliuolo vi lavo- rarono alcune cappelle e nella cattedrale e nella pieve nel 1300, 1332 e 1334. E non è fuor di ragione. il credere che m.° Giovanni di Francesco d'Arezzo fosse ammaestrato nell'arte dai detti scultori senesi. ^ t Qui il Vasari dice cosa incredibile. Non il Barbarossa, che visse due secoli innanzi, ma forse Federigo 111 fu I'imperatore che nel passando per Arezzo suo ritorno da Roma vide ed ammirò quelle sculture. 312 NICCOLA E GIOVANNI, PISANI perche, oltre all'altre cose, sono le commettiture di quel lavoro, fatto d'infiniti pezzi, múrate e commesse tanto bene, che tutta I'opra, chi non ha gran pratica delle cose dell'arte, la giudica agevolmente tutta d'unpezzo. Fece Griovanni nella medesima chiesa la cappella degli Ubertini, nobilissima famiglia, e signori (come sono an- cora oggi, e più già furono) di Castella, con molti orna- menti di marmo, che oggi sono ricoperti da altri molti, e grandi ornamenti di macigno, che in quel luogo, col disegno di Giorgio Vasari, 1'anno 1585, furono posti per sostenimento d'un organo che vi è sopra, di straordinaria bontà e bellezza. Fece similmente Giovanni Pisano il disegno della chiesa di Santa Maria de' Servi, che oggi è rovinata, insieme con molti palazzi delle più nobili famiglie della cittk, per le cagioni dette di sopra. Non tacerò che essendosi ser- vito Giovanni, nel fare il dette altare di marmo, d'al- cuni Tedeschi, che più per imparare che per guadagnare s'acconciarono con esso lui; eglino divennero tali sotto la disciplina sua, che andati dopo quell'opera a Roma servirono Bonifazio VIII in moite opere di scultura per San Pietro, ed in architettura quando faceva Civita Ca- stellana. Furono, oltre ció, mandati dal medesimo a Santa Maria d'Orvieto, dove per quella facciata fecero molte figure di marmo, che seconde que' tempi furono ragio- nevoli. Ma, fra gli altri che aiutarono Giovanni nelle cose del vescovado d'Arezzo, Agostino ed Agnolo, "seul- tori ed architetti sanesi, avanzarono col tempo di gran lunga tutti gli altri ; come al suo luogo si dirà. Ma tor- nando a Giovanni, partite che egli fu d' Orvieto, venue a Fh'enze per vedere la fabbrica che Arnolfo faceva di Santa Maria del Fiore, e per vedere similmente Giotto, del quale aveva sentito fuori gran cose ragionare: ma non fu si testo arrivato a Firenze, che dagli opérai della detta fabbrica di Santa Maria del Fiore gli fu data a fare NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 313. la Madonna che, in mezzo a due angioli piccoli, è sopra la porta di detta chiesa che va in Canónica; la quale opera fu allora molto lodata/ Dopo, fece il battesimo di San Giovanni, dove sono alcune storie di mezzo rilievo della vita di quel Santo. ® Andato poi a Bologna, ordinò la cappella maggiore della chiesa di San Domenico, nella quale gli fu fatto fare di marmo faltare da Teodorico Borgognoni lucchese, vescovo, e Frate di quelfOrdine; nel qual luogo medesimo fece poi, faimo 1298, la tavola di marmo dove sono la Nostra Donna ed altre otto figure assai ragionevoli. ' E fanno 1300, essendo Niccola da Prato cardinale legato dal papa a Firenze per accomodare le discordie dei Fiorentini, gli fece fare un monasterio di donne in Prato, che dal suo nome si chiama San Niccola; e re- staurare nella medesima terra il convento di San Dome- nice, e cosi anco quel di Pistoia; nelfuno e nelfaltro de' quali si vede ancora f arme di dette cardinale. " E perche i Pistoiesi avevano in venerazione il nome di Nie- cola padre di Giovanni, per quelle che colla sua virtii aveva in quella città adoperato ; fecion fare ad esse Gio- vanni un pergamo di marmo per la chiesa di Sant' Andrea, simile a quelle che egli aveva fatto nel Duomo di Siena ® : ^ *Queste belle e consérvate sculture vedonsi Vasari. sempre nel luogo indicato dal ^ *Il presente fonte battesimale non puô essere opera di Giovanni nè d'Andréa, Pisano, come voi-rebbe il Del Migliore, perché la iscrizione incisa attorno lo dice fatto nel 1370; nel quai tempo Giovanni era morto da circa 42 Andrea anni, e da 20. ' * Quest'altare e le descritte figure piú non esistono. Credono alcuni che Fra Guglielmo da Pisa opérasse con Giovanni in dette sia sculture; il che, sebbene verosimile, non puô accertarsi, per mancanza di documenti. ' '^Giovanni Pisano non poteva nel 1300 restaurare la chiesa di San Do- menico di Prato, come scrive il Vasari, perché se ne inalzava allora la cominciata fabbrica, nel 1281 e non ancora compiuta nel 1322, sotto la direzione di Fra Mazzetto converso domenicano. Verosimilmente fu invitato Giovanni a consigli sui porgere lavori fatti e quelli che restavano a farsi. Le stesse difficoltà sono la chiesa di per San Domenico di Pistoia. ® *Cioé Niccola suo padre, come s'é veduto. 314 NICCOLA E aiOVANNI, PISANI e ció per concorrenza d'une che poco innanzi n'era state fatto nella chiesa di San Giovanni Evangelista da un Tedesco, che ne fu molto lodato. ^ Giovanni, dunque, diede finito il suo in quattro anni, avendo l'opera di quelle divisa in cinque storie della vita di Gesù Cristo, e fat- tovi oltre ció un Giudizio universale con quella maggior diligenza che seppe, per pareggiare o forse passaré quelle allora tanto nominate d' Orvieto. E interne a dette per- game, sopra alcune colonne che lo reggono, intaglió nel- l'architrave, parendogli (come fu in vero), per quanto sapeva quella eta, aver fatto una grande e bell'opera, questi versi: Hoc opiis sculpsit Johannes, qui res non egit inanes, Nicoli natus.... meliora heatus, Quern genuit Pisa, doctum super omnia risaJ Fece Giovanni in quel medesimo tempo la pila del- Tacqua santa di marmo della chiesa di San Giovanni Evangelista nella medesima città, con tre figure che la reggono; la Temperanza, la Prudenza e la Giustizia: la quale opera, per essere allora stata tenuta molto bella, ® fu posta nel mezzo di quella chiesa come cosa singolare. E prima che partisse di Pistoia, sebben non fu cosi al- lora cominciata l'opera, fece il modello del campanile di San lacopo, principale chiesa di quella citta, nel quale campanile che è in sulla piazza di dette San lacopo ed a ' Il pulpito di s. Gio. Fuor civitas di Pistoia oggi è provato essere opera di Fra Guglielmo da Pisa, domenicano e scolaro di Niccola. (Vedi Tigri, Guida di Pistoia, e Gavalcaselle Op. cit., vol. I, pag. 217). Il Tigri afferma che nei , ricordi mss. di essa chiesa si dice quel pulpito essere stato fatto nel 1270 da Fra Guglielmo. ^ *Questa'iscrizione, che il Vasari ha data incompiuta ed inesatta, porta r anno 1301 e , puó vedersi fedelmente riferita dal Morrona, dal Cicognara e ■dal Tolomei. ® Essa è oggi molto logora; ma fortunatamente assai meno (avverte il Ci- cognara) che gli scrittori non dicano. — *Oggi però non è piú nel mezzo, ma presse la porta latérale. NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 315 canto alia cliiesa, è questo millésime: A. D. 1301.^ Es- sendo, poi, morte in Perugia papa Benedetto IX,® fu man- date per Giovanni, il quale andato a Perugia fece nella chiesa vecchia di San Domenico de'Frati Predicatori una sepultura di marmo per quel pontefice; il quale ritratto di naturale e in abito pontificale pose interno sopra la cassa con due Angeli, uno da ciascun lato, che tengono una cortina; e di sopra una Nostra Donna con due Santi di rilievo che la mettono in mezzo; e molti altri orna- menti interno a quella sepultura intagliati. Parimente, nella chiesa nueva de' detti Frati Predicatori fece il se- pulcro di messer Niccolò Guidalotti perugino e vescovo di Becanati, il quale fu institutore delia Sapienza nueva di Perugia.® Nella quale chiesa nueva, dice, che prima era stata fondata da altri, condusse la navata del mezzo: che fu con multo migliore ordine fondata da lui, che il rimanente della chiesa non era state fatto ; la quale da un lato pende, e minaccia (per essere stata male fon- data) rovina. E nel vero, chi mette mano a fabbricare ed a far cose d'importanza, non da chi sa poco, ma dai migliori, dovrehbe sempre pigliar consiglio, per non aver dopo il fatto, con danno e vergogna a pentirsi d'essersi dove pill bisognava mal consigliato. Voleva Giovanni, speditosi dalle cose di Perugia, an- dare a Boma per imparare da quelle poche cose antiche che vi si vedevano,* si come aveva fatto il padre; ma * *11 Tolomei non poté leggervi T anno 1301, citato dal Vasari ; ma solo il 1200, tempo probabile del principio della fabbrica. ^ Leggi Benedetto XI, che mori in Perugia nel 1304. II celebre catdinale Niccolò da Prato gli fece fare da Giovanni la sepoltura, di cui si parla, e che tuttora si vede. Essa, dice il Cicognara, ha qualche somiglianza con quella della regina di Cipri in Assisi, che il Vasari dice opera di Fuccio. (Vedi la nota 1, a pag. 296). ® Si chiamava Benedetto, dice il Mariotti nelle Lettere Perugîne, e fu po- steriore a Giovanni, almeno di un secolo. *Se non si potesse supporre che Giovanni nella sua gioventú fosse andato a Roma per istudiare le cose antiche, sarebbe stato ben tardi se si fosse risoluto quando era giá vecchio. 316 NICCOLA E GIOVANNI, PISANI da giliste cagioni impedito, non ebbe eifetto questo suo desiderio, e massimamente sentendo la corte essere di poco ita in Avignone/ Tomato adunque a Pisa, Nello di Giovanni Falconi operaio gli diede a fare il pergamo grande del Duomo, che è a man ritta, andando verso raltar maggiore, appiccato al coro: al qual dato princi- pió, ed a molte figure tonde, alte braccia tre, che a quello avevano a serviré, a poco a poco lo condusse a quella forma che oggi si vede, pósate parte sopra le dette figure, parte sopra alcune colonne sostenute da leoni; e nelle spondefece alcune storie della vita di Gesii Cristo. E un peccato veramente, che tanta spesa, tanta diligenza e tanta fatica, non fusse accompagnata da buen disegno; e non avesse la sua perfezione, ne invenzione, ne grazia, ne maniera che buena fusse, come avrebbe a'tempi no- stri ogni opera che fusse fatta anco con molto minore spesa e fatica. Nondimeno dovette recare agli uomini di que'tempi, avvezzi a vedere solamente cose goíñssime, non piccola maraviglia. Fu finita quest'opera l'anno 1320,® * Fu colà trasferita da Clemente V, eletto papa nel 1305, e ricondotta a Roma da Gregorio XI nel 1377. ^ *11 pulpito fu cominciato nel 1302, e terminate nel 1310 (stile comune); come si ritrae e dal frammento d'iscrizione riferito dal Vasari, e da altro fram- mento che oggi si vede in un pilastro esterno della facciata'di mezzo giorno. Esso fu poi tutto scomposto e guasto da Gio. Batta Riminaldi pisano intaglia- tore di legname, per ordine dell'operaio Ceuli: alcune parti furono adoprate nel nuovo pergamo costruito nel 1627 col disegno di uno scultore francese e scolpito da Chiarissimo Fancelli, florentino; i bassorilievi furono posti per parapetto alia ringhiera ch'è in fondo alla chiesa; i quali, tolti anche di li, ora si vedono nella gallería sopra la sinistra navata del Duomo, per esser poi posti, come si dice, nei nuo'vi amboni. Essi sono in numero di sei, e rapp resen taño la nascita di Gesú, e r Angelo che ne dà l'annunzio ai pastori; T'adorazione dei Re magi; la presentazione al templo, e la fuga in Egitto; la strage degli Innocenti; il ti-adimento di Giuda, e la crociflssione, ch'è la storia meno pregevole; anzi il Cristo è molto difettosa. Queste opere bastano solo a provarci, dice il Ci- cosa che di Giovanni i bassorilievi del Duomo d'Orvieto, attribuiti cognara, sono al padre. i A' nostri giorni il prof. G. Fontana, con molto studio e fatica ricercando gli avanzi di questo pulpito, ha potuto ricomporlo quasi tutto, e ne ha fatto un modello di legno che mostra la forma sua primitiva, rifacendone le parti che niccola e giovanni, pisani 317 come appare in certi versi che sono intorno al detto per- gamo, che dicono cosi: Laudo Deum verum, per quem sunt optima rerum, Qui dédit has puras homini formare figuras; Hoc opus his annis Domini sculpsere Johannis Arte nianus sole quondamf natique Nicole, Cursis undenis tercentum, milleque plenis, ecc. Con altri tredici versi, i quali non si scrivono per meno essere noiosi a chi legge, e perché qnesti bastano non solo a far fede che il detto pergamo è di mano di Gio- vanni, ma che gli uomini di que'tempi erano in tutte le cose cosí fatti. Una Nostra Donna ancora, che in mezzo a San Giovanni Batista ed un altro Santo si vede in marmo sopra la porta principale del Duomo, è di mano di Gio- vanni, e quegli che a'piedi délia Madonna sta in ginoc- chioni, si dice essere Pietro Gambacorti operaio/ Comun- que sia, nella base dove posa T imagine di Nostra Donna, sono queste parole intagliate: Suh Petri cura haec pia fuit sculpta figura; Nicoli nato sculptore Johanne vocato. Similmente sopra la porta del fianço, che è dirimpetto al campanile, è di mano di Giovanni una Nostra Donna di marmo, che ha da un lato una donna inginocchioni, con due bambini, figurata per Pisa, e dairaltro Fimpe- radore Enrico.^ Nella base dove pósala Nostra Donna, mancavano, con molta intelligenza dello stile antico; e secondo questo modello il Municipio di Pisa ha deliberato che 11 pulpito di Giovanni si ricostruisca e si ■compia in quelle parti mancanti, allogandone il lavoro al cav. Tito Sarrocchi di Siena. Vedi 1' opuscolo intitolato : Sulla ricomposizione del pulpito di Giovanni pisano. Rapporto della Commissione istituita dal Consiglio di Pisa. (Pisa, Municipale Nistri 1873, in-8). ' *E falsa la tradizione che riferisce il Vasari, perché Pietro che fu Gambacorti, nel 1392 ucciso a tradimento, ai tempi di Giovanni Pisano non doveva «sser nato, o se nato, era ancor fanciullo. *Di queste seul ture il Da Morrona vide gli avanzi confusi fra i sassi e la terra, e che poi furono collocati nel Campo Santo pisano. 318 NICCOLA E GIOVANNI, PISANI sono queste parole: Ave gratia ylena, Dominus tecum; e appresso : Nohilis arte manus sculpsit Johannes Pisaniis Sculpsit sub Burgundio Tadi benigno... ; ed intorno alia base di Pisa: Virginis ancilla sum Pisa quieta sub ilia; ed intorno alia base d'Enrico: Imperat Henricus qui Christo fertur amicus. Essendo stata gia-molti anni nella pieve vecchia della terra di Prato, sotto 1'altare della cappella maggiore, la cintola di Nostra Donna, che Michele da Prato tornando di Terra Santa aveva recato nella patria I'anno 1141, e consegnatala a liberto proposto di quella pieve, che la pose ove si ë dette, e dove era stata sempre con gran venerazione tenuta; Tanno 1312 fn voluta rubare da nn pratese, uomo di malissima vita, e quasi un altro ser Ciappelletto: ma, essendo state scoperto, fu per mano della giustizia come sacrilego fatto moriré. Da che mossi i Pratesi deliberarono di fare, per tenere più sicura- mente la detta cintola, un sito forte e ben accomodate : onde, mandato per Griovanni, che gia era vecchio, feciono col consiglio suo nella chiesa maggiore la cappella, dove ora sta riposta la detta cintola di Nostra Donna. E poi col disegno del medesimo feciono la detta chiesa molto maggiore di quelle ch'ella era, e la incrostarono di fuori di marmi bianchi e neri; e similmente il campanile, come si può vedere. ^ Finalmente, essendo Giovanni già vecchis- ' *L' ingrandimento della cattedrale di Prato fu comiiiciato 1' anno 1317. II campanile, lasciato non finito da Giovanni, per la morte sopravvenutagli, fu condotto a fine da Niccolô di Ceceo del Mercia, e da Sano suo discepolo, seul- tori e architetti senesi; e ció dovette essere circa il 1340, perche a quel tempo il vescove chiedeva ai suoi diocesani elemosine per fare le campane. (Vedi B ian- chini, Memorie della Sacra Cintola; Repetti, Dizionario della Toscana). t Quest! artefici scolpirono dal 1354 al 1359 il pergamo di inarmo della cappella della Cintola nella Cattedrale di Prato. NICCOLA E GIOVANNI, PISANÍ 319^ simo, si mori l'aimò 1320, dopo aver fatto, oltre a quelle che dette si sono, moite altre opere di sciiltura ed ar- chitettura/ E nel vero, si deve molto a Ini ed a Mccola suo padre; poichë, in tempi privi d'ogni bontà di dise- gno, diedero in tante tenebre non piccolo lume alie cose di quest'arti, nelle quali furono in quell'età veramente eccellenti. Fu sotterrato Giovanni in Campo Santo ono- ratamente, nella stess'arca dove era stato posto Mccola suo padre. ^ Furono discepoli di Giovanni molti che dopo lui fio- rirono; ma particolarmente Lino, scultore ed architetto sánese, il quale fece in Pisa la cappella, dov'è il corpo di San Ranieri in Duomo, tutta ornata di marmi, e si- milmente il vaso del battesimo oh' è in dette Duomo col nome suo.® Nè si maravigli alcuno che facessero Mc- cola e Giovanni tante opere; perche, oltre che vissono assai, essendo i primi maestri in quel tempo che fussono ^ *Opera di Giovanni è pure una pila con bassorilievo esistente nella chiesa di San Pietro in Vinculis, del castello detto di San Fiero, circa a dieci da Pisa, nella migiia quale incise il suo nome e quello di un tal Leonardo, suo scolaro. Giovanni lavorô pure in avorio, corne si ritrae da un instrumento de'5 giugno 1299, col quale egli si obbliga di fare delle figure d'avorio a tutta perfezione: e perciô si crede opera di lui una molto bella immagine delia Ver- gine col Bambino, scolpita in questa materia, che si conserva nel Santuario del Duomo di Pisa. (Vedi Da Morrona, Pisa illustrata, tom. ^ II). In una lastra di marmo, posta a'pié della facciata del arcivesco- vile di palazzo Siena, è questa iscrizione: hoc est sepvlcrum magistri Johannis quon- dam magistri Nicolai et de eius eredibus. Se questo Giovanni è il Pisano che a noi (il parrebbe certo), allora bisogna dire ch'egli, affezionatissimo a si eleggesse Siena, ivi la sua sepultura qualche tempo innanzi al moriré, e che mutata poi, per volontá, ordinasse d'esser seppellito a Pisa. i Giovanni non mori in quest'anno, perché ci sono memorie che egli vi veva e lavorava anche dopo. Cosi nel 1328 fece nell'Arena di Padova il monumento di Enrico degli Scrovegni morto in quell'anno. In una iscrizione nelle tre faccie intagliata del plinto sotto il gruppo della Madonna col Putto che fa parte del detto monumento, si legge: Deo gratias : opus lohannis Nicholi de Pisis. magistri Quanto alia sua nascita, noi congetturiamo che possa essere accaduta verso il 1250, supponendolo di 15 o 16 anni, quando fu condotto a lavorare nel pulpito di Siena da Niccolô suo ® padre. * Vuolsi che sia quello che ora vedesi in Campo Santo sotto il numero 132: ma siccome esso, non solo manca del nome dello scultore (contro quel che 320 NICCOLA E GIOVANNI, PISANI in Europa, non si fece alcuna cosa d'importanza, alla quale non intervenissono; come, oltre a quelle che dette si sono, in moite iscrizioni si può vedere. E poichè con r occasione di questi due scultori ed architetti si è delle cose di Pisa ragionato, non tacerò che in su le scalee di verso lo Spedale Nuovo, intorno alla hase che sostiene un leone ed il vaso che è sopra la colonna di pérfido, sono queste parole: Questo ê 'I talento che Cesare imperadore diede a Pisa, con lo quale si misurava lo censo che a lui era dato : lo quale è edificato sopra questa colonna e leone nel tempo di Giovanni Rosso operaio délV opera di Santa Maria maggiore di Pisa, A. D. MccGxiii, Inditione secunda di Marzo. ^ dice il Vasari), ma si ancora d'ogni carattere del tempo, cosi non si può teñera che per opera molto posteriora al 200; ed è lavoro di assai cattivo gusto. Rispetto al maestro Lino, noi sospettiamo che il Vasari abbia equivocate nel nome, credendo che sia piuttosto Tino diCamaino, autora di opere ragguar- devoli; del quale faremo parola nelle note alia Vita di Agostino ed Agnolo. ' * Questo vaso di marmo parió, dove è rappresentata una ceremonia bac- chica, è squisito lavoro di greco scarpello. La epígrafe riportata dal Vasari fu fatta cancellare da Francesco Quarantotto operaio, perché creduto favoloso il racconto. Cosimo Cioli da Settignano, nel 1604, restauró il coperchio, vi fece il dado sotto la base, e adattò e puli la colonna. Finalmente, nell'anno 1810, per meglio provvedere alla conservazione sua, fu traspórtate dentro il Campo Santo, dove orà è indicate sotto il numero 52. t Un' altra opera di Giovanni è stata scoperta a' nostri giorni. Essa è il se- pelero marmóreo delia principessa Margherita, morta in Genova nel 1311, fat- tole innalzare dall' imperatore Arrigo VII di Lussemburgo suo marito. Ebbelo a scolpire Giovanni nel 1313. Gli avanzi di questo sepolcro furono trasferiti dalla di- strutta chiesa di S. Francesco di Castelletto nella villa Brignole-Sale in Voltri. Essi constano di tre figure, cioè d'una muliebre in atto di essere messa nella tomba da due altre mutilate delia testa, le quali indossano una lunga veste, e paiono monaci. (Vedi Archivio Storico Italiano] Serie Terza, Tomo xxii, n.° 89: 1875, a pag. 327). COMMENTARIO ALLA Vita di Niccola e Giovanni, Pisani Allorclie le ricerche erudite e gli studj critici intomo alia storia del- i'arte italiana successero a'nostri giorni alia incuranza ed anche al disprezzo, in oui erano state tenute iDer gran tempo le opere del medio evo; fu come una loro naturale conseguenza che si cominciasse ad indagare chi furono coloro che innanzi a Niccola Pisano tennero il campo dell'arte, e quali le opere che ancora ne rimangono; non j)arendo verosimile, che questo arte- fice, sebbene di straordinario ingegno, e dal quale la scultura riconosce con ragione il primo avviamento verso il suo meglio, potesse esser sorto cosi ■ d'improvviso, senza che altri lo avessero preceduto, e senza che Parte loro, sia pure da lontano e per infiniti gradi, in qualche modo con la sua non si riappiccasse. Per queste ricerche e studj adunque fatti in ogni parte d'Italia, dove sono tuttavia opere di scultura di c^ue'tempi, e mediante Pesame e confronto loro, è nata oggi tra i critici una assai viva controversia, nella quale si disputa, prima: se Niccolò veramente sia nato in Pisa, o non piuttosto nella Puglia; in seconde luego, se la sua educazione artística sia stata nel mezzogiorno d'Italia, oppure nella Toscana, come, dopo il Vasari,è state fino ad ora creduto ed aífermato da tutti. Sostengono l'origine ed istitu- zione pugliese di Niccola, dopo il Eumhor, che fu il primo a muovere questa disputa, il Crowe e il Cavalcaselle principalmente; a'quali si sono poi aggiunti il Forster, il Grimm, il Lübke, lo Springer e il Salazaro. Continuano a riputarlo nato ed allevato in Toscana, il Semper, lo Schnaase e il Dobbert. Nella quai controversia che conferma o toglie alla nostra Toscana il vanto di essere stata la cuUa ed insieme la scuola di ç[uesto artefice; noi Vasari , Opere. — Vol. I. 21 322 COMMENTARIO ALLA VITA abbiamo stimato di dovere intervenire e come Toscani e come annotatori del Vasari; non colla presunzione di risolverla; che non ci teniamo da tanto ; ma coll' intendimento di mostrare che le ragioni ed argomenti ad- dotti dai sostenitori della nueva opinione non sono, chi ben li esamini, di tanto peso e valore, da far rigettare come erronei e senza fondamenta quelli de'seguaci della vecchia credenza. E siccome il Crowe e il Cavalcaselle hanno con maggiore apparato critico preso a difendere il loro assiinto; raccogliendo il più e il meglio che sopra questa materia era state dette per l'innanzi; cesi noi ci con- tenteremo di esaminare solamente e sotto brevita le loro ragioni : tanto più che gli altri oppositori non fanno che ripetere il già esposto da quelli, o abbracciare la costero opinione, senza aggiungervi niente o pochissima del proprio. E lo faremo con la medesima modestia e temperanza che ci furono sempre di guida nelle passate controversie interno ad alcuni punti escuri o disputabili della storia dell'arte italiana; confessando di aver ca- vate non piccolo frutto dal libretto del dottor Odoardo Dobbert intitolato Dello Stile di Niccola Pisano e della sua derivazione, nel quale 1'erudito e giudizioso autore, agli argomenti de'detti critici, ha saputo contrapporne altri, che ci paiono vincer quelli di valore e di bonta. Forse .questa novella opinione non si sarebbe formata, ne mai avrebbe avuto luego la presente controversia, se non fosse stata la espressione fine ad ora poco awertita di uno strumento fatto in Siena Tundici di maggio 1266,. nel quale si dice, che Fra Melano operaio del Duomo, quel medesimo che l'anno innanzi aveva allogato a Niccola il lavoro del pergamo della detta chiesa; requisivit magistrum Nicholam Petri de Apulia, quod ipse faceret et curaret ita, quod Arnolfus discipulus suus statim veniret Senas ad láborandum in dicto opere cum ipso magistro Nicbola. * Parve agl'impugnatori della origine toscana di Niccola, che nella pa- rola de Apulia del suddetto strumento fosse uno de'principali argomenti per provare che egli abbia avuto per patria la Puglia; col qual nome era allora chiamata la parte d'Italia che poi fu detta il reame di Napoli. Ma questa loro interpretrazione, che alcuni hanno abbracciata come la più naturale e più vera, a noi in quella vece apparisce per le ragioni che. diremo, falsissima. È ormai provato per tante scritture cosi contemporanee a Niccola, come posteriori, che stipulandosi uno strumento, soleva il notaio scrivere, oltre il nome, il cognome o il patronímico delle persone che v'intervenivano, anche la patria o il luogo della loro p>rovenienza; fosse pure il più povero ed oscuro· * Vedi il vol. I, pag. 149, Documenti per la Storia dell'Arte Senese^ pubblicati e illustrati dal dott. Gr. Milanesi (Siena, Porri, 1854-56, in-8). DI NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 323 villaggio del mondo; cosi per modo d'esempio, diceva: loJiannes quondam Guidi de Florentia, de Pistorio, de Campi, de Scarlino, de Vespignano eco. Ma trattandosi di luogo, il quale, perche posto fuori della provincia, dove si stipulava lo strumento, poteva essere meno noto, o in tutto sconosciuto alie parti contraenti, egli allora, per meglio dichiararlo e per fuggire ogni equivoco, al nome del luogo aggiungeva quello della provincia, in questo modo: Franciscus Antonii de Bertinoro, de provincia, oppure, de partihus Bomandiole; Petrus Joannis de Como, de partihus Lorribardie ecc. Se poi il notaio si fosse abbattuto a nominare un nomo venuto in Italia da Ion- tañe parti, di cui non conosceva la nazione, gli bastava allora di dirlo venuto cosí in genere de partihus ultramontanis; e sapendone la nazione, ma non la terra nativa, usava la espressione de partihus Gallie, Alamagne, Ilungarie ecc. Ora, dopo queste premesse, le quali da cbi ha maneggiato scritture antiche, saranno riconosciute verissime, venendo al caso nostro particolare; noi vediamo che il notaio per dichiarare in quello strumento la patria di Niccola, usa la semplice espressione de Apulia, che, come abbiamo detto, non puo, ne deve voler indicare che un paese, una terra di questo nome, e non mai la Puglia. La quale, se egli avesse inteso di nominare, avrebbelo fatto adoperando la sólita formula in genere de partihus Apulie, per non sapera per Pappunto in che città o terra di quella provincia fosse nato Nic- cola. Onde per noi è chiaro che colla espressione de Apulia, non solo egli vo- lesse significare un paese di questo nome, ma ancora, scrivendolo senz'altra aggiunta, che quel paese fosse in Toscana e non altrove : perché come quel- i'aggiunta sarebbe stata necessària per meglio determinarlo, se quel luogo fosse stato fuori della Toscana, cosí riusciva non meno superfina che oziosa, essendo posto nella medesima provincia, dove si stipulava lo strumento. Ricercando perciò se in Toscana fosse un paese di quel nome, noi ne abbiamo trovati due, detti nelle vecchie carte latine Apidia, ed oggi vol- garmente Puglia o Pulla-, de'quali Tuno è nel territorio d'Arezzo, e l'altro nel suburbio di Lucca. ^ E di quest'ultimo noi abbiamo buone ragioni per credere che parli il citato strumento. ' Il Repetti {Dizionario Geográfico, Fisico, Storico della Toscana, vol. I. p. 102) dice: che Apulia o Pulia di Lucca è una contrada nel suburbio meri- dionale di quella città, che dà il suo nome a San quattro popoli: San Colombano, Concoi'dio, San Fier Maggiore, e San Ponziano di Pulia. Questo nome le è derivato dalle acque che pullulano dal suo terreno. Pulia è rammentato fino dal secolo VIII. E nel vol. II,pag. 678, si legge, che Puglia o Pulia (Apidia) è un villaggio del Valdarno aretino posto sopra una vaga collina distante quasi tre miglia da Arezzo e dà il nome ad una delle Cortine, o suburbii di quella città. Se ne hanno memorie fino dal principio del secolo x. 324 COMMENTARIO ALLA VITA Ora se ci fosse demándate : credete vei clae cen questa parola de ApuUa si sia volute indicare il luego native di Niccela, e non piutteste quelle di Pietre sue padre ? noi petremme rispendere : che guardando alla materiale cellecaziene délia detta parola, pesta dope il nome di Pietre, parrebbe cbe a lui si devesse riferire; ma considerando tutta insieme la prepesiziene, la ragiene lógica farebbe invece riferirla più specialmente a Niccela, come al seggette principale di quella. Nendimene nei siame d'epiniene cbe de ApuUa serva in quel luego, ed altri esempj non mancano, al deppie scope di esprimere cesi la patria del padre come quella del fîgliuolo. ' Anzi avendo esaminato a lunge i diversi documenti cbe parlano di Niccola, e riflettutovi sopra maturamente, siamo venuti in quest'ultima persuasione, ciee: cbe egli nascesse nel villaggio di Puglia del suburbio Lucc^iese; cbe condotto in Lucca dal padre suo, la cui condizione è ignota, ma forse fu un lavoratore di terra, o un piccolo possidente di villa, fosse messe alio scultore, fácilmente nella bottega di quel maestro Guidetto, cbe nel 1204 ornava colla sua bella destra la facciata di S. Martine di quella citta; cbe venuto in fama fosse poi cbiamato a Pisa per scolpire il bel pergamo di quel Battistero; e finalmente cbe per la lunga dimora fatta in quella citta, e per la civilta ottenutavi in ricompensa delle sue opere, s'acqui- stasse r appellazione di Pisano, o da Pisa. Noi sappiamo benissimo cbe col restituiré ad un oscuro villaggio Luc- cbese la gloria di essere stato la culla di questo famosissimo artefice, e coir attribuire a Lucca P altra di avergli dato il primo avviamento all' arte, togliendole ambedue a Pisa cbe da lungo tempe le possedeva; facciamo cosa cbe a' Pisani displacerá grandemente : il cbe certo non avremmo ve- luto, se alcuni di que'medesimi documenti, ne'quali si era creduto fino ad ora di trovare un validissiino appoggio alia veccbia credenza, esami- nati da noi con occbio critico e spassionato, non ci avessero condotti a questa nueva e contraria conclusione. * E a questo proposito ci piace di far notare, che riferendo il Ciampi nelle sue Notizie della Sagrestia Pistoiese de'Belli Arredi ecc. due documenti del 1272 e 1273; nel primo de'quali si legge Magister Nicola quand. Petri de egli arbitrariamente suppli quella lacuna che cade appunto dove più importava che non fosse, colla parola Senis, mentre sarebbe stato meglio coll'altra Apulia, cioè con quella medesima che per dichiarare la patria di Niccola e di Pietro è scritta nello strumento del 1266. Nell'altro poi che egli riferi in questo modo : Magistro Nichole quand. Petri de Senis ser Blasii pisa si legge invece, come abbiamo riscontrato noi stessi nell'originale pergamena, Magistra Nichale quondam Petri de cap- pella Santi Blasii pisa Il che è stato cagione dell'errore durato fino ad oggi di credere che Niccola nascesse da un Pietro da Siena, figliuolo d'un Ser Biagio, notaio pisano. DI NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 325 Ad ogni modo, qualunqtie delle dne opinioni che ci sono intorno a questo fatto si voglia seguitare, o che Niccola sia nativo del detto vil- laggio di Puglia, o che abhia avuto Pisa per patria, sarà sempre vero che egli fu, ed è tuttavia da riputare per origine e per nazione in tutto Toscane. Avendo affermato il Crowe e il Cavalcaselle, seconde la interpretra- zione data da loro alla parola Apulia del più volte citato strumento, la origine pugliese o napoletana di Niccola; vengono alia seconda e più im- portante parte del lore assunto; la quale Ù, che la educazione artística di Niccola sia stata nelle parti meridionali d'Italia, e non nella Toscana. E per meglio procedere alia sua dhnostrazione, si fanno primamente a ricercare e descrivere le opere di scultura che sono ancora in essere nella Toscana e a Parma, fatte innanzi la venuta di Niccola; e trovanoin Pistola un maestro Roberto che scolpi nel 1167 sull'architrave delia porta prin- cipale di San Bartolommeo in Pantano, Cristo che manda gli Apostoli a predicare la sua dottrina; un maestro Enrico che intagliò i capitelli de'pila- stri che sostengono l'architrave delia porta maggiore di Sant'Andrea, nei quali espresse Tángelo con Zaccheria, l'Annunziazione e la Visitazione; un maestro Gruamonte, che sulla porta di S. Giovanni fuorcivitas fece circa il 1180 la ultima Cena, e scolpi in compagnia d'Adeodato suo fratello, nel 1196 (e non 1166, come è state detto) il viaggio de'Magi sulTarchî- trave delia porta delia suddetta chiesa di Sant'Andrea. Ne tralasciano d'esa- minare il pulpito scolpito da anonimo nel 1180 in San Michèle a Groppoli, fuori di Pistoia, nel quale sono in bassorilievo le storie delTAnnunzia- zione, délia Visitazione, délia Natiyità di Cristo, del suo Battesimo, e delia Fuga in Egitto. Passando quindi a Pisa, discorrono di Buonanno, autore nel 1180 delle porte di bronze delia Primaziale, state distrutte dalT incendio del 1595, e delle altre porte parimente di bronze fatte da lui nel 1186, che ancora si veggono nel duomo di Monreale. Poi descrivono i bassori- lievi del Battistero di quella citta lavorati da un anonimo, e quelli di un çarcofago conservato nel Camposanto, scolpiti da maestro Bonamico. Régi- strano quindi passando a Lucca il fonte battesimale, opera di un maestro Biduino, nella chiesa di San Frediano, e il gik ricordato bassorilievo di maestro Guidetto sulla facciata di San Martine, rappresentante il Santo che da parte del suo mantello al povero ignudo. E finalmente vanno a Parma, e vi notano le sculture di Benedetto d'Antelamo, nel Duomo e nel Bat- tistero, degli anni 1178 e 1196. Dopo la quale ricerca ed esame, considerando i detti critici che tutte le accennate opere degli scultori toscani sono povere d'invenzione, goife nel sentimento, e rozze nell'esecuzione, e che appartengono ad un'arte che si pub dire semin-e bambina, la quale sarebbe impossibile ricongiun- gere anche da lontano e passando per infiniti gradi con quella di Niccola; 326 COMMENTARIO ALLA VITA eel osservando altresi, die questo si pub meglio e j)iù agevolmente fare col- Tarte méridionale di que'medesimi tempi, della quale si Lanno tuttavia molte e pregevolissime opere di scultura ad Amalfi, a Salerno, a Troia, ed in altri luoghij vengono in ultimo a questa conclusione, cioe, che la educazione artistica di Niccola, piuttostoche in Toscana, sia stata nel mezzogiorno d'lt.alia; della cui arte ragionando, dicono che essa ne'soggetti cristiani fu schiettamente bizantina; e che solamente nelle parti ornative si' valse delT elemento moresco, essendo noto che gli Arahi furono in siffatto genere di lavori, sopra gli altri, eccellenti. Aggiungono oltraccib, che prevalendo semjpre in essa i due elementi bizantino ed arabo, divenuti per cosi dire indigeni, non vi cessb per questo Tinfluenza delTelemento pagano, il quale essi non dubitano di chiamare locale. Dichiarata cosi la natura e le prin- cipali qualità di quelTarte, affermano non potersi negare che Niccola non ne abbia sentito Tinfluenza, avendo le sue oj)ere grandissima somiglianza con quella, nelle forme e nel carattere. Che se questo legame e corrispon- denza tra Tarte del mezzodi e quella di Niccola non fosse, bisognerebbe ammettere che egli non abbia avuto chi lo precedette: il che e inverosi- mile; 0 che egli avesse portata Tarte sua in quella contrada: la quai cosa non pub essere, perche Tarte nel mezzogiorno d'Italia era coltivata e florente in ogni ramo flno dai tempi de'Normanni. Cosi si pub spiegare ed intendere, come Niccola abbia saputo inventare e scolpire nel 1260 il per- gamo del Battistero di Pisa; nel quale, abbandonando le tradizioni reli- giose fino allora seguitate nelTarte, ed aile sottili e leggiere forme de'suoi predecessori, sostituendo le carnose e pesanti delTarte romana della deca- denza, già dimenticata e quasi spenta, diede con questa ardita novitk diverso indirizzo alla scultura, e fu prima cagione del felice mutamento di lei verso il suo meglio. Quando uno scrittore si è gih formato nella mente un concetto, cerca con ogni industria di rivolgere alla dimostrazione sua le testimonianze della storia e de'monumenti. Cosí coloro -che sostengono Niccola aver deri- vato Tarte sua dal mezzogiorno, si sforzano, innalzando quella oltre il ragionevole, di abbassare Tarte Toscana, perche giova al loro assunto. Noi non negheremo, essendo evidente, che tra le opere di Niccola e quelle degli scultori toscani che lo precedettero, passi quanto alia técnica, gran- dissima differenza, ma al tempo stesso vogliamo che ci si conceda di credere che questa medesima differenza, sebbene alquanto minore, inter- ceda tra Niccola e gli scultori meridionali. Rispetto ai quali, paragonati coi toscani, si vede bene che ebbero sempre per guida le tradizioni e le pratiche dèlTarte bizantina: e se essi vincono in qualche parte i Toscani, non è per altra ragione, se non perché pih direttamente dai greci maestri impararono, e fácilmente nella stessa Costantinopoli, e sotto la loro guida DI NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 327 -condussero le opere di bronzo che ornano le porte di alcune chiese del mezzogiorno. Ma dalF altra parte si conosce che se i maestri toscani cedono ai meridionali, serbano nondimeno uno stile più semplice ed uniforme. Ed ora venendo più specialmente a discorreré di Niccola, diremo che noi siamo all' oscuro circa a' primi trent' anni della sua vita. La volta cho prima egli comparisce nella storia è. nel 1260, quando piglia a, scol- pire il pergamo del Battistero di Pisa; ma è certo che egli non puo aver incominciato la sua carriera artística con quest' opera. Dove stette, che cosa fece innanzi a quel tempo, è ignoto. Eorse, sebbene il Crowe e il Cavalcaselle sieno di contrario parère, e ne dubiti il Dobbert, una delle sue primizie scultorie è quel bassorilievo del Deposto di Croce che è dentro la chiesa di San Martino di Lucca, tanto lodato dallo stesso Cavalcaselle, e da lui riputato una delle migliori opere di scultura toscana fatte innanzi a Niccola. Al quale il Vasari attribuisce il disegno di alcuni edifizi civili e reli- giosi innalzati in Napoli da re Carlo I, mentre dagli scrittori najpoletani sono invece attribuiti ad un loro architetto chiamato Masuccio I, della €ui esistenza, e con più ragione di quella di Masuccio II, è permesso sempre di.dubitare, finche non se ne adducano prove e testimonianze certe e contemporanee. Ma il Vasari e gli altri non hanno mai ricordato di lui un'opera sola di scultura in quelle parti, dove essendo nato ed allevato, come oggi si vorrebbe, è ragionevole che egli dovesse aver lasciato qualclie documento dell'arte sua. Noi abbiamo veduto che i detti critici fondano più specialmente la novella loro opinione intorno alia derivazione artística di Niccola, la sopra grande somiglianza che dicono esistere nelle forme e nel carattere i^agano tra Parte di lui e quella del mezzogiorno. Ma questa somiglianza a noi invero non riesce di trovare : perché, se fácilmente riconosciamo che nelle opere di Niccola sia un aperto studio ed imitazione dell'arte antica, non possiamo concederé che questo medesimo studio ed imitazione si osservi negli artefici meridionali; i quali all'elemento bizantino, che fu fondamen- tale nell'arte italiana di que'tempi, ne aggiunsero altri, comè il mauro e il normanno, secondochè le vicende politiche di quel paese portarono; mentre deir elemento pagano non pare a noi che vi se ne vegga traccia. Ma della qualith particolari che formano lo stile di Niccola avendo parlato il Dob- bert nel citato libretto, con grande acume critico, e con non minor dottrina « verith, noi riferiremo per sommi capi il suo ragionamento, stimando di non poter dire ne meglio ne più appropriatamente di lui sopra questo argomento. Il Dobbert adunque esaminando lo stile di Niccola, s]Decialmente nel pergamo del Battistero di Pisa, che è Popera più antica che si abbia di lui, e con data certa, prova che egli, quanto al modo di rappresentare le 328 COMMENTAEIO ALLA VITA storie de'suoi bassorilievi, cosi nella invenzione, come nella disposizione dalle figure si attenne alia tradizione bizantina, la oui maniera era da lunga pezza introdotta e sparsa nell'Occidente; ma quanto allé forme delle sue figure, le quali si diiferenziano grandemente da quelle usate per lo- innanzi nell'arte cristiana, è manifesto che egli le trasse dagli antichi; in modo che è facile riconoscere quelle, nelle quali segui I'arte del suo tempo, dairaltre che cavo dallo studio diligente delia natura e dalF esempio ed imitazione dell'antico, non sempre con opportunity e con ragione intro- dotto da lui ne'suoi soggetti. Cosicche, secondo resemj)lare che egli ebbe innanzi, ora apparisce tozzo, pesante ed affollato, ora svelto, leggiero e sobrio. Di più dice il Dobbert che un altro contrassegno caratteristico dello stile di Niccola è la vigorosa rotondith che dh alie sue figure, le quali si spiccano quasi interamente dal fondo; e che in questo egli non ha nessun riscontro ne coi Bizantini, ne co'suoi predecessori cosi di Toscana, come d'altre parti d'Italia, i quali, al modo greco, solevano dare alie loro po- chissimo rilievo. Un'ultima osservazione, non meno importante delle altre, e che Niccola in alcune parti ornamentali ed architettoniche delle sue opere usó le forme cosi dette gotiche, le quali invano si cercherebbero, se non dopo di lui, nell'arte méridionale; essendo invece provato per altri esempj che esse erano per 1" innanzi state introdotte nella Toscana. Di j)iù noi vogliamo aggiungere, che, per confessione degli stessi critici, certe quality che furono proprie dello stile di Niccola, si riscontrano in parte ne'maestri pisani suoi predecessori, come j)er esempio le figure tozze e ne'bassorilievi degli sguanci della porta orientale del Battistero grosse di Pisa, scolpiti da Buonamico, e le figure che sentono V antico in quelli dello scultore anonimo de'pilastri e dell'architrave del detto Battistero: il che mostra che anche prima di Niccola gli scultori pisani avevano co- minciato a studiare negli esemplari dell'arte antica, de'quali Pisa doveva essere in que'tempi più abbondante che oggi non è. Se dunque Niccola, conformandosi colla tradizione bizantina quanto alla, invenzione e al carattere generale delle storie che introduce nelle sue opere, se ne differenzia poi nelle forme e nella esecuzione plástica, derivate in lui dallo studio e dalla imitazione dell'antico; se nelle parti architettoniche ed ornamentali seguita quelle che si dicono gotiche, le quali, prima che altrove, si cominciarono ad usare nel centro d'Italia e specialmente nella Toscana; noi non intendiamo perche avendosi in Pisa argomenti e testimonianze cosi chiare e alla mano per provare 1' influenza dell'arte toscana sopra Niccola, si voglia invece andar cercándola nel mez- zodi d'Italia, dove è impossibile che vi si trovi ció che forma il precipuo carattere dello stile di Niccola. Che se la sua educazione fosse stata, come dicono, alia scuola méridionale, non si vede perchó nelle sue opere non DI NICCOLA E GIOVANNI, PISANI 32^ clovesse apparire qualche cosa che fu propria di quella scuola; colla quale invece egli non ha altra comunanza se non nel seguiré la tradizione hi- zantina; ina se ne differenzia in una parte essenzialissima, la quale trova solamente riscontro nelle pratiche e negl'intendimenti dell'arte toscana. B ci fa non piccola maraviglia che alcuni, pigliando occasione dalla presente controversia, vadano con enfatiche parole predicando e scrivende che nel mezzogiorno d'Italia sia stata dall'undécimo secolo fino a Fede- rigo II un'arte che chiamano nazionale, indígena, origínale e scevra ín tiitto delVelemento bizantino, alia quale assegnano le opere di pittura e di scultura di que' tempi che si veggono tuttavia sparse per le chiese e i mo- nasteri di quelle parti j parendo che questa loro sentenza, contradica al processo storico dell'arte in Italia, la quale non fu per tutto quel periodo se non una imitazione più o meno golfa della maniera bizantina, la cui influenza più che altrove si distese, e fu piü diuturna nel mezzogiorno per effetto della lunga dominazione greca. Ad ogni modo dato e non concesso che la loro opinione possa esser vera, bisogna pur dire che quest'arte méridionale, proclamata con si magnifici nomi, non fosse invero che beri povera cosa, e senza forze proprie, se nello spazio di un secolo essa era di tanto declinata e quasi spenta, che Cario I e i suoi successori furono costretti a chiamare di fuori gli artefici, e specialmente dalla Toscana, dove l'arte, dopo aver menato vita misera e stentata al pari di quella, brovo in sh tanta virtu, che aiutata dagl'ingegni paesani, e rinvigorita dalla liberth, s'aperse una nuova via, nella quale mettendosi animosa- mente, opero che, dimenticata la vecchia maniera, fosse la novella a poco a poco in ogni parte d'Italia seguita ed abbracciata. Venuti al fine di questo nostro Commentario, nel quale abbiamo ten- tato di difendere l'origine e la educazione toscana di Niccola con quelle migliori ragioni ed argomenti che avevamo in pronto, contro coloro che si sforzano di far prevalere la contraria opinione; noi crediamo d'avere sod- disfatto all'obbligo nostro, il quale era di rivendicare alla Toscana la gloria,, meritamente e senza contrasto posseduta da lei per lo spazio di sei secoliv di essere stata la culla, e al tempo stesso la scuola di Niccola Pisano. ANDREA TAEI 331 PITTORE FIOKENTINO ( Nato nel 1250 ? ; viveva ancora nel 1320 ) Siccome recarono non piccola maraviglia le cose di Cimabne (avendo egli dato all'arte della pittura miglior disegno e forma) agli uomini di que'tempi, avvezzi a non vedere se non cose fatte alia maniera greca; cosí 1'opere di musaico d'Andrea Tafi, che fu nei medesimi tempi, furono ammirate; ed egli perciò tenuto eccellente, anzi divino, non pensando que'popoli, non usi a veder altro, che in cotale arte meglio operar si potesse„^ Ma di vero, non essendo egli il più valente nomo del mondo, consi- derato che il musaico per la lunga vita era piii che tutte raltre pitture stimato, se n'andò da Firenze a Venezia, dove alcuni pittori greci lavoravano in San Marco di mu- saico;® e con essi pigliando dimestichezza, con preghi, * Al Vasari, che pur doveva aver veduti i musaici delle chiese di Roma, di Ravenna e di Napoli, e aver sentito almeno parlare di quelli di Palermo e di Monreale, come poterono cader dalla penna queste parole ? ® *Che r arte del musaico non si perdesse mai in Italia, lo provarono con dolte testimonialize di antichi scrittori il Muratori, in prima, nellaDissertazione 24 delle sue AnticMtà italiane del medio-evo, ove riferi per intero un trattato di 332 ANDREA TAFl con danari e con promesse operó di maniera, che a Fi- renze condnsse maestro Apollonio pittore greco, il quale ghinsegnó a cuocere i vetri del musaico e far lo stucco per commetterlo; ed in sua compagnia lavorò nella tri- buna di San Giovanni la parte di sopra, dove sono le Po- testà, i Troni e le Dominazioni: nel quai luogo poi An- drea, fatto più dotto, fece, come si dirà di sotto, il Cristo che è sopra la banda délia cappella maggiore. ^ Ma, avendo fatto menzione di San Giovanni, non passerò con silen- zio, che quel tempio antico ë tutto, di fliori e di dentro, lavorato di marmi d'opera corintia ; e che egli ë non pure in tutte le sue parti misurato e condotto perfettamente, e con tutte le sue proporzioni, ma benissimo ornato di porte e di finestre, ed accompagnato da due colonne di granito per faccia, di braccia undici Puna, per fare i tre vani; sopra i quali sono gli architravi che posano in su le dette colonne, per reggere tutta la macchina della volta doppia: la quale ë dagli architetti moderni come cosa singolare lodata, e meritamente: perciocchë ella ha mostrato il buono che già aveva in së quell'arte, a Filippo di ser Brunellesco, a Donatello, ed agli altri maestri di que'tempi, i quali impararono Parte col mezzo di quel- Popera e della chiesa di SanF Apostelo di Firenze; opera di tanto buona maniera, che tira alla vera bontà antica; avendo, come si ë dette di sopra, tutte le colonne di pezzi misurate e commesse con tanta diligenza, che si può molto imparare a considerarle in tutte le sue parti. Ma, per tacere moite cose che della buona architettura varie pratiche o segreti sulla arti e sul musaico, scritto nel secolo viii, il quale si conserva nell'Archivio Capitolare di Lucca; e poscia monsignor Furietti, nella sua bella ed erudita opera De Musivis: dalla quale apparisce che non solo l'arte del musaico non fu perduta, ma (quel che è più, e contradice all'asserzione del Vasari) che essa fu esercitata da artefici italiani, anche avanti a'tempi di Fra lacopo Francescano, del Tafi e del Gaddi. * * Interno a questo Apollonio, preteso greco, vedasi il Comrnentario in fine di questa Vita. ANDREA TAFI 333 di questa cMesa si potrebbono dire, dirò solamente che niolto si divio da questo segno e da questo buon modo di fare, quando si rifece di marmo la facciata della chiesa di San Miniato sul Monte fuor di Firenze, per la conver- sione del beato Giovanni Gualberto cittadino di Firenze, e fondatore della congregazione de'Monaci di VaU'Om- brosa; perche qnella, e moite altre opere che furono fatte poi, non furono punto in bontà a quelle dette somiglianti/ Il che medesimamente avvenne nelle cose della scultura; perche tutte quelle che fecero in Italia i maestri di quel- l'età, come si è detto nel Proemio delle Vite, furono molto goffe: come si può vedere in molti luoghi, e par- ticolarmente in Pistoia in San Bartolommeo de' Canonici regolari; dove, in un pergamo fatto goffissimamente da Guido da Como, è il principio della vita di Gesù Cristo con queste parole, fattevi dall'artefice medesimo l'anno II99; Sculptor laudatur, qui doctus in arte prohatur, Guido de Como me cunctis carmine ^ promo. Ma per tornare al templo di San Giovanni, lasciando di raccontare l'origine sua, per essere stata scritta da Giovanni Villani e da altri scrittori,;® avendo gik detto * *Qui il Vasari contraddice a quelle lodi ctie meritamente aveva dato al- I'architettura di questa Basilica, nel Proemio delle Vite a pag. 236. ^ In questo pergamo veramente è scritto, dopo i due versi riportati dal Va- Sari, Anno Domini mccl ; e quindi altri due versi che dicono: Est operi sanus superestans Turrisianus Namque fide prona vigil ho' (hunc) Deus inde corona. U quale Torrisiano, cheilCiampi credette lo scultore delle parti men bhone di questo pergamo, a noi sembra piuttosto che fosse 1'opéralo, oil soprintendente al lavoro. II superestans operi equivale al prestantes operi che è scritto nella facciata di San Salvadore della stessa Pistoia. ® Dal Villani, secondo la volgar tradizione; da altri, secondo piú o men probabili congetture. E stando alie piú probabili, il templo, come giá si ac- cennô, può credersi del sesto seco lo. Formato in gran parte di frammenti antichi, poté esser creduto piú antico. La confusione e 1' invertimento degli ordini ( vedi il D'Agincourt, il Cicognara, ecc.), I'uso che vi fu fatto di qualche lapida pre- ziosa in luogo di semplice materiale ecc., mostrano esser opera di tempi barbarici. 334 ANDREA TAFI che da quel tempio s'ebbe la buena architettura che oggi ë in uso, aggiungerò che, per quel che si vede. ]a tribuna fu fatta poi; e che, al tempe che Alesse Baldo- vmetti, dope Lippe pittere fierentine, raccenciò quel mu- saice, si vide ch'ella era stata anticamente dipinta e disegnata di rosse, e laverata tutta sulle stucco. Andrea Tafi, dunque, e Apellenie greco fecere in quella tri- buna, per farle di musaice, une spartimente che strin- gendo da cape accante alla lanterna, si veniva allargando insine sul piano délia cornice di sotte, dividende la parte più alta in cerchj di varie sterie. Nel prime sono tutti i ministri ed esecuteri délia velenth divina; cieë gli An- geli, gli Arcangeli, i Cherubini, i Serafini, le Petestati, i Treni e le Deminazioni. Nel seconde grade sene, pur di musaice alla maniera greca, le principali cese fatte da Die, da che fece la luce insine al diluvie. Nel gire che ë sotte questi, il quale viene allargando le ette facce di quella tribuna, seno tutti i fatti di leseffe e de'suei dedici fratelli. Seguitane pei sotte questi, altri e tanti vani délia medesima grandezza, che girane símilmente innanzi, nei quali ë pur di mosaico la vita di Gesù Cristo, da che fu concetto nel ventre di Maria, insine all'aseen- siene in cielo; pei, ripigliande il medesime erdine, setto i tre fregi ë la vita di San Giovanni Battista, ceminciando dairappariziene dell'Angelo a Zaccheria sacerdote, in- sino alia decellaziene e sepeltura che gli danno i suoi discepeli. Le quali tutte cese essende geffe senza dise- gne e senz' arte, e non avende in së altre che la maniera greca di que'tempi, ie non ledo sempliceihente, ma si bene avute rispette al modo di fare di quell' eth, e al- Timperfette che allera aveva l'arte della pittura: senza che, il lavere ë salde, e sene i pezzi del musaice molto bene cemmessi. Insemma, il fine di quell'opera ë molto migliere, o, per dir meglie, manco cattivo che non ë il principie; sebbene il tutte, rispette alie cese d'oggi, ANDREA TAFI 335 muove piuttosto a riso che a piacefe o maraviglia. An- drea, finalmente, fece con molta sua lode, da per se e senza l'aiuto d'Apollonio, nella detta tribuna, sopra la banda délia cappella maggiore, il Cristo cbe ancor oggi si vede, di braccia sette. Per le quali opere famoso per tutta r Italia divenuto, e nella patria sua eccellente re- putato, mérito d'essere onorato e premiato largamente. Fu veramente felicità grandissima quella d'Andrea, na- "scer in tempo cbe, goffaniente operandosi, si stimasse assai quelle cbe pocbissimo o piuttosto nulla stimare si doveaP la qual cosa medesima awenne a Fra lacopo da Turrita® deU'ordine di San Francesco; perche avendo fatto r opere di musaico cbe sono nella scarsella dopo faltare di dette San Griovanni,® non estante cbe fussero poco lodevoli, ne fu con premj straordinarj remunerate, e poi come eccellente maestro condotto a Roma; dove lavorò alcune cose nella cappella delf altar maggiore di San Griovanni Laterano, e in quella di Santa Maria Mag- gioreA Poi, condotto a Pisa, fece nella tribuna princi- ' *Questo è uno dei passi delle Vite, dove il Vasari svela il gusto del tempo suo, e il suo contradittorio e pregiudicato modo di sentenziare sulle opere del- l'arte ch'egli chiama vecchia. Ma oggi che, per buona sorte, va cessando quel disprezzo, al quale furono dagli accademici condannate le opere dei vecchi arte- fici, anche i primi tentativi dell'arte rinascente sono considerat! e studiati; im- perciocchè si comincia a più umversalmente conoscere che nella parte più es- senziale dell'arte, cioè nel concetto e nel sentimento, anche le opere di questi tempi, piuttosto che muovere al riso, sono degne di ammirazione e di riverenza. ^ *Vedi il Commentario in line di questa Vita. ^ Cioè la tribuna aggiuntavi (nel 1200) per far il coro, e nella quale è un'iscrizione métrica che riferiremo più sotto, ove leggesi il nome dell'autore de'musaici, l'anno in cui li fece o terminó, cioè il 1225, ecc. Di che vedi coloro che hanno parlato del templo, ove essi ancor si veggono, i quali, in confronto di quelli d'ogni altro, sono henissimo conservat!. *Nella tribuna o abside di San Giovanni'Laterano, fatto fare da Niccoló IV nel 1291, dov'è figurata la Croce mística in mezzo alla Beatissima Vergine, san Giovanni, sant'Antonio, san Francesco e cinque Apostoli. II nome del musai- cista, cosí scritto : Iacobus Torit. pictor hoc opus fecit , è nell'angelo a sinistra di chi guarda, sotto i pied! di san Paolo. Ebbe il Torriti in aiuto Fra lacopo da Camerino, Francescano, del quale debbono essere le figure dei nove Aposto!! che si vedono nella fascia o fregio sottoposto al gran musaico; imperciocchè il 336 ANDREA TAFl pale del Duomo, colla medesima maniera che aveva fatto r altre cose sue, aiutato nondimeno da Andrea Tafi e da Oaddo Gaddi, gli Evangelisti ed altre cose che vi sono; le quali poi furono finite da Yicino,^ avendole egli la- sciate poco meno che imperfette del tutto. Furono dunque in pregio per qualche tempo V opere di costero ; ma poi che ropere di Giotto furono, come si dirà al luego suo, poste in paragone di quelle d'Andréa, di Cimabue e degli altri, conobbero i popoli in parte la perfezione dell'arte, vedendo la differenza ch'era dalla maniera prima di Cimabue e quella di Giotto nelle figure degli uni e degli altri, ed in quelle che fecero i discepoli ed imitatori loro. Dal qual principio, cercando di mano in mano gli altri di seguiré l'orme de'maestri migliori, e sopravanzando l'un l'altro felicemente più l'un giorno che l'altro, da tanta hassezza sono state quest'arti al colmo della loro perfezione, come si vede, innalzate. Visse Andrea anni ottant'uno, e mori innanzi a Cimabue nel 1294.® E per la reputazione e onore che si guadagnò col musaico, per averio egli prima d'ogni altro arrecato ed nome si legge presso il suo ritratto, ch'è una figura in ginocchio vestita del- r abito francescano, avente in mano unmartello, con accanto la scritta: F. Ja- coBus dk Camerino socios Magistri ' operis. L altro musaico in Santa Maria Maggiore, parimente nell' abside, e rappresentante l'Incoronazione della Vergiue, fu fatto fare dallo stesso Niccolò IV, che vi si vede effigiato di faccia al cardinal lacopo Colonna. E quivi il nome di lacopo musaicista è scritto egualmente alia sinistra di chi guarda, accanto a san Francesco; Jacobus Toriti pictor hoc opus m0saicen fecit. Ed alla destra è l'anno mccxcv. ' Pittor pisano, del quale è parlato nella Vita del Gaddi. ' t Circa alla nascita d'Andréa, a noi pare molto piú verosimile di assegnarla all'anno 1250, piuttostochè al 1213, come vorrebbe il Vasari. È certo che Andrea viveva ancora nel 1320, nel quale anno si trova tra i matricolati all'Arte de'Me- >' ';·."·4·í\ 'if'f· ' , i->j Je t ^ ^ "I k., 5,., / «T ■^^'ffC * -r. 1 ^ * i^·'1 í Jií ^ «·j«« 1 #•■%: 4*- «^X- "Í-Í-Víiüfe £ «I -ííí^W^íf i»- ^ "»_ - V N V-fVí^< .*•• •• .-.ji-w'. • · ;.-sw s¿í&v-Ty,--; h··>>^·r";ç·f^ '' JtííSeí' A ^ ^ 'ní -7^TS?i^'^'í5.í^:':·V' ;; fjsrássy * ^ li, fe\ ^\^,- * »,> Â. » '^WF' á%^. -£%_5' /t IfL v.- ». f-'?^ 7n ' ^ ^ pfa. ^ Y ,v-^^ K -^ir 4 i » 'Si.r· r i 1 Iff-Té-Aj-^t s , it SW > ;î^ ft--Çiíi-"^ 4? ^·v'·|t·\···'· ·l- i . ?í>,¿ * / >» / 'M í--''f#~;"Aí^r«. . - ^ * \?lA< T"'» B-J Vf^""'*fY"St»î''^ î rf-'·'tl í"l T !>.'^ ■^ .4^ ^ Aftl .( ..._ . .._í;I.!f.T r*^r}5?^V\-¿ioï-ooi:»f' ,3e»eK \%k ^ -T^W. Xf ^ i, v^í í,, "ï Y 1 í-<. «»,« ...-V . ^ > ''"-4í· ^ \/3',v€V7!!.-Í!íïí, few^ , ^ . y f"^ is. -^Ti,-,- V h Y ' 1% ■•W M j( * *íaV vi ~ 3 A-.'-y ^ -- ^ ^ _J -i^íí. f j íj^y G-IOTTO 369 PITTORE, SCÜLTORE E ARCHITETTO FIOREHTINO ^ííato nel 1266; raorto nel 1336 (s. c. 1337) Queir obbligo stesso che hanno gli artefici pittori alia natura, la quale serve continuamente per esempio a co- loro che, cavando 11 buono dalle partí di leí migliori e più belle, di contraííarla ed imitarla s'ingegnano sem- pre;^ avere, per mió credere, si deve a Giotto, pittore íiorentino: perciocchë, essendo stati sotterrati tanti anni dalle rovine delle guerre i modi delle buone pitture e i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra arte- fici inetti, per dono di Dio, quella che era per mala via, risuscitò ed a tale forma ridusse, che si potette chiamar buena. E veramente fu miracolo grandissime, che quella età e grossa ed inetta avesse forza d'operare in Giotto si dottamente, che il disegno, del quale poca o niuna cognizione avevano gli uomini di que' tempi, mediante lui ritornasse del tutto in vita. ^ E nientedimeno i prin- * « Queir obbligo istesso, che hanno gli artefici pittori alia natura, la continuamente quale serve per esempio a quelli, che cavando il buono delle parti di lei più mirabili e belle, di contraífarla sempre s'ingegnano ecc. » Cosi nella prima edizione, ove non di rado i periodi hanno ad un tempo e più semplicitá e piü armonia. ® Qui altre declamazioni degli scrittori, che negano a Giotto questo •come vanto; negano quello, che giá vedemmo dato dal Vasari a Cimabue. «Mailfatto (dice il Lanzi) vince ogni facondia. Giotto fu il padre delia nuova pittura, como Vasabi , Opere. — Vo!. i. 24 370 GIOTTO .cipj di si grand'uomo furono, l'anno 1276/ nel contado di Firenze, vicino alia città qnattordici miglia, nella villa di Vespignano/ e di padre dette Bondone, lavoratore di terra e naturale persona.® Costui, avuto qnesto figliuolo, al quale pose nome Giotto/ l'allevò, secondo lo stato suo, costumatamente. E quando fu all'età di dieci anni pervenuto, mostrando in tutti gli atti ancora fanciulle- schi una vivacità e prontezza d'ingegno straordinario, che lo rendea grato non pure al padre, ma a tutti quelli an- cora che nella villa e fuori lo conoscevano ; gli diede Bon- done in guardia alcune pecore, le quali egli andando pel podere, quando in un luogo e quando in un altro pa- sturando, spinto dall'inclinazione della natura all'arte del disegno, per le lastre ed in terra o in su l'arena del continuo disegnava alcuna cosa di naturale, ovvero che gli venisse in fantasia. Onde andando un giorno Cimabue per sue bisogne da Fiorenza a Vespignano, trovó Giotto che, mentre le sue pecore pascevano, sopra una lastra delia nuova prosa il padre fu detto il Boccaccio .... Un Simone da Siena, uno Stefano da Firenze, un Pietro Laurati ecc., aggiunsero vezzo all'arte; ma essi e gli altri ingegni deggiono a Giotto il passaggio da un vecchio ad un nuovo stile ». ' t Circa alia nascita di Giotto, che il Vasari assegna all'anno 1276, oggi si vuole tirare a dieci anni indietro, cioè al 1266, seguitando in ció l'autorità di Antonio Pucci, il quale nel suo Centiloquio, pubblicato nelle Delizie degli Eruditi Toscani, dice che Giotto mori nel 1336 di settant' anni. Ed invero con- siderando che egli lavorô in Roma nel 1298 il musaico della Navicella di san Pietro e due anni dopo le altre opere commessegli da papa Bonifazio VIH, pare piú probabile che compisse que'lavori di 32 anni, quando era piú maturo d'etá e d'esperienza, piuttostochè di 22, secondo il computo vasariano. * Nacque Giotto nel villaggio del Colle posto nel comune di Vespignano, come testimoniano moltissimi strumenti riguardanti la sua persona. ® Abbiamo dal Baldinucci l'albero di sua famiglia, che noi riporteremo in fine di questa Vita, riscontrato sui documenti che servirono ai Baldinucci per compilarlo. * "*Fu controversa fra gli scrittori la derivazione di questo nome. II Manni lo fece un'accorciatura di Angelotto, altri di Ambrogiotto: e noi stiamo col Manni. Ma il Cinelli, nella citata scrittura inédita contro i Becennali del Bal- dinucci, afferma che Giotto non sia accorciatura di nome, ma sibbene un nome proprio e particolare di persona. La quale opiuione, per molti altri esempi, si puó ritenere verissima. GIOTTO 371 piaña e pulita, con un sasso un poco appuntato, rltraeva una pécora di naturale, senza avere iinparato modo nes- suno di ció fare da altri che dalla natura: perché fer- matosi Cimahue tutto maraviglioso, lo domando se voleva andar a star seco. Rispóse il fanciullo, che, contentan- dosene il padre, anderebbe volentieri. Dimandandolo dun- que Cimahue a Bondone, egli amorevolmente glie lo con- cedette, e si contentó che seco lo menasse a Firenze:* là * i Nella vita degli uomini, i quali da umili principj salirono proprio per virtú del ingegno a grande altezza di fama, v'è stato mescolato alcun di sempre che straordinario e di favoloso. Questo racconto del Vasari, che Commentario del egli prese dal Ghiberti, ha per noi tutta l'apparenza d'una favoletta. Ben al« trimenti si narra il fatto dell'andata di Giotto nella bottega di Cimabue in un Commente anónimo della Divina Commedia scritto sulla fine del secolo xiv e blicato in Bologna dal pub- 1866 al 1874, dalla Commissione de'Testi di Le parole dell'anónimo, lingua. che, oltre al contradiré al racconto del Vasari, danno ancora qualche nuovo particolare della vita di Giotto, dicono cosi : « Giotto similmente « fu dipintore et .maestro grande in quella arte, tanto che non solamente in Fi- « renze, d'onde era nato, ma per tutta Italia corse il nome suo. Et dicesi che « '1 padre di Giotto l'avea posto all'arte della lana, et ogni volta ch'egli n'an- « dava a bottega, si fermava et ponea alia bottega di Cimabue. II padre domando « il lanaiuolo con cui avea posto Giotto, com'egli facea: risposegli: egli è « tempo ch'egli non v'era gran stato: trovó últimamente ch'elli si rimanea « tori, dove la co'dipin- natura sua il tirava: ond'egli per consiglio di Cimabue il levó « dall'arte della lana et poselo a dipingniere con Cimabue. Di venue gran mae- « stro et corse in ogni parte il nome suo: et moite dell'opere sue si truovanp, « non solamente in Firenze, ma a Napoli et a Roma et a Et « che Bologna. dicesi, oltre ail'arte del dipigniere, egli fu intendente et valente et éloquente « uomo: et dipigniendo a Bologna una cappella, il Cardinale che a quel « tempo era Legato e Vicario della Chiesa in Bologna, andando spesso a vederlo, « giovava gli di ragionare con lui: et faccendo un di et dipigniendo un Vescovo et « facendogli la mitria, il Cardinale, per udirlo, il dimandô un di, per che a've- « scovi si facea la mitria. Giotto gli rispóse. Signore et il padre reverendo, voi « sapete: ma poi che voi volete udirlo da me, quéste due corna « et dimostrono significano che chiunque tiene luogo di vescovo o d'altro cherico che « mitria, porti egli debbe sapere il Testamento vecchio et il nuovo. Il Cardinale non « contento a questa risposta, che gli piacque, il dimandô: che vogliono dire « due quelle bende che si pongono pendenti dirietro alla mitria? Giotto ch'egli accorgendosi « avea diletto di lui, et ch'egli l'uccellava, disse: Queste due bende si- « gnificano ch' e' Pastori d'oggi che portano mitria, non sanno nè il Testamento « vecchio, nè il nuovo, et però l'hanno gettate dirietro. Compose et ordinô il « campanile di marmo di Santa Riparata di Firenze: notabile « di campanile et gran costo. Commissevi due errori: l'uno che non ebbe da « l'altro ceppo piè, che fu stretto: pôsesene tanto dolore al cuore, ch'egli si dice, « ne 'nfermô ch'egli et morissene. » 372 GIOTTO dove venuto, in poco tempo, aiutato dalla natura ed am- maestrato da Cimabue, non solo pareggiò il fancinllo la maniera del maestro suo, ma divenne cosi buono imita- tore della natura, che sbandi affatto quella golfa maniera greca, e risuscitò la moderna e buona arte della pittura, introducendo il ritrarre bene di naturale le persone vive : il che più di dugento anni non s'era usato: e se pure si era provato qualcuno, come si è detto di sopra, non gli era ció riuscito molto felicemente, nè cosí bene a un pezzo, come a Giotto. II quale, fra gli altri, ritrasse, come ancor oggi si vede, nella cappella del palagio del Pode- sth di Firenze, Dante Alighieri, coetáneo ed amico suo grandissimo, e non meno famoso poeta che si fusse nei medesimi tempi Giotto pittore;^ tanto lodato da messer Giovanni Boccaccio nel proemio della novella di messer Forese da Rabatta e di esso Giotto dipintore.^ Nella me- desima cappella ë il ritratto, símilmente di mano del medesimp, di ser Brunetto Latini maestro di Dante, e di messer Corso Donati gran cittadino di que' tempi.® Fu- ' *La cappella del Potestà fu poi mutata in dispensa delle carceri ; e le pitture di Giotto, ricoperte bárbaramente di bianco; sotto il quale stettero na- scoste sino a che, nel 1841, il Governo Toscano volendo riparare a tanta vergo- e far paghi i voti di molti zelanti delle patrie memorie e dei cultori del gna, divino poeta, secondó i tentativi fatti dall'inglese Seymour Kirkup, da Aubrey Bezzi, e dall'americano Enrico Wilde per lo scoprimento di queste pitture: la quale operazione, eseguita dal prof. Antonio Marini, ci ha restituito, sebbene non tutte in buono stato, le pitture di questa cappella. Ed oggi quelle pareti, spo- gliate di quel lurido intonaco che una sacrilega mano vi aveva posto sopra, all'occhio dei riguardanti l'-immagine dell'Alighieri. t E avendo uno di scopi'ono noi, insieme col cav. Passerini, preso a sostenere in una Memoria pubblicata neir occasione del sesto centenario del Divino Poeta celebrato in Firenze nel 1865, che le pitture di quella cappella, e per conseguenza il ritratto di Dante, non fos- che anche sero della mano di Giotto; aiutandoci con ragioni ed argomenti, oggi, non ostante le opposizioni di uomini riputati, non hanno perduto del loro va- lore ci è Memoria ; parse opportune di riprodurre la parte sostanziale di quella nella parte prima del Commentario che segue. ^ Vedi la Novella v della Giornata vi. II Boccaccio era sommamente inva- ghito di Giotto, al qual la bella natura parte di sè somigliante non occulta, com' egli canta neU'Amorosa Visione. ^ t È assai difficile peter riconoscere quali dei personaggi dipinti presse rAlighieri rappresentino il Latini ed il Donati. GIOTTO 373 reno le prime pitture di Giotto nella cappella delF altar maggiore délia Badia di Firenze; nella quale fece moite cose tenute belle/ ma particolarmente una Nostra Donna quand'è annunziata; perche in essa espresse vivamente la paura e lo spavento che nel salutarla Gabriello mise in Maria Vergine, la quai pare che tutta piena di gran- dissimo timoré voglia quasi mettersi in fuga.® È di mano di Giotto parimente la tavola dell' altar maggiore di detta cappella; la quale vi si è tenuta insino a oggi ed anco vi si tiene, più per una certa reverenza che s'ha all'opera di tanto uomo, che per altro.® Ed in Santa Crece sono quattro cappelle di mano del medesimo; tre fra la sa- grestia e la cappella grande, ed una dall'altra banda. Nella prima delle tre, la quale ë di messer Ridolfo de' Bardi, che ë quella dove sono le funi delle campane, ë la vita di San Francesco, nella morte del quale un buen numero di Frati mostrano assai acconciámente l'effetto del pian- gere. Nell'altra, che ë delia famiglia de'Peruzzi, sono due storie delia vita di San Giovan Batista, al quale ë dedicata la cappella; dove si vede molto vivamente il * Ma tutte sventuratamente perite. ^ *La particolare descrizione che il Vasari fa dell'atto timoroso di questa Vergine corrisponde perfettamente con quelle di una Annunziata espressa in un trHtico che sino al 1812 stette in questa Badia, e ora si conserva nella Gallería delle Belle Arti di Firenze. Onde questa tavola fu creduta opera di Giotto. Ma in questi ultimi anni avendoci la fortuna fatto ritrovare moite importantissime pitture di Don Lorenzo moñaco Camaldolense, il confronto di quelle con questa ci fece conoscere com' ella sia indubitatamente opera di questo pittore. Noi per- tanto siamo indotti a credere che la descrizione del Vasari si debba riferire alia tavola di Don Lorenzo, e non ad un'opera di Giotto, al quale egli, per uno di quei non infrequenti suoi abbagli, abbia fatto fare una Annunziazione dove Giotto non ne fece mai. Ed è da notare il silenzio del Ghiberti e del Baldinucci; il primo de' quali rammenta un' altra pittura fatta da Giotto in questa chiesa. Questo trittico, che, oltre il soggetto principale, ha nei laterali due Santi per banda, è stato come lavoro del ridetto moñaco intagliato ed illustrato nella pregevolissima Raccolta delle migliori opere che nella suddetta Gallería si con- servano, pubblicata da una società di valenti artisti. ® Fu col tempo trasportata nell' interno delia Badia davanti al refettorio. Oggi non si sa più dove si trovi; e tacendosi dal Vasari il soggetto rappresen- tatovi, riesce anche più difficile il rinvenirla. 874 GIOTTO bailare e saltare d'Erodiade., e la prontezza d'alcuni ser- venti presti ai servigi delia mensa. Nella medesima sono due storie di San Giovanni Evangelista maravigliose, cioè quando risuscita Drusiana, e quando è rapito in cielo. ISTella terza, ch'è de'Giugni, intitolata agli Apostoli, sono di mano di Giòtto dipinte le storie del martirio di molti di loro. Nella quarta, che ë dalFaltra parte delia chiesa verso tramontana, la quale ë de' Tosinghi e degli Spi- nelli, e dedicata all'Assunzione di Nostra Donna, Giotto dipinse la Nativita, lo Sposalizio, I'essere Annunziata, I'Adorazione de'Magi, e quando ella porge Cristo piccol fanciullo a Simeone, che ë cosa bellissima; perchë, oltre a un grande affetto che si conosce in quel vecchio rice- vente Cristo, l'atto del fanciullo, che, avendo paura di lui, porge le braccia e si rivolge tutto timorosetto verso la madre, non può essere në più aifettuoso në più bello. ^ Nella morte poi di essa Nostra Donna sono gli Apostoli, ed un buon numero d'Angeli, con torchi in mano, molto belli. Nella cappella de' Baroncelli, in detta chiesa, ë una tavela a tempera di man di Giotto, dove ë condotta con molta diligenza r incoronazione di Nostra Donna, ed un grandissime numero di figure piccole, ed un coro di An- geli e di Santi , molto diligentemente lavorati. E perchë in questa opera ë scritto a lettere d' oro il nome suo ed il millésime, gli artefici che considereranno in che tempo Giotto, senza alcun lume délia buena maniera, diede prin- cipio al buon modo di disegnare e di coloriré, saranno forzati averio in somma venerazione.® Nella medesima ^ *Fu posteriormente dato di bianco a tutte le pitture di queste quattro cappelle. Ma ora in quella de'Peruzzi è stata scoperta la storia del convito di Erode. Speriamo che la bellezza sua, e il felice esito con cui è riuscito questo primo saggio, ci faranno un giorno veder compiuta la lodevole impresa. t Scoperte le pitture della cappella Peruzzi nel 1841, si continuó alie altre, salvo quelle della cappella Tosinghi e Spinelli perdute senza rimedio, dopochè nel 1837 vi fu ridipinto sopra dal pittore Martellini. ^ * Questa tavola si vede anch' oggi nella cappella del Baroncelli. Sono cin- que scompartimenti alia gótica, riquadrati evidentemente in una nuova cornice GIOTTO 375 chiesa di Santa Crece sono ancora, sopra il sepolcro di marmo di Cario Marzuppini Aretino, un Crocifisso, una Nostra Donna, un San Giovanni e la Maddalena a pie delia croce; e dall'altra banda delia chiesa, appunto di- rimpetto a questa, sopra la sepoltura di Lionardo Are- tino, è una Nunziata verso l'altar maggiore, la qual è stata da pittori moderni, con poco giudizio di cM ciò ha fatto fare, ricolorita.^ Nel refettorio è, in un albero di Croce, istoria di San Lodovico, e un Cenacolo di mano del medesimo;^ e negli armarj della sacrestia, storie di figure picciole della vita di Cristo e di San Francesco.® dello stile del secolo xv. Vi si legge ancora, in tante lettere staccate, chiuse ciascuna in un esagono: opus magistri jocti ; ma il millesimo che dice il Va- sari, non v'è (si noti che nella prima edizione egli rammenta il solo Il nome). — prof. Rosini, il quale si è studiato il riordinare la di cronología delle opere Giotto, pone i lavori, sia in muro, sia in tavola, fatti per questa chiesa, in quello spazio di tempo che e' dimoró in Firenze tra dopo il ritorno ch' e' fece da Roma e la sua andata a Padova, cioè dal 1299 al 1303. t Ma noi, come avremo occasione di dire nella Vita di Taddeo Gaddi, siamo circa al tempo di questa tavola, d'opinione diversa; cioè che essa fosse da nel dipinta Giotto 1334 incirca, quando già da due anni Taddeo Gaddi aveva comin- ciato le pitture delle pareti di quella cappella. * *Le pitture del due sepolcri di Carlo Marsuppini e di Lionardo Aretino sono da gran tempo imbiancate. * *Queste pitture dell'antico refettorio esistono tuttavia. Oltre il Cenacolo (dato inciso dal Lasinio e dal Ruschweyh) e I'albero di Croce, sono nella stessa párete quattro storie della vita di san Francesco e di san Lodovico ; hellissime. pitture tutte Ma giustamente osservava il Rumohr, ch' esse sono ai di posteriori tempi Giotto; e la maniera corrisponde a quella del pittori che furono dal 1350 al 1400, ma non a quella de'Giotteschi, meno arditi e franchi, e di colorito debole più e dilavato. {Ricerche italiane, torn. II, pag. 70, nota 1). t Anche il Cavalcaselle nega che sieno di Giotto, e in quella vece a crederle propende di Taddeo Gaddi. ® Le storie degli armadii erano in tutto ventisei : dodici appartenenti alia vita di Cristo, e quattordici a quella di san Francesco. Le prime dodici, e dieci delle altre, ancor si conservano nella nostra Accademia di Belle Arti. t Delle che quattro mancano, due passarono nella Gallería di Berlino e Discesa rappresentano I'una la dello Spirito Santo, e l'altra la caduta del figliuolo dello Spini. Due si credono nella Gallería di Monaco; ma pare che non appartengano alla serie di quelle di Santa Croce. Nell'una è la Cena di Nostro Signore, e nell'altra è Gesú Crocifisso, con san Francesco inginocchiato a pié della croce, la Madonna svenuta a destra, ed a sinistra san Giovanni Evangelista, Nicodemo e d'Arimatea. Giuseppe Ma tutte queste tavolette, piuttostochè da Giotto, si óa vogliono dipinte un suo discepolo. 376 GIOTTO Lavorò anco nella cMesa del Carmine, alia cappella di San Giovanni Batista, tutta la vita di quel Santo divisar in più quadri:* e nel Palazzo delia parte guelfa di Fi- renze e di sua mano una storia della Fede Cristiana in fresco, dipinta perfettamente;® ed in essa è il ritratto di papa Clemente IV, il quale creó quel magistrate,® do- nandogli l'arme sua, la qual egli ha tenuto sempre e tiene ancora. Dopo queste cose, partendosi di Firenze per andaré a finir in Ascesi 1'opere cominciate da Cimabue, nel passar per Arezzo, dipinse nella pieve la cappella di ' Nel 1772, cioè un anno dopo l'incendio della chiesa del Carmine che di- strusse questa cappella, Tommaso Patch (òssia il Cocchi pubblicó in Firenze nel libro intitolato Selections from the works of Masaccio, Fra Bartolomeo and Giotto, sei storie e cinque teste lucidate sopra alcuni pezzi d'intonaco ri- masti illesi, e da lui acquistati. È però da avvertire, che le stampe furono fatte sopra disegni ricavati prima dell'incendio da mano cosi inesperta, che niuna idea oifrono dello stile dell'autore e del carattere delle figure. Le cinque teste ^ perché lucidate, non sono tanto scorrette. * Di tre frammenti di queste istorie ci dà notizia il dott. G. F. "Waagen, direttore della R. Gallería di Berlino, nella sua importantissima opera tedesca intitolata Kunstwerke und Künstler in England und Paris (Opere d'Arte e- Artisti in Inghilterra e in Parigi); Berlino 1837-38. Due sono ora nell'Istituto di Liverpool, I'uno rappresentante tre donne con San Giovan Battista bambino ; frammento molto pregevole e importante, e noto per la incisione data dal Patch, L' altro, che si conserva nel medesimo luogo, rappresenta la figlia di Erodiade che riceve il capo del Battista; figura molto maestosa, e data incisa essa pure dal Patch. II terzo frammento, con due mezze figure di Paolo e di Giovanni, appar- tenne alia raccolta del quadri del poeta Rogers, ed oggi è nella Gallería Nazie- nale di Londra. Altri frammenti degli affreschi del Carmine si conservano nella cappella detta dell'Ammannati nel Campo Santo di Pisa; e rappresentano san Gio- vanni battezzante, due Angeli che porgono il panno per asciugare il battezzato, una testa di vecchia (forse Sant'Elisabetta), ed un giovane che suona I'a'rpa, forse alia cena di Erode. (Vedi Grassi, Descrizione di Pisa, II, 1874). t II Cavalcaselle che descrive questi frammenti (vol. I, pag. 536 e seg.), dice che mostrano di non essere della mano di Giotto, ma derivare invece dalla sua scuola, e ricordare la maniera di Taddeo Gaddi e di Angelo suo figliuolo. Ora che veramente quelle pitture non possano essere sue, si prova ancora dal sapersi che esse furono fatte a spese dell'eredita di Vanni Manetti, il quale con suo testamento del 29 di setiembre 1348, rinnovato il 30 d'ottobre 1350 e regato da ser Bartolo di Neri daRoffiano, dispone che la cappella da lui fondata nel Car- mine in onore di san Giovan Batista, pingatur, decoretur et adornetur quant melius fieri poterit. ^ Nel Palazzo che fu della Parte Guelfa questa storia piú non si vede. ® Non creó, ma decoró quel magistrate. ( Vedi Gio. Villani , lib. vii, cap. 2)- GIOTTO 377 San Francesco, ch'è sopra il battesimo; e in una colonna tonda, vicino a un capitello corintio e antico e bellis- simo, un San Francesco e un San Domenico, ritratti di naturale;^ e nel Duomo fuor d'Arezzo una cappelluccia, dentrovi la lapidazione di Santo Stefano, con bel corn- ponimento di figure.® Finite queste cose, si condusse in Ascesi, città deirUmbria, essendovi chiamato da Fra Gio- vanni di Muro delia Marca, allora generale de'Frati di San Francesco; dove, nella chiesa di sopra, dipinse a fresco, sotto il corridore che attraversa le finestre, dai due lati délia chiesa, trentadue storie délia vita e fatti di San Francesco, cioè sedici per facciata, tanto perfet- tamente, che ne acquistò grandissima fama.® E nel vero, si vede in queiropera gran varieth non solamente nei gesti ed attitudini di ciascuna figura, ma nella compo- sizione ancora di tutte le storie; senza che fa bellissimo vedere la diversité degli abiti di que'tempi, e certe imi- tazioni ed osservazioni delle cose delia natura. E fra le altre, è bellissima una storia dove uno assetato, nel quale si vede vivo il desiderio deU'acque, bee stando chinato in terra a una fonte, con grandissime overamente ma- raviglioso affetto, in tanto che par quasi una persona viva che bea. Yi sono anco molte altre cose degnissime di considerazione; nolle quali, per non essor lungo, non ' L'uso che fa qui il Vasari di questa frase ritratti dinaturale, indicarci parrebbe ch'ei la prendesse in senso assai largo; onde sarebbe liberate dalla taccia d' anacronismo datagli per quel che disse del ritratto di San Francesco fatto da Cimabue. I due ritratti di Giotto qui ricordati (e trasferiti poi dalla cappella ov'erano, e adorni di lavori di marmo, in una colonna del presbiterio dal lato deir Evangelio ), sono le sue sole pitture che ancor si conservino nella pieve Aretina. i Anche queste pitture vuole il Cavalcaselle che non sieno di Giotto, e quanto alie figure di san Francesco e di san Domenico gli pare di vedervi la mano di Jacopo di Casentino. ^ Peri col vecchio Duomo nel 1561. ' *Se è vero che Giotto fu chiamato a dipingere alla seráfica Basilica d'As- sisi da Fra Giovanni di Muro, ció non poté accadere che dopo il 1296 ; Fra perché Giovanni fu eletto Generale di quell'Ordine in quest'anno ( Vedi Waddingo, Annal. Ord. Min,, tom. V, pag. 348, an. 1296). 378 GIOTTO mi distende altrimenti. Basti che tutta qiiesta opera ac- quistó a Griotte famagrandissima, perlabontà delle figure, e per Terdine, proporzione, vivezza e facilita che egli aveva dalla natura, e che aveva mediante le studio fatto moite maggiore, e sapeva in tutte le cose chiaramente dimostrare. E perche, oltre quelle che aveva Giotto da natura, fu studiosissimo, ed ando sempre nueve cose pen- sando e dalla natura cavando, mérito d'esser chiamato discepolo della natura, e non d'altri. Finite le sopradette storie, dipinse nel medesimo luego, ma nella chiesa di sotto, le facciate di sopra dalle hande deiraltar maggiore, e tutti quattro gli angoli della volta di sopra, dove è il corpo di San Francesco ; e tutte con invenzioni capricciose belle. ^ e Nella prima è San Fran- cesco glorificato in cielo, con quelle virtù interno che a voler esser perfettamente nella grazia di Dio seno ri- chieste. Da un lato, rUbbidienza mette al cello d'un Frate che le sta innanzi ginocchioni, un giogo, i legami del quale sono tirati da certe mani al cielo; e, mostrando con un dito alia bocea silenzio, ha gli occhi a Gesíi Cristo che versa sangue dal costato. E in compagnia di questa virtù sono la Prudenza el'ITmilta, per dimostrare che, dove è veramente l'ubbidienza, ë sempre l'umiltà e la prudenza che fa bene operare ogni cosa. Nel seconde an- gelo ë la Castità, la quale standosi in una fortissima rôcca, non si lascia vincere në da regni në da corone në da palme che alcuni le presentano. A'piedi di costei ë la Mondizia, che lava persone nude; e la Fortezza va con- ducendo genti a lavarsi e mondarsi. Appresso alla Ca- stith ë, da un lato, la Penitenza che caccia Amere alato con una disciplina, e fa fuggire la Immondizia. Nel terzo luego ë la Poverth, la quale va coi piedi scalzi calpestando le spine: ha un cane che le abbaia dietro, e interne un ' In esse, dice il Lanzi, « diede i primi saggi della pittura simbólica, tanto a'migliori suoi seguaci familiare >■>. GIOTTO 379 putto die le tira sassi, ed un altro de le va accostando con un bastone certe spine aile gambe. E questa Povertà si vede esser quivi sposata da San Francesco, mentre Gesù Cristo le tiene la mano, essendo presenti non senza misterio la Speranza e la Carità. Nel quarto ed ultimo dei detti luoghi è un San Francesco, pur glorificato, ve- stito con una tonicella bianca da diácono,^ e come trion- fante in cielo in mezzo a una moltitudine d'Angeli, che interno gli fanno coro, con uno stendardo, nel quale ë una croce con sette stelle ; e in alto ë lo Spirito Santo. Dentro a ciascuno di questi angoli sono alcune parole latine che dichiarano le storie. Símilmente, oltre i detti quattro angoli, sono nelle facciate dalle bande pitture bellissime e da essere veramente tenute in pregio, si per la perfezione che si vede in loro, e si per essere state con tanta diligenza lavorate, che si sono insino a oggi consérvate fresche.® In queste storie ë il ritratto d'esso Giotto, molto ben fatto; e sopra la porta della sagrestia ë di mano del medesimo, pur a fresco, un San Francesco che riceve le stimate, tanto afíettuoso e divoto, che ame pare la più eccellente pittura che Giotto facesse in quel- r opere, che sono tutte veramente belle e lodevoli.® Fi- nito, dunque, che ebbe per ultimo il detto San Francesco, se ne tornó a Firenze: dove giunto, dipinse, per man- dare a Pisa, in una tavola un San Francesco nelborribile sasso della Vernia, con straordinaria diligenza; perchë, oltre a certi paesi pieni di alberi e di scogli, che fu cosa * *11 Delia Valle dubitó se tutte le pitture, tanto della chiesa superiore, quanto deirinferiore, che si dicono di Giotto, siano sue veramente. Altri scrit- tori moderni ancora lo negarono ; e tra questi il Rumohr, il Forster, e ultima- mente il Gavalcaselle. ® *Fu cosí rappresentato dal pittore, perché veramente san Francesco non ascese, per umiltà, al sacerdozio, ma voile rimaner diácono. ' Fresche veramente oggi non son piú né quelle della chiesa di le altre sotto, ne della chiesa di sopra. Pure, in quelle della chiesa di sotto, che prese tutte insieme sono le piú belle, è, quantunque non da per tutto, conservato il ahhastanza colorito. 380 GIOTTO nueva in que'tempi, si vede neU'attitudine di San Fran- cesco, che con molta prontezza riceve ginocchioni le sti- mate, un ardentissimo desiderio di riceverle ed infinito amere verso Gesù Cristo, che in aria circondato di Se- rafini glie le concede, con si vivi aífetti, che meglio non è possibile immaginarsi. Nel disette, poi, della medesima tavela sono tre storie della vita del medesimo, molto belle. Questa tavela, la quale oggi si vede in San Fran- cesco di Pisa, in un pilastre a canto all'altar maggiore,^ tenuta in molta venerazîone per memoria di tanto nomo, fu cagione che i Pisani, essendosi finita appunto la fab- brica di Campo Santo, seconde il disegno di Griovanni di Niccola Pisano, come si disse di sopra, diedero a dipi- gnere a Giotto parte delle facciate di dentro: acciocche, come tanta fabbrica era tutta di fuori incrostata di marmi e d'intagli'fatti con grandissima spesa, coperto di piombo il tetto, e dentro piena di pile e sepolture antiche, state de' gentili e recate in quella citth di varie parti del mondo ; cesi fusse ornata dentro nelle facciate di nobilissime pit- ture. Perciò, dunque, andato Giotto a Pisa, fece nel principio d' una facciata di quel Campo Santo ® sei storie grandi in fresco del pazientissimo lobbe.® E perché giu- ' * Questa tavola dalla chiesa di San Francesco fu trasportata in quella di San Niccola, poi nella cappella maggiore del Campo Santo; dove, malconcia dai restauri, la vide il Da Morrona, e vi scopri il nomé. Al presente si conserva nel Museo del Louvre a Parigi, trasportatavi sotto il governo napoleónico; e il nome del pittore si legge a caratteri d'oro nella cornice, cosi: opvs jocti flo- rentini. ^ Da quella parte ( suppone il Rosini nella sua Descrizione del Campo Santo ), ove probabilmente fu altra volta l'ingresso principale del Campo Santo mede- simo, giacchè fu la prima ad essere ornata. ® *Se debbe credersi a quel che dice lo stesso Vasari nella Vita di Niccola e Giovanni pisani, cioè che il Campo Santo fu finito nel 1283; Giotto non avrebbe potuto dipingervi che molti anni dopo, essendochè a quel tempo egli contava soli sette anni, o, secondo la nuova opinione circa alia sua nascita, diciassette. Ma quand' anche si voglia ammettere che egli vi lavorasse molti anni dopo ; il non aver trovato ancora documenti che lo attestino, e il silenzio del Ghiberti medesimo, danno luogo a dubitare se le storie di Giobbe possano veramente dirsi dipinte da Giotto. E a questo dubbio dà forza il Vasari stesso, il quale nella GIOTTO 381 diziosamente consideró che i marmi, da quella parte della fabbrica dove aveva a lavorare, erano volti verso la ma- riña; e che tutti, essendo saligni, per gli scilocchi sem- pre soqo umidi e gettano una certa salsedine, siccome i mattoni di Pisa fanno per lo più; e che perciò accie- cano e si mangiano i colori e le pitture: fece fare, perche si conservasse quanto potesse il più Topera sua, per tutto dove voleva lavorare in fresco, un arricciato ovvero in- tonaco 0 incrostatura che vogliam dire, con calcina, gesso e matton pesto mescolati cosi a proposito, che le pitture che egli poi sopra vi fece, si sono insino a questo giorno consérvate/ E meglio starebbono, se la stracurataggine di chi ne doveva aver cura non Tavesse lasciate molto offendere dalTumido; perche il non avere a ció, come si poteva agevolmente, provveduto,® è state cagione, che avendo quelle pitture patito umido, si sono guaste in certiluoghi, e T incarnazioni fatte nere, e Tintonaco scor- tecciato: senza che la natura del gesso, quando è con la calcina mescolato, è d'infracidare col tempo e corrom- persi;® onde nasce che poi per forza guasta i colori, sebben prima edizione (Vita dell'Orcagna) dice fatte queste il pitture da Taddeo Gaddi: che mostra come spesso egli andava a tentone ed incerto nei suoi i Le ricerche giudizj. de'moderni eruditi hanno provato che queste storie furono co- minciate a dipingere nel 1371 da Francesco da Volterra, il quale fino dal 1340 si trova aver fatto in Pisa altre cose di pittura. ' Ora, e già da un pezzo, più non se ne nel veggono che due 1625 da (restaúrate uno Stefano Maruscelli, nè però intere): altre quattro sono mise- ramente perite. ^ Dalle tracce che si veggono negli -stipiti e nelle colonne degli archi interni del Campo Santo, apparisce che la cura di difenderne le pitture con finestre di vetro, non è nuova. Se non che al bisogno pur troppo fu tarda, massime a quelle delle pitture attribuite a Giotto, allé quali toccarono danni narrati dal straordinarj, Morrona nella Pisa illustrata. t È certo che un tempo per difender quelle pitture c'erano finestre a vetri colorati con istorie. Noi infatti sappiamo che nel 1460 furono allogate sette fine- stre a vetri dipinti pel Campo Santo a Lionardo di Bartolommeo e a dette Bartolommeo, Banco, d'Andrea della Scarperia, fratelli ® cugini e maestri di vetro. Se la natura del gesso, quand'è mescolato alla calcina, è d'infradiciarsi e corrompersi, non fu dunque a proposito il mescolamento che Giotto ne fece 382 GIOTTO pare die da prindpio facda gran presa e buona. Sono in queste storie, oltre al ritratto di messer Farinata de- gli Uberti, molte belle figure; e massimamente certi vil- lani, i quali nel portare le dolorose nuove a lobbe, non potrebbono essere più sensati ne meglio mostrare il do- lore che avevano per i perduti bestiami e per l'altre disavventure, di quelle che fauno. Parimente ha grazia stupenda la figura d'un servo, che con una rosta sta in- torno a lobbe piagato, e quasi abbandonato da ognuno: e come che ben fatto sia in tutte le parti, è maraviglioso neir attitudine che fa, cacciando con una delle mani le mosche al lebbroso padrone e puzzolente, e con l'altra, tutto schifo, turandosi il naso per non sentiré il puzzo.' Sono, símilmente, l'altre figure di queste storie, e le teste cosi de'maschi come delle femmine, molto belle;® e i panni in modo lavorati mórbidamente, che non è mara- viglia se queir opera gli acquistò in quella città e fuori tanta fama, che papa Benedetto IX" da Trevisi mandasse in Toscana un suo cortigiano e vedere che uomo fusse per conservare le proprie pitture. Più a proposito fu l'incannicciata che pol altri pittori del Campo Santo adattarono al muro, fermandovela con sottilissime grappe di ferro, e distendendovi sopra non so che grosso intonaco; ond'è che le lor pit- ture, difese ad un tempo daU'umido interno e dall'esterno, poterono meglio conservarsi. * Nella pittura dello scompartimento interiore, un po'men guasta dell'altre, ove son rappresentati gli amici di Giobbe. * Delle bellezze delle due superstiti pitture è parlato distesamente nella Be- scrizione giá citata del Campo Santo fatta dal Rosini nelle Lettere pittori- che del Rosini medesimo e del De Rossi. Le altre quattro pitture pare che pe- rissero in tempi diversi; due assai presto e due più tardi. Il Totti, infatti, parla d'una, ove rappresentavasi fra varie cose un suntuoso convito, con mol- titudine di servi ecc., a dimostrare la gran ricchezza di Giobbe; e d'un'altra, ove vedevasi crollare, di per gran turbine, e cader la casa, ove i figli e le figlie Giobbe stavano a banchetto. Le superstiti posson vedersi fra le altre del Campo Santo (40 grandi tavoie), disegnate in parte dal Nenci, in parte dal Lasinio padre, e incise quasi tutte dal Lasinio figlio per cura del Rosini, che d'alcune figure tratte da esse adornó pure la Bescrizione e le Lettere giá indicate. ' i Alcuni corressero l'errore del Vasari, ponendo in luogo di Benedetto IX, Benedetto XI; sennonchè, questo pontefice avendo regnato mesi e non anni,non poté avere altro tempo che di chi amare Giotto a Roma. II papa, sotto il quale Giotto operó in Roma, fu, come testimoniano i documenti, Bonifazio VIII. GIOTTO 383 Giotto e quali fussero r opere sue, avendo disegnato far in San Piero alcune pitture. II quale cortigiano, venendo per veder Giotto, e intendere che altri maestri fussero in Firenze eccellenti nella pittura e nel musaico, parlo in Siena a molti maestri/ Poi, avuto disegni da loro, venne a Firenze, e andato una mattina in hottega di Giotto che lavorava, gli espose la mente del papa, e in che modo si voleva valere deir opera sua; ed in ultimo, gli chiese un poco di disegno per mandarlo a Sua Santità. Giotto, che garbatissimo era, prese un foglio, ed in quelle, con un pennello tinto di rosso, formato il braccio al fianco per farne compasso, e girato la mano, fece un tondo si pari di sesto e di profilo, che fu a vederlo una maravi- glia. Ció fatto, ghignando disse al cortigiano: Eccovi il disegno. Celui, come beífato, disse: Ho io avere altro di- segno che questo ? Assai e pur troppo è questo ; rispóse Giotto: mándatelo insieme con gli altri, e vedrete se sarh conosciuto. II mandato, vedendo non potere altro avere, si parti da lui assai male sodisfatto, dubitando non es- sere uccellato. Tuttavia, mandando al papa gli altri di- segni e i nomi di chi gli aveva fatti, mandó anco quel di Giotto, raccontando il modo che aveva tenuto nel fare il suo tondo senza muovere il braccio e senza seste. Onde il papa e molti cortigiani intendenti conobbero per ció quanto Giotto avanzasse d' eccellenza tutti gli altri pit- tori del suo tempo. Divolgatasi poi questa cosa, ne nacque il proverbio che ancora e in uso dirsi agli uomini di grossa pasta : Tu se'più tœido che V O di Giotto. Il qual proverbio non solo per lo caso donde nacque si puó dir bello, ma molto più per lo suo significato, che consiste nelfiambiguo, ' * Molti e valenti artefici coiítava allora Siena, già clivenuta centro di una straordinaria operositá nelle imprese artistiche d'ogni maniera; come bene os- servava il barone di Rumohr, e come i documenti attestano. E a'soli restringendoci pittori noteremo, tra gli altri, Ugolino di Pietro, il celebre Duccio di Buo- ninsegna, Segna di Buenaventura, e il famoso Simone di Martino, detto Memmi. 384 GIOTTO pigliandosi tondo in Toscana, oltre alia figura circolare perfetta, per tardità e grossezza d'ingegno. Fecelo, dun- que, 11 predetto papa andaré a Eoma; dove, enerando moite e riconoscendo la virtù di lui, gli fece nella tri- buna di San Piero dipignere cinque storie délia vita di Cristo, e nella sagrestia la tavela principale; che furono da lui con tanta diligenza condotte, che non usci mai a tempera delle sue mani il più pulito lavoro ^ : onde mérito che il papa, tenendosi ben servito, facesse dargli per pre- mió secento ducati d'oro, oltre avergli fatto tanti favori che ne fu dette per tutta Italia. Fu in questo tempo a Koma moite amico di Giotto, per non tacere cosa degna di memoria che appartenga air arte, Oderigi d'Agobbio, eccellente miniatore in quel tempi; il quale, condotte perciò dal papa, minió molti ' t Le cinque storie che erano nella cappella di San Piètre, furono distrutte neir ingrandiinento délia chiesa. La tavola divisa in tre compartimenti che dal- Taltare di san Pietro fu poi traspórtala in sagrestia, dove tuttora si vede, ha nel mezzo la figura del Salvatore in trono in atto di benedire. Ai lati del trono stanno otto Angeli disposti simmetricamente Puno sopra I'altro. Sul davanti, alia sinistra di chi guarda, vedesi a capo scoperto e inginocchiato il cardinale Jacopo Gaetano Stefaneschi, che nel 1298 commise questo lavoro a Giotto, e vi spese 500 fiorini d'oro. DalPaltro lato è parimente inginocchiato un Angelo che guarda il Salvatore. Nell'alto delia tavola è, dentro un compasso, il Padre Eterno, e piú abbasso due altri compassi dentrovi il busto d'un Profeta, e sulla cornice sono tre piccole figure per banda di Santi ed Evangelisti. In uno de' pezzi laterali della tavola è dipinta la Decollazione di san Paolo, e nell'altro il Mar- tirio di san Pietro. Nel rovescio del compartimento di mezzo è dipinto san Pie- tro in cattedra vestito cogli abiti pontificad, con due Angeli ai lati. Davanti, a destra del Santo, si vede di profilo e inginocchiato un vescovo,che colla testa levata e lo sguardo rivolto a san Pietro gli offre un quadro della forma d'un trittico, che è l'immagine in piccolo della tavola dipinta. Questo vescovo, che è lo Stefaneschi, è presentato da san Giorgio in abito guerriero, il quale men- tre tiene la destra sulla spalla dello Stefaneschi, leva l'altra verso san Pietro. Dall'altro lato è in ginocchio un altro Santo vescovo, il quale è rivolto verso il Santo, e solleva un libro con ambedue le mani. Vicino a lui è in piedi un altro Santo vestito pontificalmente, che forse rappresenta sant'Jacopo. Sono nel rovescio dell'altro compartimento, dove è il Martirio di san Paolo, sant'Jacopo e san Paolo. E nel rovescio di quello ove è dipinta la Crocifissione di san Pie- tro, gli apostoli sant'Andrea e san Giovanni Evangelista. Finalmente nel mezzo d' uno de' pezzi che formavano la base o predella del quadro è seduta sopra un trono lavorato a finto musaico Maria Vergine col Divin Figliuolo. GIOTTO 385 libri per la librería di palazzo, che sono in gran parte oggi consumati dal tempo. E nel mio libro de'disegni antichi sono alcune reliquie di man propria di costui, die in vero fu valente nomo : sebbene fu molto miglior maestro di lui Franco Bolognese miniatore/ che per lo stesso papa e per la stessa librería, ne'medesimi tempi, layoró assai cose eccellentemente in quella maniera, come si può vedere nel detto libro ; dove ho di sua mano dise- gni di pitture e di minio, e fra essi un'aquila molto ben fatta, ed un leone che rompe un albero, bellissimo. Di questi due miniatori eccellenti fa menzione Dante nel- rundécimo capitolo del Purgatorio, dove si ragiona de'va- nagloriosi, con questi versi: o, dissi lui, non se'tu Oderisi, L'onor d'Agobbio, e ronor di quell'arte Che alluminare è chiamata in Parisi? Frate, diss'egli, più ridon le carte Che pennelleggia Franco Bolognese: L'onor è tutto or suo, e mio in parte. * t Di maestro Oderigi da Gubbio, più che delle opere sue di minio da gran tempo perdute, immortalato dai versi dell'Alighieri, sono state pubblicate a'no- stri giorni alcune notizie importanti, per le quaii oltre a meglio conoscersi il tempo del viver suo e dell' operare, si scopre altresi che egli fu figliuolo di Guido da Gubbio, che nel 1268 e poi nel 1271 dimorava in Bologna, nel quale ultimo anno agli 11 di marzo messer Azone de' Lambertazzi allogava a lui ed a Paolo di lacopino dell'Avvocato le miniature di pennello e di buono azzurro di ottan- tadue fogli d'un Antifonario pel prezzo di trenta soldi bolognesi, e nel termine di quindici giorni. (V. Giornale cCErudizione Artística. Perugia, Boncompa- gni, 1873, vol. II, pag. 1). Vuolsi che maestro Oderigi, andato a Roma nel 1295, vi morisse nel 1299. A lui- si attribuiscono da alcuni le miniature di due Messe dell'Annunziata e di San Giorgio consérvate nell'Archivio dei Ganonici di San Pietro di Roma. Altri vorrebbero vedere in esse la maniera, se non la mano, di Giotto. Ma i meglio intendenti vi riconoscono piuttosto il fare delia scuola di Gubbio. Quanto a Franco Bolognese scolare di Oderigi, non si conosce di lui nes- suna opera; e quella miniatura colla Madonna in trono, e Gesú bambino in collo, giá nella Raccolta Malvezzi, e poi nella Gallería Hercolani di Bologna, colla iscri- zione falsa franco bolognese feo , 1312, apparisce pittura del sec. xv e ricorda nella grazia aífettata delle movenze l'arte di Gubbio e di Fabriano. Fiori Franco, secondo il Baldinucci, verso il 1310, e furono suoi scolari, come dice il Malvasia, lacopo e Simone bolognesi, ed altri pittori che operarono intorno al 1370. Vasari , Opere. — Vol. I. 25 386 GIOTTO n papa, avendo veduto queste opere, e piacendogli la maniera di. Giotto infinitamente, ordinò che facesse intorno interno a San Piero istorie del Testamento veo- cilio e nuevo: onde, cominciando, fece Giotto a fresco l'Angiolo di sette braccia, che è sopra T organe, e molte altre pitture; delle quali parte seno da altri state restau- rate a'di nostri; e parte, nel rifondare le mura nueve, o state disfatte o traspórtate dall' edifizio vecchio di San Piero fin sotto Torgane:^ come una Nostra Donna in muro; la quale perche non andasse per terra, fu tagliato attorno il mure ed allacciato con travi e ferri, e cosi le- vata, e murata poi, per la sua bellezza, dove voile la pieta ed amere che porta aile cose eccellenti delfiarte messer Niccolò Acciaiuoli, dottore fiorentino, il quale di stucchi e d'altre moderne pitture adorno riccamente que- sP opera di Giotto. Di mano del quale ancora fu la nave di musaico ^ ch' è sopra le tre porte del portico nel cor- tile di San Piero, la quale ë veramente miracolosa e me- ritamente lodata da tutti i belli ingegni; perché in essa, oltre al disegno, vi ë la disposizione degli Apostoli, che in diverse maniere travagliano per la tempesta del mare, mentre sofiiano i venti in una vela, la quale ha tanto rilievo che non farebbe altrettanto una vera: e pure ë difficile avere a fare di que'pezzi di vetri una unione come quella che si vede nei bianchi e nelh ombre di si gran vela, la quale col pennello, quando si facesse ogni sforzo, a fatica si pareggerebbe: senza che, in un pesca- ' Queste sue pitture sono quasi tutte perite. Cosi son perita quelle dell'in- tei'no del portico di San Giovanni Laterano, eccetto papa Bonifazio VIII che nel 1300 istituisce il giubileo. II qual pontefice, ritratto di naturale, vedesi ora sotto cristallo fra due altre figure quasi intere in un pilastro della chiesa, con iscrizione appostavi nel 1776 dalla famiglia Gaetani. * — II D'Agincourt ne ha dato 1' intaglio nella tav. cxv della Pittura. ^ *In un necrologio che si conserva neirArchivio Vaticano, a pag. 87, si trova memoria come il detto cardinale Stefaneschi, nel 1298, fece fare a Giotto il mosaico della Navicella di san Pietro. Questa memoria è riportata dal Bai- dinucci, dal Turrigio e dal Delia Valle. GIOTTO 387 tore, il quale pesca in sur uno scoglio a lenza, si conosce neir attitudine una pacienza estrema propria di quel- I'arte, e nel volto la speranza e la voglia di pigliare/ Sotto quest'opera sono tre arclietti in fresco; de'quali, essendo per la maggior parte guasti, non dirò altro. Le lodi, dunque, date universalmente dagli artefici a questa opera, se le convengono. Avendo poi Griotto nella Minerva, chiesa de'Frati Pre- dicatori, dipinto in una tavola un Crocifisso grande, colo- rito a tempera, che fu allora molto lodato; ^ se ne torno, essendone stato fuori sei anni, alia patria. Ma essendo, non molto dopo, creato papa Clemente V in Perugia^ per essere morto papa Benedetto IX, fu forzato Giotto , andarsene con quel papa^ là dove condusse la corte, in Avignone, per farvi alcune opere: perché, andato, fece, non solo in Avignone, ma in molti altri luoghi di Francia, moite tavole e pitture a fresco bellissime, le quali piac- quero infinitamente al pontefice e a tutta la corte. ® La- onde, spedito che fu, lo licenziò amorevolmente e con molti doni; onde se ne tomò a casa non meno ricco che onorato e famoso; e, fra l'altre cose, recò il ritratto di quel papa, il quale diede poi a Taddeo Gaddi suo disce- ^ Fu essa traspórtala piú volte da un luogo all'altro, come narra minuta- mente il Baldinucci. Oggi si trova nel portico di San Pietro, in faccia alla porta maggiore delia chiesa. Il Richardson ne aveva il disegno originale, mancante però di quello delia figura del pescatore, che il Resta credeva di avere. Tal figura fu due volte restaúrala; prima da Marcello Provenzale, poi da Orazio Manetti, sotto la direzione del cav. Bernino. - Pare che il Nibby, neW Itinerario di Roma, dubiti che non sia di Giotto. i Oggi è perito, ed in suo luogo si addita un Crocifisso di rilievo, senza nessuna ragione assegnandolo per opera di Giotto. ® *Dopo la morte di Benedetto XI, e non IX, come per errore dice il Va- sari, fu creato Clemente V, il quale trasportó la sede papale in Avignone nel 1305; cosicchè Giotto non sarebbe poluto andar là piûma di questo tempo. i II Vasari ha falto una gran confusione e circa al lempo della supposta andata di Giotto in Avignone e circa al pontefice che ve lo chiamó. Oggi la critica storica ha stabilito che dopo il 1334 Giotto fosse chiamato colà da Be- nedetto XII per dipingere la storia de'Martiri nel palazzo pontificio, e che per essere stato in questo mezzo sopraggiunto dalla morte, non vi andasse altrimenti. 388 GIOTTO polo: e questa tomata di Giotto in Firenze fn Tanno 1316. Ma non però gli fn conceduto fermarsi molto in Firenze ; perche, condotto a Padoa per opera de' signori della Scala, dipinse nel Santo, chiesa stata fabhricata in que'tempi, una cappella bellissima.^ Di li andò a Verona, dove a messer Cane fece nel suo palazzo alcune pitture,® e par- ticolarmente il ritratto di quel signore; e ne'Frati di San Francesco unatavola» Compiute queste opere, nel tornar- sene in Toscana gli fu forza fermarsi in Ferrara, e dipi- gnere in servigio di que' signori Estensi, in palazzo ed in Sant'Agostino, alcune cose che ancor oggi vi si veggiono. Intanto, venendo agli orecchi di Dante, poeta florentino, che Giotto era in Ferrara, operó di maniera che lo con- dusse a Eavenna, dove egli si stava in esilio ; e gli fece fare in San Francesco per i signori da Polenta alcune sto- rie in fresco intomo alia chiesa, che sono ragionevoli.® An- dato poi da Eavenna a ürbino, ancor quivi lavoró alcune cose. Poi, occorrendogli passar per Arezzo, non potette non compiacere Piero Saccone, che molto l'aveva carezzato; onde gli fece in un pilastre della cappella maggiore del ve- scovado, in fresco, un San Martine, che, tagliatosi il man- telle nel mezzo, ne dà una parte a un povero che gli e in- nanzi quasi tutto ignudo. Avendo poi fatto nella Badia di Santa Fiore, in legno, un Crociflsso grande a tempera, che è oggi nel mezzo di quella chiesa,® se ne ritornò flnalmente in Firenze; dove, fra l'altre cose, che furono moite, fece nel monasterio delle Donne di Faenza alcune pitture ed in fresco ed a tempera, che oggi non sono in essere, per esser rovinato quel monasterio. Similmente, I'anno 1322, ' *Delie pitture di questa cappella ora non esiste piú nulla, o quasi nulla; giacchè il misero avanzo che si vede, non basta neppure a far ben comprendere la composizione dello spartimento rimasto. (Vedi Selvático nella Guida di , Padova pel Congresso del 1842). ^ Indi perite, come quelle che, seconde il Baldinucci, fece colà nell'Arena. * * Queste pitture e le altre di Ferrara, giá rammentate, sono perite. * * Anche questa pittura è perita. ® Questo è ancora in buen essere. GIOTTO 389 essendo Tanno innanzi, con suo molto displacere, morto Dante suo amicissimo, ando a Lucca; ed, a richiesta di Castruccio, signore allora di quella città sua patria, fece una tavola in San Martino, drentovi un Cristo in aria, e quattro Santi protettori di quella citta; cioë San Piero, San Eegolo, San Martino e San Paulino, i quali mostrano di raccomandare un papa ed un imperadore; i quali, se- condo che per molti si crede, sono Federigo^ Bavaro e Niccola V antipapa.^ Credono parimente alcuni, che Giotto disegnasse a San Frediano, nella medesima citth di Lucca, il Castelló e Fortezza delia |Giusta,® che è inespugnabile. Dopo, essendo Giotto ritornato in Firenze, Huberto re di Napoli scrisse a Carlo duca di Calavria suo primoge- nito," il quale si trovava in Firenze, che per ogni modo gli mandasse Giotto a Napoli; perciocchè, avendo finito di fabbricare Santa Chiara, monasterio di donne e chiesa reale, voleva che da lui fusse di nobile pittura ador- nata. Giotto, adunque, sentendosi da un re tanto lodato * *Cioè Lodovico. Se Giotto fece questa tavola nel 1322, non puó essere che nella figura del papa vi sia rappresentato Niccolô V antipapa, il quale fu creato nel 12 di maggio del 1328. Come pure non può essere Lodovico il Bavaro, che fu coronato nel 17 gennaio del 1328. Potrebbero essere Federigo d'Austria e Giovanni XXII. ^ *Nè gli annotatori del Vasari, nè le Guide di Lucca, hanno più rammen- tato questa tavola. ® *Propriamente fu chiamata VAugusta, e corrottamente la Gosta o Agosta, e fu fondata da Castruccio nel giugno del 1322. (Vedi Aldo Manuzio, Vita di Castruccio. Lucca, 1843, pag. 69 e seg. ). ^ ± Nella stampa è detto per errore re di Calabria, che noi abbiamo corretto in duca, perché Cario ebbe quel titolo, e solamente fu eletto re di Sicilia, come dice Giovanni Villani (lib. vii, cap. 2). Esso sul principio del 1326 fu eletto signor di Firenze, ove giunse dopo qualche tempo; e d'onde, sulla fine del 27, parti per non piú ritornarvi, essendo morto nel 28. Quindi è a credersi che Giotto gli fosse chiesto o sulla fine del 26 o innanzi la fine del seguente. Egli lo avea ri- tratto in una delle stanze di Palazzo Vecchio, ove poi fu collocata la Depositeria; di che vedi piú innanzi la Vita di Michelozzo. Al i-itratto fu dato di bianco. t L'andata di Giotto a Napoli, chiamatovi dal re Roberto, accadde intorno al 1329. Si conosce un privilegio del 21 gennaio 1330 dato dal detto re al pit- tore florentino, col quale lo fa suo familiare. II privilegio fu pubblicato dallo Schulz nel vol. IV, pag. 163 della sua opera giá citata, 1 monumenti del mez- zogiorno d' Italia. Giotto dimorava tuttavia in Napoli nel 1332. 390 GIOTTO e famoso chiamare, ando più che volentieri a servirlo; e giunto/ dipinse in alcune cappelle del dette mona- sterio molte storie del vecchio Testamento ^ e nuevo. E le storie delfApocalisse, che fecô in dette cappelle, fu- reno (per quanto si dice) invenzione di Dante; come per awentura furono quelle tanto lodate d'Ascesi, delle quali si è di sopra abbastanza favellato: e, sebbene Dante in questo tempe era morte, potevano averno avuto, come spesso avviene fra gli amici, ragionamento. Ma per tor- nare a Napoli, fece Giotto nel castello delf llevo molte opere,® e particolarmente la cappella, che molto piacque a quel re: dal quale fu tanto amato, che Giotto molte volte, lavorando, si trovó essere trattenuto da esse re, che si pigliava piacere vederlo lavorare e d' udire i suoi ragionamenti; e Giotto, che aveva sempre qualchemotto alie mani e qualche risposta arguta in pronto, lo trat- teneva con la mano dipignendo, e con ragionamenti pia- cevoli motteggiando. Onde, dicendogli un giorno il re, che voleva farlo il primo nomo di Napoli, rispóse Giotto : e perciò sono io alloggiato a porta Reale, per essere il primo di Napoli. Un'altra volta, dicendogli il re: Giotto, se io fussi in te, ora che fa caldo, tralascerei un poco il dipingere; rispóse: ed io certo, s'io fussi voi. Essendo, dunque, al re molto grato, gli fece in una sala, che il re Alfonso I rovinò per fare il castello, e cosi nell'Inco- ronata,^ buon numero di pitture; e fra T altre delia detta ^ Si scordò il Vasari di narrar qui come Giotto, neli'andaré a Napoli, volle passar da Orvieto per veder le sculture della facciata ; e quel ch' indi avvenne, e si narra qui appresso nella Vita di Agostino ed Agnolo Sanesi. ^ * Roberto, re di Napoli, gettô la prima pietra della fabbrica di Santa Chiara, nel 1310, la quale fu terminata Fauno 1328. Le pitture di Giotto furono, nella prima metà del secolo passato, fatte ricoprire di stucco dal Borrionuovo, reg- gente della chiesa; la cui vandálica manía di cancellare F opere degli antichi è restata in proverbio. (Vedi Napoli e sue viciname; Guida offerta agli scien- ziati nel Congresso del 1845, vol. I, pag. 353). ® Anche a queste fu poi dalo di bianco. '' * Queste pitture hanno dato materia, in quest' ultimi tempi, a varj scritti di dotte e intelligenti persone, sia per mostrare che esse furono veramente opera GIOTTO 391 sala, vi erano i ritratti di molti uomini famosi, e fra essi quelle di esse Griotto: al quale avendo un giorno, capriccio, per cMesto il re che gli dipingesse il suo Giotto reame, (seconde che si dice) gli dipinse un asino imba- state, che teneva ai piedi un altre basto nuevo e, fiu- tandolo, facea semblanza di desiderarlo; ed in su Tuno e r altre basto nuevo era la corona reale e lo scettro delia podestà: onde, dimandato Giotto dal re, quelle che cotale pittura significasse, rispóse, tale i sudditi suoi es- sere e tale il regno, nel quale ogni giorno nuevo si signore desidera. Partite Giotto da Napoli per andaré a Eoma, si fermò a Gaeta; dove gli fu forza, nella Nunziata, far di tura alcune pit- storie del Testamento nuevo, oggi dal guaste tempe, ma non però in modo, che non vi si benissimo veggia ilritratto d'esso Giotto appresso a un Crocifisso •di Giotto, sia per negarlo. Il Rumohr, il Kugler, il il Vilain Nagler, il conte XIV, il Waagen, Fôrster, il Kestner, stettero per la prima di cav. Stanislao opinione; e, il Aloè di Berlino, più, dettò in francese una illustrazione di pitture, e ne esibi 1'intaglio. queste L'operetta dell'Aloè dette occasione a Ventimiglia Domenico di scrivere tre lettere Sugli r affreschi di Giotto nella chiesa Incoronata del- di Napoli] ed ambidue questi scrittori non fecero altro che più svol- gere largamente gli argomenti a sostegno di questa opinione. Ultimo l'arringo è nel- sceso il signor Gamillo Minie'ri Riccio; il quale, con un titolato libretto in- Saggio storico critico intorno alla chiesa deW Incoronata di é suoi affreschi (Napoli Napoli 1845), ha preso ad esaminar novamente la e a combatiere questione, l'opinione degli autori summenzionati ; storiche mostrando, con critiche, che ragioni e Giotto non pote esser 1'au tore affreschi Sacramenti degli co'sette che oggi si vedono nell'Incoronata, né di nessun'altra un tempo pittura che possa essere esistita in quel luogo. E siccome la sua a noi la opinione più accettabile, parve perché sostenuta con ragioni più sicure e date; fon- cosi, a dilucidare meglio una cosi importante questione, riferiremo nella parte del seconda Commentario posto in fine di questa Vita-, l'estratto che del delia Minieri Riccio stampô il operetta signor Emmanuele Rocco nel numero 43 del cifero Lu- ( novembre 1845 ). t Scrissero ancora sopra questo argomento, e fossero di negando che le dette Giotto, lo Schulz pitture we sxxoi Monumenti del gelucci nelle Mezzogiorno d'Italia, l'An- sue Lettere sulla chiesa deWIncoronata, ed últimamente il caselle Gavai- (vol. I, p. 561 e seg. dell'op. cit.), concludendo che strano di «quelle pitture mo- esser l'opéra d'uno vissuto nella meta del secolo delle grandi decimoquarto, massime di seguace Giotto, senza però che ne l'energia possedesse il il genio inventivo, e sapere. » 392 GIOTTO grande, molto bello. Finita quest'opera, non potendo ció negare al signer Malatesta, prima si trattenne per ser- vigió di lui alcnni giorni in Roma, e di poi se n'andò a Rimini, delia qual città era il dette Malatesta signere; e 11, nella chiesa di San Francesco, fece moltissime pit- ture: le quali poi da Gismondo, figliuolo di Pandolfo Ma- latesti, che rifece tutta la detta chiesa di nuevo, furono gettate per terra e rovinate. Fece ancora nel chiostro di dette luego, aU'incontro délia facciata délia chiesa, in fresco, historia delia Beata* Michelina;^ che fu una delle più belle ed eccellenti cose che Giotto facesse giam- mai, per le molte e belle considerazioni che egli ebbe nel lavorarla: perché, oltre alia bellezza de'panni, e la grazia e vivezza delle teste, che seno miracolose, vi è, quanto può donna esser bella, una giovane, la quale, per liberarsi dalla calunnia dell'adulterio, giura sopra un libro in atto stupendissimo, tenendo fissi gli occhi suoi in quelli del marito, che giurare le facea per diffidenza d'un figliuolo nero partorito da lei, il quale in nessun modo poteva ac- conciarsi a credere che fusse suo. Costei, siccome il mar rito mostra lo sdegno e la dif&denza nel viso, fa cono- scere, con la pieta della fronte e degli occhi, a coloro che intentissimamente la contemplano, la innocenza e semplicità sua, ed il torto che se le fa, facendola giurare e pubblicandola a torto per meretrice. Medesimamente, grandissime affetto fu quelle ch' egli espresse in un in- fermo di certe piaghe; perché tutte le femmine che gli sono interno, offese dal puzzo, fauno certi storcimenti ^ *Le storíe della Beata Michelina da Pesaro, oggi imbiancate, non pote- roño esser dipinte da Giotto, perciocchè essa mori nel 1356. (Vedi Marcheselli, Pitture di Rimini. Rimini 1754). Ma ch'egli poi dipingesse in questacittà, ce lo attesta ancora Riccobaldo Ferrarese, cronista contemporáneo, in quel suo prezioso ricordo sotto 1'anno 1312, ove dice; Zòtus pictor eximius florentiniis agnoscitur qualis in arte fuerit. Testantur opera facta per eum in ecclesiis Minorum Assisii, Arimini, Padua, et ea quae pinxit in Palatio Communis Paduae, et in ecclesia Arenae Paduae. (Muratori, Rer. Ital. Script., tom. IX,, col. 255; e Cicognara, Nielli ecc. ). GIOTTO 393 schifi, i più graziati del mondo. Grii scorti, poi, che in un altro quadro si veggiono fra una quantity di poveri rattratti, sono molto lodevoli, e deono essere appresso gli artefici in pregio, perche da essi si è avuto il primo principio e modo di farli; senza che non si può dire che siano, come primi, se non ragionevoli. Ma, sopra tutte r altre cose che sono in questa opera, è meravigliosis- simo r atto che fa la sopraddetta Beata verso certi usu- rai, che le sborsano i danari della vendita delle sue pos- sessioni per dargli a'poveri; perché in lei si dimostra il dispregio de' danari e delle altre cose terrene, le quali pare che le putano; ed in quelli il ritratto stesso del- r avarizia e ingordigia umana. Parimente, la figura d'uno che, annoverandole i danari, pare che accenni al notaio che scriva, è molto hella; considerato, che sebbene ha gli occhi al notaio, tenendo nondimeno le mani sopra i danari, fa conoscere l'aiîezione, l'avarizia sua e la diifî- denza. Símilmente, le tre figure che in aria sostengono r abito di San Francesco, figúrate per 1'Ubbidienza, Pa- cienza e Povertà, sono degne d'infinita lode; per essere, massimamente nella maniera de'panniun naturale andar di pieghe, che fa conoscere che Giotto nacque per dar luce alia pittura. Ritrasse, oltre ció, tanto naturale il signer Malatesta in una nave di questa opera, che pare vivissimo ; ed alcuni marinari ed altre genti, nella pron- tezza, nell'affetto e nell'attitudini ; e particolarmente una figura che, parlando con alcuni e mettendosi una mano al viso, sputa in mare, fa conoscere l'eccellenza di Giotto. E cortamente, fra tutte le cose di pittura fatte da questo maestro, questa si può dire che sia una delle migliori ; perché non é figmra in si gran numero, che non abbia in sé grandissimo artifizio e che non sia posta con capricciosa attitudine. E però non é maraviglia, se non mancó il signor Malatesta di premiarlo magníficamente e lodarlo. Finiti i lavori di quel signore, fece, pregato 394 GIOTTO da un priore fiorentino che ahora era in San Cataldo d'Arimini, fuor della porta deha chiesa, un San Tommaso d'Aquino che legge a' suoi Frati. ^ Di quivi partite, tornó a Ravenna, ed in San Giovanni Evangelista fece una cappella a fresco lodata molto.^ Essendo poi tomato a Firenze con grandissime onore e con huone facultà, fece in San Marco, a tempera, un Crocifisso in legno, mag- giore che il naturale, e in campo d'oro; il quale fu messe a man destra in chiesa:® ed un altre simile ne fece in Santa Maria Novella^ in sul quale Puccio Capanna, sue create, lavorò in sua compagnia; e quest' è ancor oggi sulla porta maggiore, nell'entrare in chiesa a man de- stra, sopra la sepoltura de'Gaddi/ E nella medesima chiesa fece, sopra il tramezzo, un San Lodevice a Paolo * * Sopra la porta maggiore della detta cliiesa, che oggi dicesi di San Dome- nico, ai tempi del Piacenza si vede va tuttavia qualche vestigio di questa pittura. ^ * Nella volta della cappella di San Bartolommeo, di San Giovanni della Sagra, stanno espressi i quattro Evangelisti coi loro simboli, e i santi dottoiû Gre- gorio, Ambrogio, Agostino e Girolamo, d'invenzione del famoso Giotto; pitture últimamente ravvivate da Francesco Zanoni padovano. ( Gosi il Beltrami , Guida di Ravenna^ 1783). t Si attribuiscono a Giotto anche altre pitture in Ravenna, cioè quelle che si veggono in Santa Croce, in Santa Maria in Porto Fuori, e le altre della Badia della Pomposa. Ma sono cose di gran lunga inferiori alie opere del maestro florentino. ® * Questo Crociflsso vedesi oggi sopra la porta maggiore. Esso avanza in bellezza gli altri due citati più sotto dal Vasari; quello, cioé, della chiesa di Ognissanti, e l'altro di Santa Maria Novella. " * Anche questo sta tuttavia sopra la porta principale di questa chiesa; sennonchè esso differisce non poco nel carattere da quello di San Marco e dal- l'altro d'Ognissanti ; della qual diíferenza può esser cagione l'averci lavorato Puccio Capanna. Ma che non si possa escludere dalle opere di Giotto, ce ne da ragioné un prezioso documento inédito, giá nel Diplomático di Firenze, ed ora asistente nell'Archivio di Stato, tra le carte di Santa Maria Novella. É questo il testamento di Riccuccio del fu Puccio del Mugnaio, del popolo di Santa Maria Novella, de'15 giugno 1312, regato da Mañeo di Lapo da Firenze; nel quale, tra gli altri legati, lascia «solvere sacristie Sánete Marie Fratrum Predicatorum dicte ecclesie Sánete Marie Novelle libras quinqué Florenorum parvorum pro emendis exinde annuatim duobus urceis olei, ex quo oleo unus urceics sit pro tenenda contimie illuminata lampada Crucifixi entis in eadem ecclesia Sánete Marie NovellOj pictiper egregium pictorem nomine Giottum Bondonis, qui est de dicto populo Sánete Marie Novelle.... Alius vero ureeus sit ad al- leviandum lianc soeietatem {Laudum) expensis solitis faetis per earn in emendo oleo pro lampade magne tabule in qua est picta figura Reate Marie Virginis: GIOTTO 395 di Lotto Ardinghelli, e a'piedi il ritratto di lui e della moglie di naturale/ L'anno poi 1827, essendo Gruido Tarlati da Pietramala, vescovo e signore d'Arezzo, morto a Massa di Maremma nel tornare da Lucca, dove era state a visitare l'impera- dore; poiclië fu pórtate in Arezzo il suo corpo, e li ebbe avuta r onoranza del mortorio onoratissima; deliberarono Piero Saccone e Dolfo da Pietramala, fratello del vescovo, che gli fosse fatto un sepolcro di marino, degno della grandezza di tanto uomo, state signore spirituale e tem- porale, e capo di parte ghibellina in Toscana. Perche, scritto a Giotto che facesse il disegno d'una sepoltura ricchissima, e quanto più si potesse onorata, e manda- togli le misure ; lo pregarono appresso, che mettesse loro per le mani uno scultore il più eccellente, seconde il parer suo, di quanti ne erano in Italia, perche si rimet- tevano di tutto al giudizio di lui. Giotto, che córtese era, fece il disegno e lo mandó loro; e seconde quelle, come al suo luego si dira,^ fu fatta la detta sepoltura. E perche il dette Piero Saccone amava infinitamente la virtù di questo uomo; avendo presO, non molto dope che ebbe avuto il dette disegno, il Borgo a San Sepolcro, di là conclusse in Arezzo una tavela di man di Giotto, di figure piccole, che poi se n' ë ita in pezzi: e Baccio Gondi, gen- tiluomo fiorentino, amatore di queste nobili arti e di tutte le virtù, essendo commissario d' Arezzo, ricercò con gran diligenza i pezzi di questa tavela ; e trovatone al- cuni, li condusse a Firenze, dove li tiene in gran vene- que tabula est in eadem ecclesia Sánete Marie Novelle. E più sotto : conventui Fratrum Predicatorum de Prato solidos vigînti 'fl.or. parvorum solvendos prope tempus sepulture corporis ipsius testatoris ut eœpendantur in oleo pro illumi- nandapulcra tabula ente in ecclesia ipsius conventus, quam ipse Riccucci fecit pingi per egregium pictorem nomine G iottum B ondonis de Florentia >•>. ' * Quest'opera, tolto via il tramezzo, è perduta. ^ Vide per avventura il disegno che dallo scultore ne fu fatto e ne disse il proprio parère. Vedi appresso nelle note alla Vita d'Agostino ed Agnolo Sanesi. 396 GIOTTO razione, insieme con alcune altre cose che ha di mano del medesimo Giotto: il quale lavorò tante cose, che raccontandole, non si crederebhe. E non sono molti anni, che trovandomi io all' eremo di Camaldoli, dove ho moite cose lavorato a que'reverendi Padri, vidi in una celia ( e vi era stato pórtate dal molto reverendo Don Antonio da Pisa, allera generale della congregazione di Camal- doli) un Crocifisso piccolo in campo d'oro, e col nome di Giotto di sua mano, molto bello: il quale Crocifisso si tiene oggi, seconde che mi dice il reverendo Don Sil- vano Eazzi moñaco camaldolense, nel monasterio degli Angeli di Firenze,^ nella celia del maggiore, come cosa rarissima, per essere di mano di Giotto, ed in compa- gnia d' un bellissimo quadretto di mano di Raffaello da IJrbino. Dipinse Giotto a'Frati Umiliati d'Ognissanti di Fi- renze una cappella e quattro tavole; e fra l'altre, in una la Nostra Donna con molti Angeli interno e col Fi- gliuolo in braccio, ed un Crocifisso grande in legno:^ dal quale Puccio Capanna pigliando il disegno, ne lavorò poi molti per tutta Italia, avendo molto in pratica la ma- niera di Giotto. Nel tramezzo di detta chiesa era, quando questo libro delle Vite dei Pittori, Scultori e Architetti * *Di questo Crocifisso non abbianao più notizia. ^ *Di queste opere, la sola che oggi si veda in questo luogo, è il Croci- :fisso, che sta appeso in una párete della cappella Gondi Dini. La tavola di Nostra Donna con molti Angeli intorno e col Figliuolo in braccio fu traspor- tata nella Gallería delFAccademia delle Belle Arti. t Di essa tavola, che pare fosse posta in un altare della chiesa d'Ognis- santi la porta del coro, parla un Ricordo, citato anche dal Richa ( Chiese presso Morentine, vol. IV, pag. 250), che dice cosi: « Anno 1417^ die 21 martii. JFrater Antonius procurator domini fratris Bindi Philippi Prépositif et alio- rum frairum Omnium Sanctorum de Florentia concedit Francisco Ser Be- nozii pro se et filiis et descendentïbus masculis ex linea masculina altare positum in eorum ecclesia dive Marie Yirginis cum tabula nobili picta per 'Olim famosum pictorem magistrum Giottum, positum iuxta portam introitus chori a latere dextro intrando a via et eundo ad chorum » ( Zibaldone Manni e Baldinucci. Ms. magliabechiano ; cod. 110, palch. ii, c. 374. Spogli delle carte 'di casa Rosselli ). GIOTTO 397 si stampò la prima volta, una tavolina a tempera, stata dipinta da Giotto con infinita diligenza; dentro la quale era la morte di Nostra Donna con gli Apostoli intorno, e con un Cristo che in braccio T anima di lei riceveva. Questa opera dagli artefici pittori era molto lodata, e particolarmente da Michelagnolo Buonarroti; il quale affermava, come si disse altra volta; la proprietà di questa istoria dipinta non potere essere più simile al vero di quello ch'ell'era. Questa tavoletta, dico, essendo venuta in considerazione, da che si diede fuora la prima volta il libro di queste Vite, è stata poi levata via da chi che sia, che, forse per amor dell'arte e per pietà, parendogli che fusse poco stimata, si è fatto, come disse ihnostro poeta, spietato/ E veramente, fu in que'tempi un mi- ' *È Etruria Pittrice un intaglio di una piccola tavola posseduta a quel tempo dal pittore Lamberto Gori, oggi smarrita, e che supponevasi esser quella stessa di Giotto che dalla chiesa d' Ognissanti fu ai tempi del Vasari ru- bata. Ma l'annotatore alia edizione vasariana fatta in Firenze nel 1832-38 giu- stamente osservava, che 1'intaglio non corrisponde punto colla descrizione che fa di essa tavoletta il Biógrafo. Infatti, in esso, oltre gli Apostoli, sono altri quattro Santi, e non vi si vede il Cristo che in braccio V anima della Vergine riceve. Avvi però in alto rappresentato come il Paradiso, dove in figure molto piú piccole è espresso Cristo, che nella mano sinistra tiene un libro ov'è scritto A e Q, e colla destra benedice la Vergine, la quale in atto reverente a lui si presenta. Sei Angeli, tre per banda, fanno loro corona. È dunque evidente che r intaglio suddetto non riproduce la celebrata tavoletta giottesca; essendochè in questa era figurato il Transito della Vergine; e nell'altra áeWEtruria Pittrice è rappresentato quando essa è posta dagli Apostoli nel sepolcro. Nondimeno, il prof. Rosini, non curando questa differenza, la diede di nuovo come opera di Giotto nella tav. xiv della sua Storia della pittura italiana ; e prima di lui fu esibita dal D'Agincourt nella tav. cxiv della Pittura. Ma qualunque intelligente delle diverse maniere non solo del maestri, ma si ancora dei tempi, si porrà ad esaminare in ogni sua parte quell'intaglio, vi trovera non leggiera differenza dalle opere di Giotto, si nel comporre come nel panneggiare ; e verrà nell' opi- nione, quello esser tratto da un dipinto di un maestro del secolo xv. Anzi noi, quantunque sia cosa ardita di giudicare d'un'opera dall' intaglio, teniamo per fermo che il dipinto da cui esso fu tratto sia opera di mano dell'Angelico. E qui (non certo per vanitá) ci sia permesso dichiarare, che qualche tempo innanzi che ci fosse dato l'incarico di condurre la presente edizione del Vasari, noi già per semplice ricordo avevamo gettato in carta questa nostra opinione; quando ve- nutaci fra mano la importantissima opera tedesca del signor G. F. Waagen sopraccitata, trovammo in essa, con nostra grande soddisfazione, che quella tavoletta ora si conserva in Inghilterra nella raccolta di Young Ottley; (ora è 398 GIOTTO racole, che Giotto avesse tanta vaghezza nel dipingere, considerando massimamente che egli imparò T arte in un certo modo senza maestro. Dopo queste cose, mise mano, Tanno 1834 a di 9 di luglio, al campanile di Santa Maria del Flore : il fonda- mento del quale fu, essendo stato cavato venti braccia a dentro, una platea di pietre forti,^ in quella parte donde si era cavata acqua e ghiaia; sopra la quale platea, fatto poi un buen getto; che venne alto dodici braccia dal primo fondamento, fece fare il rimanente, cioè l'altre otto braccia di muro a mano. E a questo principio e fondamento intervenne il vescovo délia città, il quale, presente tutto il clero e tutti i magistrati, mise solen- nemente la prima pietra.^ Continuandosi poi questa opera col detto modello, che fu di quella maniera tedesca che in quel tempo s'usava, disegnò Giotto tutte le storie che andavano nelbornamento, e scomparti di colori blanchi, neri e rossi il modello in tutti que' luoghi, dove avevano a andaré le pietre e i fregi, con molta diligenza. Fu il posseduto dal signor William Fuller Maitland) e, quel che più importa, confer- mato il nostro giudizio dall'autore tedesco, il quale senza esitare la restituisce al- r Angélico con queste parole : « Fiesole. Maria portata al sepolcro. Questo qua. « dro, eseguito a guisa di miniatura, ha nelle moltiformi e delicate teste degli « Apostoli e nel viso nobile di Maria tutta la bellezza e tutto 1'intimo senti- « mento dell'artista. Vi si trova dietro una iscrizione di Lamberto Gori del- « l'anno 1789, nella quale si dice che questo quadretto dev'essere citato dal « Vasari come un'opera di Giotto esistita nella chiesa di Borgognissanti, ma « che trovossi piú tardi nelle mani del ben noto Hudgford, che in fatti lo fece « incidere come opera di Giotto nella Etruria Pittrice. Adduco questo come una « notabile prova di quanto fossero deboli in quel tempo e la critica e la cogni- « zione di simili quadri ». Dopo questa testimonianza del peritissimo e diligen- tissimo signor Waagen, non è da prestar fede alio Schorn, annotatore del Vasari tradotto in tedesco, quando dice di aver letto in questa tavoletta la iscrizione Opus magistri Jocti ; délia quale scritta non fecero menzione nè il Vasari nè quanti altri di essa parlarono. Forse è da credere che il nome di Giotto si trovi scritto in quella memoria apposta dietro a essa tavoletta da Lamberto Gori, persuaso che fosse quella dal Vasari descritta. ^ Nell'edizione del 1568 leggesi replicatamente platea, il che ci è sembrato di dover correggere in platea. ^ *11 Villani, lib. xi, cap. 12, assegna il 18 di luglio corne giorno délia so- lenne fondazione di questo campanile. GIOTTO 399 circuito da basso, in giro, largo braccia cento, cioe braccia venticinque per ciascuna faccia; e Taltezza braccia cento quaranta quattro. E se è vero, che tengo per verissimo, quelle che lasciò scritto Lorenzo di Cione Ghiberti; fece Giotto non solo il inodello di questo campanile, ma di scultura ancora e di rilievo parte di quelle storie dimarmo, dove sono i principií di tutte Tarti.^ E Lorenzo dette af- ferma aver veduto modelli di rilievo di man di Giotto, e particolarmente quelli di queste opere : la qual cosa si può credere agevolmente, essendo il disegno e 1'inven- zione il padre e la madre di tutte quest'arti, e non d'una sola. Doveva questo campanile, seconde il modello di Giotto, avere per finimente sopra quelle che si vede, una punta owere pirámide quadra alta braccia cinquanta; ma, per essere cosa tedesca e di maniera vecchia, gli architettori moderni non hanno mai se non consigliato che non si faccia, parendo che stia meglio cosi. Per le quali tutte cose fu Giotto non pure fatto cittadino fio- rentino, ma provvisionato di cento fiorini d'oro l'anno dal Comune di Firenze, ch'erain que'tempi gran cosa; 0 fatto provveditore sopra questa opera,® che fu seguí- tata dopo lui da Taddeo Gaddi, non essendo egli tanto vivuto che la potesse vedere finita. Ora, mentre che que- st' opera si andava tirando innanzi, fece alie monache di San Giorgio una tavola; ® e nella Badia di Firenze, in un arco sopra la porta di dentro la chiesa, tre mezze figure, oggi coperte di bianco per illuminare la chiesa. E nella ' Lo stésso affermò il Varchi nell'Orazione per Tesequie di Michelangiolo. ^ *11 Baldinucci, neirApologia che segue alla Vita di Cimabue, riferisce una Provvisione della Repubblica Fiorentina, ottenuta nel 12 aprilel334, colla quale è ordinato che sia eletto e deputato Giotto a capomaestro del lavorio e dell'opera della chiesa di Santa Reparata, della costruzione e perfezione delle naura e Ibr- ^tificazioni della cittá, e d'ogni e qualunque opera del Comune di Firenze. Questa Provvisione fu ristampata dal Gaye nel vol. I, p. 483, del Carteggio inédito ecc. ® * Questa tavola, che il Ghibèrti dice perfettissima, ai tempi del Cinelli esi- steva; ora non ne abbiamo piú memoria. 400 GIOTTO sala grande del podestà di Firenze dipinse il Comune rubato da molti: dove, in forma di giudice con lo scettro in mano, lo figuro a sedere, e sopra la testa gli pose le bilance pari per le giuste ragioni ministrate da esse; aiu- tato da quattro virtù, che sono la Fortezza con l'animo, la Prudenza con le leggi, la Giustizia con l'armi, e la Temperanza con le parole: pittura bella, ed invenzione propria e verisimile/ Appresso, andato di nuovo a Padoa, oltre a moite altre cose e cappelle ch'egli vi dipinse, ^ fece nel luogo deirArena® una Gloria mondana, clie gli arrecò molto onore e utile. Lavorò anco in Milano alcune cose, che sono sparse per quella città, e che insino a oggi sono ^ * Pittura che oggi non si vede piú. ® * A Padova dipinse nella sala délia Ragione ; ma queste pitture dopo l'in- cendio del 1420 dovettero perire. Quelle che al presente si vedono, e che in trecento diciannove scompartimenti rappresentano i segni dello zodiaco, le fac- cende di ciascun mese, i pianeti, le inchnazioni dell'uomo, la vita umana ecc., sono opera, parte di un Zuan Miretto Padovano, e parte di un Ferrarese, Guida di corne si rileva dall'Anonimo Morelliano. ( Vedi Selvático , Padova). ® Questo luogo è l'Oratorio dell'Annunziata, fatto edificare da Enrico Scro- vegno nel 1303. Le pitture sono disposte in tre ordini di spartimenti: nel più alto si vedono rappresentati i fatti délia vita delia Madonna, e nei due inferiori quelli délia vita di Gesú Cristo. Nel basamento sono dipinte a chiaroscuro le sette principal! Virtù, e di faccia i Vizj contrarj. Sopra la porta è il Giudizio finale: anche la volta, azzurra e stellata, ha, a quando a quando, delle mezze figure di Santi. Non tutti quest! aíïreschi ( che sono moltissimi ) mostrano di es- sere usciti dalla mano di Giotto ; e sembrano in moite parti opera piuttosto dei suoi aiuti ed allievi. Giotto era in Padova nel 1306 ; dove Dante, che si trovava colà da qualche tempo, lo incontrô, come dice Benvenuto da Imola; il quale aggiunge che il pittor fiorentino era assai giovane. Delle due andate di Giotto Padova potrebbesi muover dubbio colle espressioni di Michèle Savonarola a (De Laudïbus Patavii, in Muratori, Rer. Ital. Script., tom. XXIV, col. 1170). Egli, dopo aver nominate la cappella degli Scrovegni e il Capitolo del Santo, soggiunge: Et tantum dignitas Civitatis eum eommovit, ut maximam suae vitae partem in ea consumavit. La quale notizia è di molta rilevanza, e degna anche di molta fede, perché venuta da uno scrittore di coscienza, che scriveva in Pa- dova un secolo dopo la morte di Giotto, e che poteva aver notizie esatte appena di lui. E sarebbe più ragionevole il credere, che quanto Giotto dipinse in Pa- dova, fosse fatto non in due volte, ma in un tempo solo. Per una più estesa» illustrazione di questo Oratorio, vedi la pregevole operetta del márchese P. Sel- vatico, intitolata: Sulla Cappellina degli Scrovegni ecc., e su i freschi di Giotto (Padova 1836, in-8 con tav.). GIOTÏO 401 teniite bellissime/ Finalmente, tomato da Milano, non passò molto che, avendo in vita fatto tante e tanto belle opere, ed essendo stato non meno buon cristiano che ec- cellente pittore, rende ranima a Dio ranno 1336,' con molto displaceré di tutti i suoi cittadini, anzi di tutti co- loro che non pure Tavevano conosciuto, ma udito no- minare; e fu seppellito, siccome le sue virtù meritavano, onoratamente, essendo stato in vita amato da ognuno, e particolarmente dagli uomipi eccellenti in tutte le pro- fessioni: perché, oltre a Dante, di cui avemo di sopra favellato, fu molto onorato dal Petrarca, egli e Popere sue; intanto che si legge nel testamento suo, ch'egli la- scia al signor Francesco da Carrara, signor di Padoa, fra Paître cose da lui tenute in somma venerazione, un qua- dro di man di Giotto, dentrovi una Nostra Donna; come cosa rara e stata a lui gratissima. E le parole di quel capitolo del testamento dicono cosi: Transeo ad disposi- tionem alianim rerum; et prœdicto igitur domino meo Pa- ' *Le pitture fatte a Milano da Giotto, chiamatovi da Azzone Visconti, furono indegnamente distrutte. Oggi in Milano non si conosce se non un quadro di No- stra Donna col putto, nella Pinacoteca di Brera, che porta scritto il suo nome cosí: opvs magistri jocti florentini . Ma il signor G. Masselli notava, a pag. 1151-52 delia edizione vasariana, fatta in Firenze negli anni 1832-33, che questo quadro non è se non la parte di mezzo dell' ancona che una volta era nella sa- grestia di Santa Maria degli Angeli di Bologna, i cui laterali si conservano ora nella Pinacoteca di quella città. In essi sono figurati San Pietro, San Paolo, e gli Arcangeli Michele e Gabriele ; e nello zoccolo, le immagini del Redentore, delia Vergine e di tre Santi. t Sarebbe per noi lunga faccenda e noiosa se dovessimo registrare tutte le opere che sotto il nome di Giotto, senza nessun fondamento di veri ta o di ra- gione, si veggono sparse per le Gallerie pubbliche' e nelle Raccolte private d'Eu- ropa. Moite di quelle che il Vasari od altri ricordano, sono oggi perdute. Opera senza dubbio del maestro florentino, anche senza far caso dell'esservi scritto il suo nome, si dice quella tavoletta posseduta dalla principessa Orloif in Firenze, nella quale è rappresentata in piccole flgure la Cena del Nostro Signore cogli Apostoli. In basso delia tavoletta è questa iscrizione : Hoc ojpus fecit fieri domina Johanna uxor dim Gianni de Bardis pro remedio anime ipsius Gianni. Ma- gister locti (sic) de Florentin. ® *11 Villani (lib. xi, cap. 12) registra la morte sua con queste « Maestro parole: Giotto tomato da Milano, che il nostro Comune ve I'avea mandato al servizio del signore di Milano, passò di questa vita a'di 8 di gennaio 1336 ». V asabi , Opere. — Vol. J. 20 402 GIOTTO dmno, quia et ipse per Dei gratiam non eget, et ego nihil aliud habeo dignum se, mitto tabulam meam sive historiam Beatce Virginis Mariœ, opus Jocti pictoris egregii, quœ milii ah amico meo Michaële Vannis de Florentia missa est^ in cujus pulchritudinem ignorantes non intelligunt, magistri autem artis stupent: hanc iconem ipsi domino lego, ut ipsa Virgo benedicta sibi sit propitia apud filium suum Jesum Christum etc. Ed il medesimo Petrarca, in una sua pi- stola latina nel quinto libro delle Familiari, dice queste parole : Atque (ut a veteribus ad nom, ah externis ad nostra transgrediar) duos ego novi pictores egregios, nee formosos^ Joctum Florentinum civem, cujus inter modernos fama in- gens est, et Simonem Senensem. Novi scultores aliquot etc. Fu sotterrato in Santa Maria del Fiore, dalla banda si- nistra entrando in chiesa, dove ë un matton di niarmo bianco per memoria di tanto nomo. E, come si disse nella Vita di Cimabue, un comentator di Dante, che fu nel tempo che Giotto viveva, disse: «Fu ed è Giotto tra i « pittori il più sommo delia medesima città di Firenze, « e le sue opere il testimoniano a Roma, a Napoli, a Vi- « gnone, a Firenze, a Padova e in moite altre parti del « mondo ». I discepoli suoi furono Taddeo Gaddi, stato tenuto da lui a battesimo, come s' ë dette; e Puccio Gapanna fio- rentino, che in Rimini, nella chiesa di San Cataldo dei Frati Predicatori, dipinse perfettamente in fresco un voto d'una nave che pare che affoghi nel mare, con uomini che gettano robe nell'acqua; de' quali ë uno esso Puccio. ritratto di naturale, fra un buen numero di marinari. Dipinse il medesimo in Ascesi nella chiesa di San Fran- cesco molte opere dopo la morte di Giotto V ed in Fio- renza, nella chiesa di Santa Trinita, fece alíate alia porta di fiance, verso il fiume, la cappella degli Strozzi, dove ' Le pitture da lui fatte m Assist dopo la morte di Giotto si sono in buona parte consérvate. GIOTTO 403 è in fresco la Coronazione della Madonna, con un coro d'Angelí, che tirano assai alia maniera di Giotto; e dalle bande sono storie di Santa Lucia, molto ben lavorate/ Nella Badia di Firenze dipinse la cappella di San Gio- vanni Evangelista, della famiglia de' Covoni, allato alia sagrestia; ^ ed in Pistoia fece a fresco la cappella maggiore della cbiesa di San Francesco,® ela cappella di San Lo- dovico, con le storie loro, che sono ragionevoli/ Nel mezzo della cbiesa di San Domenico della medesima città è un Crocifisso, una Madonna e un San Giovanni, con molta dolcezza lavorati; e ai piedi un'ossatura di morto intera; nella quale, cbe fu cosa inusitata in que'tempi, mostró Puccio aver tentato di vedere i fondamenti del- Tarte. In quest'opera si legge il suo nome, fatto da lui stesso, in questo modo: Puccio di Fiorenza me fece.® E ' di sua mano ancora in detta cbiesa, sopra la porta di ^ Santa Maria Nuova, nelT arco, tre mezze figure; la Nostra Donna col Figliuolo in braccio, e San Piero da una banda, e dalTaltra San Francesco.® Dipinse ancora nella già, detta città d'Ascesi, nella cbiesa di sotto di San Francesco, al- cune storie della passione di Gesù Cristo in fresco, con buona pratica e molto risoluta; e nella cappella della cbiesa di Santa Maria degli Angelí, lavorata a fresco, un Cristo in gloria, con la Vergine cbe lo priega pel popolo cristiano: la quale opera, cbe è assai buona, è tutta affu- * Cappella che poi fu rimodernata, ed ove dipinse la tavela l'Empoli, ei freschi il Poccetti. Belle pitture del Capanna nulla vi rimase. ^ Anche questa fu poi tutta rimodernata. ® Le pitture di questa cappella furono poi tutte imbiancate, tranne una santa Maria Egiziaca, che si conserva in un armadio destinato al servizio dell'altare. *■ Le storie di san Lodovico e di altri Santi sono benissimo consérvate. Era in San Francesco anche un Crocifisso del Capanna, simile a quelle fatto da Giotto per la chiesa d'Ognissanti, e fu venduto ad un mercante. Nel Capitolo del con- vento sono le Capannucce istituite da san Francesco, ed altre storie dipinte in parte dal Capanna, e terminate (credesi) da Antonio Vite. ® Di questo Cristo colla Madonna e san Giovanni non si sa quel che ne sia avvenuto. ® Queste tre mezze figure sono invece sopra la porta di San Francesco. 404 GIOTTO micata dalle lampane e dalla cera che in gran copia vi si arde continuamente. E di vero, per quelle che si può giudicare, avendo Pnccio la maniera e tutto il modo di fare di Giotto suo maestro, egli se ne seppe serviré assai neiropere che fece; ancorchë, come vogliono alcuni, egli non vivesse molto, essendosi infórmate e morte per troppo lavorare in fresco. E di sua mano, per quelle che si co- nosce, nella medesima chiesa la cappella di San Martine, e le storie di quel Santo lavorate in fresco per lo car- dinal Gentile. Vedesi ancora, a mezza la strada nomi- nata Portica, un Cristo alia colonna; ed in un quadro, la Nostra Donna, e Santa Caterina e Santa Chiara che la mettono in mezzo. Sono sparte in molti altri luoghi opere di cestui: come, in Bologna, una tavela nel tra- mezzo della chiesa,^ con la passion di Cristo, e storie di San Francesco; e, insomma, altre che si lasciano per bre- vita. Dirò bene, che in Ascesi, dove sono il più dell'opere sue, e dove mi pare che egli aiutasse a Giotto a dipi- gnere, ho tróvate che lo tengono per loro cittadino, e che ancora oggi sono in quella cittk alcuni della fami- glia de' Capanni. Onde fácilmente si può credere che na- scesse in Firenze, avendolo scritto egli, e che fusse di- scepolo di Giotto ; ma che poi togliesse moglie in Ascesi, che quivi avesse figliuoli, e ora vi siano discendenti. Ma perché ció sapere appunto non importa più che tanto, hasta che egli fu biion maestro. Fu simihnente discepolo di Giotto, e molto pratico dipintore, Ottaviano da Faenza, che in San Giorgio di Ferrara, luego de'monaci di Monte Oliveto, dipinse molte cose; ed in Faenza, dove egli visse e morí, dipinse nel- l'arco sopra la porta di San Francesco una Nostra Donna, e San Piero e San Paolo; e moltre altre cose in detta sua patria ed in Bologna. ' *In qual chiesa? Il Vasari si dimenticò di dirlo. Forse si può congettu- rare che fosse in San Francesco. GIOTTO 405 Fu anche discepolo di Giotto Pace da Faenza, che stette seco assai e V aiutò in moite cose : ed in Bologna sono di sua mano, nella facciata di fuori di San Giovanni decollato, alcune storie in fresco. Fu questo Pace-valen- tuomo, ma particolarmente in fare figure piccole: come si può insino a oggi veder nella chiesa di San Francesco di Forli, in un albero di Croce , e in una tavoletta a tem- pera, dove è la vita di Cristo e quattro storiette delia vita di Nostra Donna; che tutte sono molto ben lavo- rate. Dicesi che cestui lavorò in Ascesi in fresco, nella cappella di Sant'Antonio, alcune istorie della vita di quel Santo, per un duca di Spoleti ch'-è sotterrato in quel luogo con un suo figliuolo; essendo stati morti in certi sobhorghi d'Ascesi comhattendo, seconde che si vede in una lunga inscrizione che ë nella cassa del dette sepol- ero.' Nel vecchio libro della Compagnia de'dipintori si trova essere state discepolo del medesimo un Francesco dette di maestro Giotto; del quale non so altro ra- gionare.® Guglielmo da FoiTi fu anch'egli discepolo di Giotto; ed oltre a molte altre opere, fece in San Domenico di Forli sua patria la cappella dell' altar maggiore. ® Furono anco discepoli di Giotto, Pietro Laureati, Simon Memmi sanesi,* Stefano florentino, e Pietro Cavallini romano. Ma perché di tutti questi si ragiona nella Vita di ciascun di loro, basti in questo luogo aver dette che furono disce- poli di Giotto: il quale disegnò molto bene nel suo tempo, . 'Ci fu additata in Faenza, dice il Lanzi, come opera di questo Pace un antica imagine di Nostra Donna nella chiesa che fu già dei Templari. ^ Fra i maestri che lavorarono di scultura al Duomo d' Orvieto nel 1345, trovo, dice il Della Valle nella StoHa di quel Duomo, un Angiolino di maestro Giotto Fiorentino. ' Questo Guglielmo, che fu il più antico pittore di Forli, e trovasi pur chiamato Guglielmo degli Organi, fece in sua patria, dice il Lanzi, alcune pit- ture anche a'Francescani. Non par che siasi conservata di lui pittura alcuna. ' Il Laurati, ossia il Lorenzetti, e Simone da Siena (vedine più oltre le Vite) non furono certo scolari di Giotto. 406 GIOTTO e di quella maniera; come nefanno fede moltecartepecore disegnate di sua mano di acquerello, e profilate di penna e di chiaro e scuro, e lumeggiate di bianco, le quali sono nel nostro Libro de'disegni;^ e sono, a petto a quelli de' maestri stati innanzi a lui, veramente una maraviglia. Fu, come si e detto, Giotto ingegnoso® e piacevole inolto, e ne'motti argutissimo, de'quali n'è anco viva memoria in questa città;® perché, oltre a quelle che ne scrisse messer Giovanni Boccaccio, Franco Sacchetti nelle sue treqento Novelle ne racconta molti e bellissimi; dei quali non mi parrk fatica scriverne alcuni con le proprie parole appunto di esso Franco, acció con la narrazione della Novella si veggano anco alcuni modi di favellare e locuzioni di que' tempi. Dice dunque in una,^ per met- tere la rubrica: « A Giotto gran dipintore è dato un palvese a dipignere da « un uomo di picciol affare. Egli facendosene scheme, lo « dipigne per forma che colui rimase confuso. « Ciascuno può avere già udito chi fu Giotto, e quanto « fu gran dipintore sopra ogni altro. Sentendo la fama ' *Su questo libro di disegni, vedi la nota fatta alia Vita di Cimabue. ^ * Giotto fu anche poeta: ed in vero, un pittore di cosi eccellente ed in- ventivo ingegno non è da naaravigliare se fu anche trovatore di rime. II barone di Rumhor il primo dette alla luce (Italienische Forschungen, tom. II, pag. 51) una sua canzone in lode della Povertà, da lui scop erta nella Biblioteca Lauren- ziana; nella quale i generosi concetti e alti sensi sono vestiti di una molto nobile forma poètica. II professor Rosini stampò novamente questa poesia di Giotto (Tunica che si conosca) nel tomo I della sua Storia della Pittura Ita- liana ecc. Ma perche si Tuna come l'altra opera non possono andar per le mani d'ogni condizione di lettori, abbiamo creduto far cosa grata ripubblicandola in fine di questa Vita (V. pag. 426), giovandoci della ristampa fattane dal True- chi nel vol. II della sua Raccolta di Poesie, sopra I'esemplare di un códice Ric- cardiano, che dà buone varianti. ® Da questo tornare addietro, che qui e altrove fa il Vasari, per riparlar di cose, delle quali ha già paríate, raccogliesi ch' egli andava facendo aile sue Vite or una or altre aggiunte, che non sempre, per vero dire, gli veniva fatto di collocare a suo luogo. '' Novella lxii. GIOTTO 407 « sua un grossolano artefice, ed avendo bisogno, forse per « andaré in castellaneria, di far dipignere uno suo palvese, « subito n'andò alla bottega di Griotto, avendo chi li por- «tava il palvese drieto; e giunto dove trovó Giotto, ' « disse: Dio ti salvi, maestro: io vorrei che mi dipignessi «l'arme mia in questo palvese. Giotto, considerando e « r nomo e '1 modo, non disse altro se non : Quando il «vuo'tu? e quel gliele disse. Disse Giotto: Lascia far a «me. E partissi. E Giotto, essendo rimàso, pensa fra se « medesimo : Che vuol dir questo ? sarebbemi stato man- « dato costui per ischeme? sia che vuole; mai non mi fu « recato palvese a dipignere. E costui che '1 reca, ë un « omiciatto semplice, e dice ch'io gli facci l'arme sua, « come se fosse de' reali di Francia. Per certo, io gli debbo « fare una nueva arme. E, cosi pensando fra se mede- « simo, sirecò innanzi il dette palvese, e, disegnato quelle « gli parea, disse a un suo discepolo desse fine alla di- « pintura; e cosi fece. La quale dipintura fu una cervel- « liera, una gorgiera, un paie di bracciali, un paie di « guanti di ferro, un paie di corazze, un paie di cosciali « e gamberuoli, una spada, un coltello ed una lancia. « Giunto il valente uomo, che non sapea chi si fusse, fassi «innanzi e dice: Maestro, ë dipinto quel palvese? Disse « Giotto: Si bene. Ya',recalo giù. Venuto il palvese, e « quel gentiluomo per proccuratore il comiucia a guar- «dare, e dice a Giotto: Oh che imbratto ë questo che « tu m'hai dipinto ? Disse Giotto : E' ti parra bene im- « bratto al pagare. Disse quegli : Io non ne pagherei « quattro danari. Disse Giotto : E che mi dicestù ch' io « dipignessi ? E quel rispóse : L'arme mia. Disse Giotto : «Non ë ella qui? mancacene niuna? Disse costui: Ben « isth. Disse Giotto: Anzi sta mal, che Dio ti dia, e dëi « essere una gran bestia; che chi ti dicesse, chi se'tu, « appena lo sapresti dire ; e giungi qui e di' : dipignimi « l'arme mia. Se tu fussi stato de' Bardi, sarebbe bastato. 408 GIOTTO «Che arme porti tu? di qua' se'tu? chi furono gli an- «tichi tuoi? deli, che non ti vergogni? comincia prima « a venire al mondo, che tu ragioni d'arma, come stu « fussi il Dusnam ( il Duca Namo ) di Baviera. lo t' ho « fatta tutta armadura sul tuo palvese : se ce n' è piii « alcuna, dillo, ed io la faro dipignere. Disse quelle: Tu « mi di' villanía, e m' hai guasto un palvese. E partesi, « e vassene alla Grascia, e fa richieder Giotto. Giotto « compari, e fa richieder lui, addomandando fiorini dua « délia dipintura: e quelle demandava a lui. Udite le ra- « gioni, gliufficiali, che molto meglio le dicea Giotto, giu- « dicarono che celui si togliesse il palvese sue cosi di- «pinte, e desse lire sei a Giotto, perocch'egli avea ra- « gione. Onde convenne togliesse il palvese e pagasse, e fu « prosciolto. Cosi cestui, non misurandosi, fu misurato ».^ Dicesi che stando Giotto ancor giovinetto con Cimabue, dipinse una volta in sul naso d' una figura ch' esse Cimabue avea fatta, una mosca tanto naturale, che tornando il maestro per seguitare il lavoro, si riniise più d'una volta a cacciarla con mano, pensando che fusse vera, prima che s'accorgesse dell'errore.^ Potrei moite altre burlo fatte da Giotto e molte argute risposte raccontare: ma voglio che queste, le quali seno di cose pertinenti al- l'arte, mi basti aver dette in questo luego, rimettendo il resto al dette Franco ed altri.® Finalmente, perché restó memoria di Giotto non pure neiropere che uscirono delle sue mani, ma in quelle an- cora che uscirono di mano degli scrittori di que'tempi; ' Quando il Vasari scriveva, le Novella del Sacchetti non erano ancora a stampa. Quindi ei riportô intera questa che abbiamo letta, e non quella del Boc- caccio, benchè tanto piú onorifica per Giotto. ^ In ogni vita di pittor celebre ci deve essere qualcuna di queste novellette. ® Lo stesso Franco, Nov. lxxv , racconta ció ch'è compendiato nel titolo di detta Novella cosi: «A Giotto dipintore, andando a sollazzo con certi, vien per caso ch' è fatto cadere da un porco. Dice un bel motto ; e domandato d'un altra cosa, ne dice un altro ». La novella è riportata dal Baldinucci, che pur riferisce di lui un altro motto più bello narrato da Benvenuto da Imola. GIOTTO 409 essenclo egli state quelle che ritrevò il vere mede di di- pingere, state perdute innanzi a lui melti anni; ende, per pubblice decrete, e per epera ed affeziene partice- lare del magnifice Lerenze vecchie del Medici, ammirate le virtù di tante ueme, fu posta in Santa Maria del Fiere r effigie sua scelpita di marme da Benedetto da Maiane scultere eccellente, con gli infrascritti versi fatti dal di- vine ueme messer Angele Peliziane;^ acciecchè quelli che venissere eccellenti in qualsiveglia prefessiene, petessere sperare d'avere a conseguiré da altri di queste memerie, che mérito e conseguí Giette dalla bentk sua largamente: Ule ego sum, per quern pictura extincta rcvix-it, Ctii quam recta mMnus, tarn fuit et facilis. Nqturce deerat nostrce quod defuit arti: Plus licuit nulU pingere, nee melius. Miraris turrim egregiam sacro cere sonantem? Hcec quoque de modulo crevit ad astra meo. Penique sum Jottus, quid opus fuit illa referre? Hoc nomen longi carminis instar erit. E perche pessine colore che verranne, vedere dei disegni di man propria di Giette, e da quelli cenescere maggier- mente Teccellenza di tante ueme; nel nostre già dette Libre ne sene alcuni maravigliesi, stati da me ritrevati con non minore diligenza che fatica e spesa. ' Cinque altri epigrammi, parte editi e parte inediti, furon fatti dal Poli- ziano prima di questo, del quale poi si contentó. ALBERETTO DELLÀ FAMIGLIA BONDONE dal Colle di nel Coniune di Vespignano di Mugello GIOTTO GIOTTO moglie CiuTA (Ricevuta) di Lapo del Pela Caterina Chiara Lucia Francesco bondone marito NiCCOLÒ Francesco marito marito Bice Ricco pittore dette di Donato Lapo Zuccherino Lesso o Alesso ascritto alia prete pinzochera pittore di rettore Coppino di Martinoeco marito da Compagnia di San Pilerciano da Martine Piero di Vespignano di m® San Franco Luca di nel 1341 Vespignano del Borgo San Lorenzo Bartolo Stefano Paola pittore Anastasia pittore. marito Si vuele marito padre Ser Antonio Matteo di di Antonio Giotto, di Zucchero dette Porcini Giottino, dal Cischio dal Cischio pittore di Mugello COMMENTARIO 413 alla Vita di Giotto PARTE PRIMA Del ritratto di Dante Alighieri nella cappella del palazzo del Podestà di Firenze Allorchè, ricliiesti dal Ministro delia Pubblica Istruzione di ricercare qual fosse il più autentico ritratto dell'Alighieri, dettammo nel 1865, in compagnia del compianto cav. Passerini, quel Rapporte che fu stampato nel numero 17 del giornale intitòlato II Centenario di Dante, nel quale, sotto brevita e per soinmi capi, erano esposte le ragioni e gli argomenti che ci facevano anteporre al ritratto in fresco della cappella del Palazzo del Potesta, celebratissimo perché creduto della mano di Giotto, l'altro in miniatura del códice Riccardiano 1040; vennero fuori subito da più parti scritture che all'una o all'altra delle cose discorse da noi centrad- dicevano. E siccome tra quelle scritture alcune ci parvero degne di mag- gior considerazione, deU'altre cosi stimammo debito nostre di rispondervi con un seconde Rapporte, del quale abbiamo creduto opportune di ripro- durre qui le parti principali e più importanti. Non è invero maraviglia che nelle dette scritture uomini pratici ed intendenti delle cose dell'arte, e appassionati ammiratori di Giotto, mo- strassero di male acconciarsi a confessaré per falsa una credenza, da lore insieme coll' universale stata sempre riputata per vera ; e molto meno è da meravigliare che la maggiore e più calda opposizione ci venisse da chi ben conosce quanto importasse al sue amer proprio d'autore e d'artista, ed alla riputazione meritamente acquistatasi di abile conoscitore delle maniere 414 COMMENTARIO ALLA VITA DI GIOTTO degli anticH maestri, che non fosse da lasciar passaré, senza combâtterla con tutti i mezzi che Tarte e la pratica gli prestavano, la nostra opinione. Ne si pensi che per questa loro opposizione provassimo sdegno o fa- stidio, che anzi ne avenimo piacere grandissime, perche ci diede e ci dà tiittavia il modo di rispondervi con nuovi e sempre più validi argomenti. Solamente avremmo desiderate che non avessero preso ad oppugnare piuttosto Tuna che Taltra, ma tutte insieme le nostre ragioni; conside- rando che esse sono tra loro strette e concatenate in modo che si danno e ricevono scamhievole forza od aiuto, e che cosí unite concorrono alla dimostrazione del nostre assunto, meglio che non farehhero divise. Ad ogni modo, tenendo fermi i principali argomenti già da noi por- tati in appoggio délia nostra opinione, e richiamando i nostri avversarj a meglio considerarli, perche crediamo che anche cosí soli come sono, haste- rebhero a darci vinta la prova; passeremo ad esaminare le più forti ra- gioni, colle quali essi s'argomentano di combatterci. E per comincjare dalla prima, essi credono che non sia da menarci buena la osservazione, che qualora le pitture della cappella del Potestà fossero state fatte da Giotto nel 1295, o, come altri vuele, tra il 1300 e il 1804, le avrebbe distrutte T incendio che a'28 di febbraio del 1882 arse, come dice il Villani, il tetto del veccliio palazzo (del Podestà) e le due parti del nuovo, dalla prima volta in su-, giudicando essi che il fuoco poteva ben distruggere i tetti e i palchi di legname, ma non mai la muraglia tanto solida di quel palazzo. A ció si risponde : che se il fuoco non ridusse in cenere le mura, come aveva fatto de'tetti, pote e dovette grandemente guastarle, cocendole e afifumicandole. E che il fuoco avrebbe certamente cagionato questo danno alie pareti dipinte, si prova per quelle che è accaduto nel moderno restauro del dette palazzo, dove è state giocoforza di gettare a terra la pittura in fresco d'una stanza terrena, perché per essere assai malconcia dal fumo si conobbe che non ci valeva restauro. Ed è anche da pensare nel caso presente, che il guasto incominciato dal fuoco sarebbe state compito dal martello e dalla cazzuola del muratore, quando dopo Tincendio fu ordinate (aggiunge il Villani) che il palazzo si rifacesse tutto in volta insino ai tetti-, essendo incredibile, che mettendosi in volta la cappella, se v'erano pitture, si fossero potute conservare. Mentre oggi chi guarda quelle pitture, le giudica d'un medesimo tempo. Affermano ancora che esse pitture si avrébbero a ritenere di Giotto si- enrámente, perche le dissero tali il Villani e Giannozzo Manetti, e più lo attestano la maniera, e se cost possiamo dire, la cifra piuttosto di Giotto, che non di Taddeo Gaddi, che specialmente nella proporzione délie figure, nella forma degli occhi, nella scarsa fronte, e nella nuca scarsissima anch'ella, tiene modo diverso. Ai quali argomenti, perché si fondano sulla ragioni del- COMMENTARIO ALLA VITA DI GIOTTO 415 Tarte, noi non vogliamo nè possiamo contradiré: solamente ci sia per- messo di osservare, che se quelle pitture non si hanno da dire del Gaddi, perche non potranno essere di qualche altro scolare di Giotto, state cosí valente imitatore delia maniera del maestro, da ingannare Tocchio anche del più pratico e franco conoscitore? Finalmente essi sostengono che quelle pitture sieno state fatte tra il 1300 e il 1804, cioè quando, a dette loro, fu pace in Firenze per opera del car- dinale Matteo d'Acquasparta legato del papa ; stimandosi che la figura ritta in pie, vestita di rosso, e col cappello rosso in testa, dipinta dal lato destre, e ivresse la finestra delia párete di testa della cappella, rappre- senti il dette cardinale. Ma a chi è mezzanamente infórmate della storia florentina parrà. strano che si dica aver la nostra citth goduto pace in que' tempi. Al contrario testimonia la storia che la venuta delTAcquasparta nel 1800 non riuscî a niente, nè impedí che due anni dope i Bianchi fossero banditi da Firenze, nè che per la cacciata loro non risorgessero più fiere le discordie cittadine tra i grandi e i popolari della parte Nera. Zuffe sanguinose furono tra loro nel 1804; e nel 1808 Corso Donati capo de'grandi di quella fazione, venuto in odio de'popolari per la sua supèrbia, fu assalito nelle sue case, e poi fuggitosi dalla città, morte miseramente a San Salvi. Nè questo solo basto : chè aile cagioni interne se ne aggiun- sero altre di fuori, quando per due volte gli usciti Bianchi tentarono di ritornare in Firenze. Su questa congettura adunque, alla quale cosí chia- rameute contradice la storia, non possono i nostri oppositori fare fonda- mento nessuno per assegnare aile pitture della cappella, e per conseguente al ritratto di Dante, il tempo e Toccasione che dicono. Vediamo ora se la testimonianza degli antichi scrittori, della quale essi si fanno un'arme contre di noi, giovi più alla costero opinione che alla nostra. Filippo Villani in quella sua operetta latina che intitolò De origine ci- vitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus, scrivendo di Giotto, usa in un luogo queste precise parole: Pinxif insuper speculorum suffragio semeti- psum, sïbigpie contemporaneum Dantem in tabula altahis cabelle palatii poTESTATis. Dunque nella tavela delT altare, e non nella párete della cap- pella del Potesta, Giotto aveva dipinto sè stesso e l'amico suo Dante. E che un tempo sia stata in quel luogo una tavela dipinta, è confermato ancora dalT inventario del palazzo del Podestk fatto nel 1882, nel quale tra T altre masserizie della cappella è : Una taróla dipinta che sta in sul- I' altare. Ma sul principiare del secolo xv la tavela dovette essere stata tolta dalTaltare e da quel luogo, perché celui che volgarizzè, o meglio para- frasò Toperetta del Villani, traduce quel passo cosí: Dipinse eziandio al pubblico spettacolo nella città sua colV aiuto di specchi se medeshno e il contemporáneo suo Dante AUghieri poeta, nella cappella del pálagio del Po- 416 COMMENTARIO ALLA VITA DI GIOTTO testà IN MURO. Ora se il volgarizzatore mutò le parole del testo latino in tabula altaris, in quelle che dicono in muro-, fecelo, perche a'suoi giorni, levata la tavola delF altare non rimanevano che le pitture in muro, dove di fatto era dipinto il poeta. E che cosi fosse, apparisce anche meglio dal seguente passo di Giannozzo Manetti nella Vita di Dante: Coeferum eius effigies et in Basilica Sanctae Crucis, et in cappella Pretoris Urbani, utro- bique in parietibus, extat: ea forma, qua reverá in vita fuit a Giotto, quodam optimo eius ïemporis picture, egregie depicta. Allé quali pai'ole noi crediamo che non si possa dare spiegazione diversa da questa: cioe, che in Santa Croce e nella cappella del Podestk erano due ritratti di Dante, amhidue in muro, cavati da quello che Giotto aveva fatto di na- turale al poeta ; chiaro essendo per noi che il Manetti "abbia voluto inten- dere di quello dipinto dal Gaddi in Santa Croce e dell' altro che tuttavia si vede sulla párete delia cappella predetta. Dal che s'inferisce, che se a'tempi del Manetti fosse stata tuttavia in essere la tavola dell'altare, dove, seconde il Villani, Giotto aveva dipinto se stesso e I'amico, egli avrebbe dovuto ricordare l'originale, piuttostochè le copie di quel ritratto. Di più, se volessimo intendere diversamente le sue iiarole, ne verrebbe ancora questa falsissima conseguenza; ciob che il Manetti avrebbe attri- buito a Giotto non solo il ritratto in fresco delia cappella, ma ancora r altro che una volta si vedeva in Santa Croce, dipinto dal Gaddi, corne sappiamo dal Ghiberti e dal Vasari. Ma in processo di tempo anche il ritratto in fresco delia cappella fu dimenticato : ne tacciono Lionardo Aretino e Gio. Mario Filelfo nelle loro Vite dell'Alighieri, mentre ricordano e celebrano T altro di Santa Croce. Dice infatti l'Aretino : L'effigie sua propria si vede nella cliiesa di Santa Croce, quasi nel mezzo delia cMesa dalla mano sinistra, andando verso V altar maggiore. È ritratto al natùrale ottimamente per dipintore perfetto di quel tempo. Più chiaro e più pieno è a questo proposito il Filelfo, scri- vendo cosi: Huius simulacrum (quandoquidem esse arbitrer numen) Flo- rentiae apud Sacrum est Sanctae Crucis, ad eorum sinistram qui ecclesiam ingressi, ad maius profciscuntur altare. Estque communis cunctorum opinio, veram effigiern esse ac facmn pene propriam atque naturalem, wt eorum parentes nepotibus retulerunt, qui vivum videre Dantem. Quanto poi al Ghiberti, ecco le sue parole: Bipinse (Giotto) nel pa- lagio del Podestà di Firenze: dentro fece il Comune com'era rubato, e la cappella di Santa Maria Maddalena-. ed è maraviglia che ragionando di Giotto e delle pitture sne nel palazzo del Podestà non dica niente del ritratto di Dante; mentre poi ricorda quello dipinto da Taddeo Gaddi in Santa Croce. Ma i nostri oppositori potrebbero credere che dicendosi dal Ghiberti aver Giotto dipinto la cappella di Santa Maria Maddalena, abbia COMMENTARIO ALLA VITA DI DIOTTO 417 implícitamente inteso anche di parlare del ritratto del poeta che è in fresco in una di quelle pitture. Ma noi invece non interpetriamo quelle sue parole e la cappella di Santa Maria Maddalena, per le pitture delle pareti di essa, sibhene per la tavola delT altare, dove è ragionevole che la figura délia Santa avesse il luogo principale, se al suo nome era intitolata la cappella. Forse parrk nuova ed anche strana questa nostra interpetrazione : ma a'molti esempi che si potrebhero addurre per prova, cioè che ai tempi del Ghiberti, ed anche innanzi, la tavola del principale altare d'una chiesa, o d'un ora- torio, con tutti i suoi fornimenti di civori, compassi, tabernacoletti ed altro, era chiamata cappella, bastino questi tre che noi caviamo dalle iscrizioni poste sotto ad alcune tavole antiche della Gallería dell'Accademia delle Belle Arti in Firenze. Nella sala detta della Esposizione sotto il n° 40 è una tavola d'ignoto pittore sel secolo xiv, già nella chiesa degli Angelí, nella quale si legge in basso : istam cappellam fecit fieri iohannes ghiberti pro anima sva. a. d. MoccLxv. — Altra sotto il n° 18, parimente d'ignoto pittore del se- colo xiv, ha questa iscrizione: monna margherita . figlivola . che . fv . di neri . detto ( lia. fatta . fare . questa. tav ) ola . e chappella . perimedio . DELLANiMA . SVA . E . DE — . svoi. La terza tavola segnata col n° 5, anch' essa d'ignoto pittore del medesimo secolo, e che fu nella detta chiesa degli Angelí, porta questa leggenda: a . mccclxiiii . bindvs . condam . lapi . benini. fecit . fieri . hanc . cappellam . pro . remedio . anime . sve . Ora se il Ghiberti, con quella espressione, e la cappella di Santa Maria Maddalena, intese propriamente della tavola dipinta senza dubbio da Giotto per Faltare della cappella, e non delle pitture in muro di essa, non resta ai nostri oppositori neppur quest' una delle testimonianze antiche che avvalori la loro opinione ; mentre tutte o nelF un modo o nelF altro concorrono a rafforzare la nostra. Oltracciò vogliamo notare, che mentre nella tavòla deir altare della cappella era, seconde il Villani, insieme col ritratto del- l'Alighieri, anche quelle di Giotto, che egli si era fatto alio specchio; questo suo ritratto non si vede nella pittura in fresco ; e quello di lui che è neir opera del Vasari si pub credere che egli lo cavasse dalla pittura del Gaddi in Santa Croce, o meglio dalla tavoletta di Paolo Uccello, dove dipinse i ritratti di cinque famosi uomini fiorentini, oggi conservata nella Gallería del Louvre. Cosi ci pare d'aver mostrato che Giotto dipinse se stesso 6 I'amico suo Dante nella tavola e non sulla párete della cappella del Podesta. Che se noi avessimo, come jmr troppo non abbiamo, il modo di formare una esatta, sicura e continuata cronologia delle opere di Giotto, ci sarebbe molto piii agevole di assegnare il tempo di quella tavola. Ma questa ero- nologia, nella scarsita grande di scritture e di memorie sarh sempre diffi- V asari , Opere. — V .i!. l. 27 418 COMMENTARIO ALLA VITA DI GIOTTO cilissima, per non dire impossibile. La tentó il Rosini, ma, al nostre parere, infelicemente, perche invece di mettervi ordine e luce, non riusci che ad accrescerle confusione ed oscurita. Nondimeno rispetto alia detta tavola ci pare di poter congetturare che essa sia stata fatta nel 1326, nel quale anno la Repuhblica spese grosse somme di dañare i)er assettare ed ornare il Palazzo del Podestà, destínate per abitazione di Carlo duca di Cala- bria, nuevo signore della citta. E questa nostra congettura trova appog- gio nella ragione,. la quale, sebbene non sia avvertita o curata dai nostri oppositori, e nondimeno di gran valore nella presente questione ; cioe che Giotto solamente dopo la morte dell'Alighieri avrebbe potuto dipingere in quel luogo pubblico le sembianze di Dante, dopochè agli odj crudeli che lo avevano condannato a menare per venti aimi, tra i dolori del- Tesilio e le angustie della poverta, vita raminga e disagiata, e in ultime a moriré lontano dalla ingrata patria ; era succeduta altíssima ammirazione pel grande cittadino e poeta, la cui Commedia fu solo allora divulgata, letta studiata da tutti. Ne faccia difficoltà l'aver dette che l'incendio e del 1832 arse il palazzo, e ne distrusse i tetti e le masserizie; perche ben e pote del fue essere, che la tavola di Giotto fosse sottratta al furore ce, salvata. Certo se cosí non fosse state, noi non la troveremmo tuttavia ri- cordata nelT inventario del 1382, e dal Villani. Ma è tempo ormai che veniamo a descrivere le pitture in fresco della cappella, ed a notare tuttociò che meglio può conferiré alla prova e di- mostrazione del nostre assunto. Nella párete di testa divisa in mezzo da una grande finestra, è rap- preséntate il Paradise con tre ordini di figure. Tuno sopra l'altre: nel più alto sono i Cherubini, nel mezzano i Santi e le Sante, in quel da basso molti personaggi, varj d'età, di foggie e di condizione. Presse alla finestra dal lato destre di chi guarda, è in maestà una figura incoronata, e dal sinistre un'altra figura, parimente in maestk, vestita di rosso, e col cappello rosso in testa. Nella figura reale tutto fa credere che sia effi- giato Roberto d'Anjou re di Napoli, e in quella di cardinale, messer Ber- trando del Poggetto, fin dal 1333 legato in Italia di papa Giovanni XXII, e poi di Benedetto XII. Poco distante dal re Roberto è l'Alighieri, il quale dalla tinta della carnagione più calda ed unita che non sia quella delle altre figure, si conosce subito essere stato restaúrate. Sotto il cardinale è il Potestà inginocchiato ; sotto il re, un altro personaggio del pari ingi- nocchiato, che non si vede bene chi sia, per esser caduta la testa insieme coU'intonaco, ma dalla foggia, e più dal colore violette della veste, si può riconoscere d'uomo di Chiesa, e forse del Vescovo di Firenze. Nella párete latérale alla destra di chi guarda, sono dipinte su due or- dini alcune storie della vita di santa Maria Maddalena, le quali dopo esser COMMENTARIO ALLA VITA DI GIOTTO 419 rimaste interrotte dalla rappresentazione deirinferno, che è a capo delia porta che mette nella cappella, ripigliano pol e hanno fine nell'altra párete alla sinistra. Nella quale sono due finestre grandi divise l'una dall'altra da un pilastro di non molta larghezza, su cui è dipinta la figura di un Santo martire, che la sottoposta iscrizione latina, messa in una cartella di finta pietra, scopre essere di san Venanzio. Questa iscrizione, che è assai guasta, si conosce da alcune poche parole, che si sono potute intendere, che ò una invocazione o preghiera rivolta al Santo. Nell'ultimo verso a fatica si legge : dni . m . ccc . xxx — che doveva dire m . coc . xxxvii. Alquanto più sotto alia detta iscrizione, e precisamente dentro la fascia che ricinge lo zoccolo, è un'altra iscrizione, che si stende per quanto è largo il pilastro, ma in lettere più grandi ed eleganti, la quale, sciolta dalle sue abbreviature, dice cosí : hoc . opvs . pactvm . pvit . tempore . pote- starie . magnipici . et . potentis . militis . domini . fidesmini . de . varano . ci- vis . camerinensis . honorabilis . potestatis (11 resto mauca). Ora sapendosi da' Registri de'Potesth di Firenze che messer Fidesmino di messer Rodolfo da Varano tenne quell'ufficio negli ultimi sei mesi del 1337^ risultano per noi chiare queste due cose: Tuna, che le pitture delia cap^ pella, alie quali si deve riferire la iscrizione citata, furono fatte sotto la potesteria del Varano, nello spazio che è dal luglio al dicembre del 1337; r altra, che esse non si possono con ragione attribuire a Giotto, il quale fin dai primi giorni di quelTanno, ossia all'otto di gennaio, era morto. Vero è che noi, ingannati dall'arme che si vede dipinta a'piedi del potestà ingi- nocchiato, la quale b cortamente de'Fieschi, credemmo che quelle pitture fossero state fatte sotto la potesteria di messer Tedice de' Fieschi, che tenne queir ufficio nel 1358-59. Ma ora rifiutiamo come erróneo' il nostro asserto, fatti accorti dell' inganno dal signor Cavalcaselle, il quale con buone ra- gioni ci ha mostrato che quell'arme deve essere stata dipinta dopo, veden- dosi ancora dalle screpolature del colore apparire la sottoposta pittura del- l'estremità inferiori del Potestà. Ma a qual fine e per quale occasione quell'arme sia stata soprapposta allé pitture, noi non possiamo intendere. Venuti a questo punto, il quale, se sia bene chiarito, può sciogliere il nodo delia presente qüestiono, e cosí darci vinta la prova, noi prove- demmo che i nostri oppositori non avrebbero mancato di combattere la interpretazione data da noi alla iscrizione, e alia conseguenza tutta fa- vorevole che ne caveremmo pel nostro assunto. In fatti avendo essi avuto dopo di noi intera la detta iscrizione, della quale a fatica erano state letto fino allora le prime parole, e riscontratala sul luogo, conobbero subito di quanto aiuto essa ci sarebbe stata, e quanto importasse, preoccupando il giudizio altrui, di prevenire o scemare l'effetto che avrebbo prodotto. Sfoderarono porció una seconda scrittura, dove ri can tato in parto lo coso 420 COMMENTARIO ALLA VITA Dl GIOTTO già dette si sforzavano di dimostrare con argomenti invero assai deboli, con eseinpi cire non sempre provavano quel die essi avrebbero voluto, e 0 provavano il contrario, che quella iscrizione si avesse a riferire alla sola figura di délia san Venanzio, e non mai aile altre pitture cappella. Moite in quella vece, e tutte di gran peso, sono le ragioni che ci fanno tenere la citata iscrizione essere stata fatta per le pitture délia cap- doversi riferire ad esse. Primieramente è da notare che i iiostri pella, e antichi solevano porre o sopra un capitello, o in un pilastre, secondochè iscri- tornava meglio, délia párete sinistra di una cappella, la memoria o zione che doveva ricordare da chi essa fosse stata fondata o fatta dipin- ancora da chi dipinta, in che anno e gere, e spesso per quale occasione; sceglievano questo luogo, perche d'ordinario non ci andava pitture o e altro ornamento, jjer cagione del poco spazio che aveva il pilastre, e anche dette perche da esse pilastre cominciava e in esse finiva l'ordine delle pitture. Nel case nostre fa questo effetto il pilastre che è tra le due fine- stre délia párete sinistra, sui quale a preghiera di messer Fidesmino po- testh fu dipinta la figura di san Venanzio protettore delia sua citta di Camerino. E per mostrare che la figm-a fu fatta fare da lui e per sua devozione, bastavano que'versi che vi erano scritti sotte. In seconde luogo, quando la detta iscrizione avesse dovuto riferirsi ad immagine figura fatta fare da qualche devote, non avrebbe una sola o dette hoc opds, ma sibbene hang imaginem, oppure piguram, fecit fieri, ecc. E di questo ce ne sono esempi assai. In terzo luogo dicendosi in quella iscrizione opvs, parola di largo si- ad indicare gnificato e solenne, mentre riesce proprissima e conveniente come le dellá cappella, e un lavoro compiuto in ogni sua parte, pitture dove non una, ma più sono le figure e le storie, sarebbe invece stata im- propria per una sola figura, quasi nascosta nella parte men nobile di essa cappella, e fuori del soggetto delle altre. Ma inostri oppositori, non volendosi ancora dare per vinti, rispendono: che anche ammettendo, come vogliamo noi, che la iscrizione si riferisca allé pitture della cappella, non è dalF altro lato improbabile il credere, che esse sieno state cominciate da Giotto, e poi, sopraggiunto lui dalla morte, condotte a fine da altro pittore sotto la potesteria del Da Varano. dicendo la iscrizione Ma neppur questa loro supposizione regge; perche HOC OPUS FACTUM FUIT TEMPORE occ., ossa vuol significare, che le pitture ebbero il principio e compimento loro nel tempo di quel potesta. Che se fosse accaduto come essi .si vanno pensando, è certo che allora F iscrizione avrebbe mancato di notar questo, col dire a un bel circa: hoc opus non OVVerO absolutum fuit tem- inceptum tempore potestarie eCC. complbtum pore potestarie ccc. COMMENTARIO ALLA VITA DI GIOTTO 421 Ne si dica che sei mesi sono spazio di tempo troppo breve per dipin- gere tutta quella cappella, perche è noto a tutti, che gli antichi condn- cevano a fine con grande celerith le maggiori pitture in fresco, essendochè in quei tempi fossero più semplici, e perciò più spediti, i modi del di- pingere, e gli artisti curassero più la invenzione e la espressione che la finita esecuzione delle loro opere. Questa medesima speditezza si trova anche ne'pittori del secolo xvi. Michelangiolo, per cagion d'esempio, scopri finita la maravigliosa volta della cappella Sistina dopo diciotto mesi d'as- siduo e mortale lavoro: eppure egli era senza aiuti! Quanti anni v'im- piegherebbe oggi un pittore? Di più h da credere, e chi bene esamini le pitture delle pareti laterali se ne capacitera, che in questo lavoro il pit- tore non sia stato solo. Certo è che gl' intendenti vi riconoscono più mani, sebbene contemporáneo. Queste sono le ragioni desunte dalla storia, dalla critica, e dalle prove di fatto, che ci hanno servito di guida alla dimostrazione del nostro as- sunto, il quale è stato di far conoscere quanto sia sfomita di buon fonda- mento la volgare credenza che attribuisce a Giotto le pitture della cappella del Palazzo del Potesta, e per conseguente anche il ritratto dell'Alighieri. Pervenuti cosi al fine del nostro ragionamento, noi speriamo che nés- suno, se leale e ragionevole è, vorra farci l'ingiuria di credere, che solo per smania di contradiré alla opinione universale, la quale tiene di Giotto le pitture della cappella del Potesta, siamo primamente entrati nella pre- sente controversia; e che poi, viste le opposizioni altrui, per puntiglio d'amor proprio vi abbiamo continúate; ma in quella vece verra persua- dersi, non da altra cagione essere noi stati mossi a combatiere quella opinione, se non perche la riputiamo contraria aile ragioni della storia e della critica; parendoci che gli argomenti usati da noi per oppugnarla sieno anche oggi di tanta forza, che i contrarj non valgano ad indebo- lirli. Noi desideriamo insomma che si creda, che solo Tamore e la ricerca della verita e non altra cagione ci abbiano posto la penna in mano. Ma saremo noi giunti a mettere nell'animo altrui quella stessa intima per- suasione che sentiamo nel nostro ? Se guardassimo aile ragioni messe fuori contre di noi, certo noi diremmo senza presunzione, che si: quantunque ci sia noto per propria esperienza che gli errori quanto sono più vecchi, tanto più trovano chi li difende; e che nel caso nostro, non estante tutto quello che possiamo aver dette per dimostrare che le pitture della cap- pella del Potesta non sono di Giotto, e per conseguenza neppure il ritratto· dell'Alighieri; si continuer^, tuttavia, e chi sa per quanto tempo, a tenere per vera la contraria opinione, perche più vecchia, più universale, e più difesa. Pure rimettendoci in tutto questo al giudizio spassionato degli uo- mini che sanno, concluderemo dicendo: che quando ancora si volesse giudi- 422 COMMENTARIO ALLA VITA DI GIOTTO care che colle nostre ragioni non siamo riusciti a dimostrare plenamente il nostro assunto, si dovrk almeno riconoscere, che dalla jpresente discus- sione sia stato meglio chiarito un fatto importante alla storia delle arti 6 delle lettere nostre, interno al quale, anche dopo quel che era stato scritto in Italia e fuori, rimaneva pur sempre molta oscurità ed incertezza. PARTE SECONDA ^ Delle pitture dell' Incoronata di Napoli « Primo di tutti, dopo il Celano, suscito la quistione sull'autore degli affreschi delT Incoronata il sig. Luigi Catalane, nel suo Discorso su'monu- menti jyatrii (1842). Ivi, a pag. 72, si fa notare che la chiesa fu costruita nel 1351, e che Giotto mori nel 1886. II Celano scioglieva la questione facendo moriré Giotto dopo il 1887. « Ma la data delia morte di Giotto e comprovata da un documento riportato dal Baldinucci e tratto daU'Archivio di Firenze; dal quale ri- levasi che Lucia, nel 1887, esegue i legati di sua sorella Bice per l'anima del loro defunto padre, Giotto. delT edificazione dell' Incoronata ^ La data è comprovata dalle testi- « monianze del Giornale che si conservava dal duca di Monteleone, di Tri- stano Caracciolo, di Giovanni Villano {crónica napoletana), di Matteo Villani. I primi due dicono che la chiesa fu edificata in memoria dell' in- coronazione che Clemente (seconde Tuno), il suo legato (seconde Taltro), fece di Giovanna e Ludovico di Taranto: incoronazione che ebbe luogo il di di Pentecoste del 1852, come si ha da Matteo Villani (lib. m, cap. 8); mentre il matrimonio era seguito nel 1887, come si ha da Giovanni Vil- lani e dalla Crónica Suessana. « Ora, in mezzo a queste due date, come dar luogo ai passi del Pe- trarca e del Vasari? I quali passi, perche i nostri lettori veggano chia- rameute in che consista la questione, ci piace riportare qui testualmente. « Le parole del Petrarca sono le seguenti : Próxima in valle sedet ii^sa NeapoliSf inter urbes littoreas una quidem ex paucis : portus Me etiam ma- nufactus, supraportum regia; ubi si in terra exeas, cappellam regis intrare ' *Vedi la nota 14, pag. 390, alia Vita di Giotto. ^ *Vedi Lucifero, n° xxxv (ottobre 1844). COMMENTARIO ALLA VITA DI GIOTTO 423 "non óbmiseris, in qua eonterràneus oUm meus pîctor, nostrî œvi princeps, magna reliquit manus et ingenii monumenta [Itinerarium Syriacum). « Il Yasari, dopo aver detto clie re Roberto scrisse a suo figlio Carlo ■che stava in Firenze, che gli mandasse Giotto; dopo'aver detto che Giotto venne in Napoli, e dipinse in Santa Ghiara, monastero e chiesa reale; soggiunge: « Fece Giotto nel castello delTUovo molte opere, e particolar- « mente la cappella, che molto piacqne a quel re.... Essendo dunque al re « molto grato, gli fece in una sala che il re Alfonso I rovinò per fare il « castello, e cosí nell'Incoronata, buon numero di pitture; e fra Taltre, « nella detta sala vi erano i ritratti di molti uomini famosi, e fra essi « quelle di esso Giotto >. « Seconde il Petrarca, adunque, Giotto dipinse la cappella del re ch' era nella reggia, la quale reggia stava sopra il porto manufatto, e vi si en- trava appena sbarcato. Quindi, per mettere d'accorde la testimonianza del Petrarca colle date soprammentovate, basterh dimostrare che quella cap)- pella del re non era Tlncoronata. « Seconde il Yasari, Giotto dipinse in Santa Chiara, nel castello del- r Uovo ( specialmente una cappella che molto piacque al re ), in una sala che Alfonso I revino, e dove fece i ritratti di molti uomini famosi, e nel- rincoronata. Di questa testimonianza tardissima tutto regge, quando il Castello delV Uovo si cangi in Castello Nuovo, e Tlncoronata si tolga. « Noi dunque ci sforzeremo di dimostrare, che la cappellam regis del Petrarca non sia Tlncoronata; che nel racconto del Yasaii si debba can- giare il Castel delV Uovo in Castello Nuovo; e che s'ingannb lo stesso Ya- «ari ponendo fra gli edifizj, ove dipinse Giotto, anche Tlncoronata. « 1. Ed in primo luego, seconde il Petrarca, venendo in Napoli, sopra il porto manufactus trovavasi la reggia, ove (ciob nella reggia), sbarcando, non dovevasi trascurare di visitar la cappella del re. La . cappella del re dipinta da Giotto era dunque nella reggia, e la reggia in quel tempo sanno tutti ch' era nel Castello Nuovo, situate appunto sul porto. Del quale porto agevolmente potrebbero coloro che di antica napolitana topografia si occupano, determinare il sito; perocche, essendo venuto il Petrarca in Napoli nel 1341 e nel 1848, ed essendo appunto nelTanno 1848 accaduta quella celebre tempesta, di cui dannoci notizia ed il Petrarca ed un diario contemporáneo, tempesta che ruppe ed accieco il porto detto di mezzo-, di questo porto doveva intendere il Petrarca, che fu nel 1802 da Cario II fatto costruire a Marino Nassaro, Matteo Lanzalonga e Griffo Gofi'redo. « II sig. Minieri Riccio ha dimostrato a lungo, che mal potevasi con- venire alla chiesa delT Incoronata il nome di cappella regis. In fatti, egli dice, fin dal 1269, quando non esisteva il Palazzo delia Giustizia ne Tin- coronata, trovasi menzione del magister regies cctppellce. Che se vuolsi una. 424 COMMENTARIO ALLA VITA DI GIOTTO storica testimonianza del nome di cappella dato a quella che re Roberto fece edificare in Castel Niiovo, oltre qnella di Tommaso di Catania e delle carte vednte dal Cliihccarello, v' ha l'altra delia Crónica di NapoU di Notar Giacomo, impressa in questo anno dall'ab. Garzilli; ove leggesi, a pag. 52, che re Roberto fece edificare la cappella quale è in lo castello novo. « Adunque, qnando pur fosse vero che nel Palazzo di Giustizia esistesse una cappella fatta costrúire da re Roberto ( cappella suppositizia, la quale piacque poi supporre al sig. Stanislao Aloe che fosse pin tardi compresa neir edifizio dell' Incoronata ), rimarrebbe pur vero che di quella cappella non intendesse parlare il Petrarca. Ma ne di quella capj)ella nel Palazzo di Giustizia, ne délia costruzione dell'Incoronata nel sito preciso del Pa- lazzo di Giustizia, fauno menzione gli storici più antichi: cioe il Giornale del duca di Monteleone, e Tristano Caracciolo. Che se gli storici poste- riori aggiunsero che il Palazzo di Giustizia fosse convertito in tempio sotto il titolo di Santa Maria Incoronata, nessuno di essi accennò che in quello esistesse una capi3ella, e che nella cappella seguisse 1'incoronazione. Anzi è da notare che Matteo Villani disse chiaramente che la coronazione fu fatta aile case del prense di Taranto sopra le Coreggie. « II. Dimostrato cosi, che la cappella, di cui fa menzione il Petrarca, fosse in Castel Nnovo, agevol cosa riesce il provare che la menzione del Castello deirUovo presso il Vasari è uno de'mille errori, di cui son piene le sue Vite. Ed in vero, se nel Castel Nuovo era la cappella del re di- pinta da Giotto, secondo la testimonianza síncrona del Petrarca; come mai il Vasari poteva tacer di questa, ed un'altra nomíname, di cui niuno scrittore fa menzione ; neanche il Chiarito, che del Castello dell' Uovo scrisse minutamente? Arrogi, che la sala rovinata da re Alfonso I nel rifare il castello, di cui fa pur menzione il Vasari, esser doveva appunto nel Ca- stello Nuovo, ]poichè questo castello e non quello dell' üovo fu da Alfonso I rifatto. « III. Da ultimo, chiaramente si comprende dalle cose fin qui discorse, come Giotto non potesse dipingere gli aífreschi dell'Incoronata. Nelle poche parole del Vasari il signor Minieri Riccio nota parecchi errori importanti ; ma nota specialmente che il Palazzo di Giustizia edificato da Cario II do- veva essere interamente terminato prima del 1309, anuo in cui a Cario II succedette Roberto: or Giotto dove venire in Napoli nel 1327; come dunque avrebbe dipinto nel Palazzo della Giustizia? Ne poteva dipingere nella chiesa che vuolsi sostituita a quel palazzo ; poiche qnando questa fu co- minciata, Giotto era cadavere da sedici anni. Finalmente, I'affresco rap- presentante il matrimonio di Giovanna con Ludovico di Taranto scioglie ogni quistione; poiche, sendo questo matrimonio avvenuto nel 1347, non poteva farne soggetto di un suo dipinto Giotto, morto fin dal 1336. COmENTAEIO ALLA VITA DI GIOTTO 425 « Mostrato erroneo il racconto del Vasari intorno al Castelló delTUovo e air Incoronata, cadon di per se le altre autorità del Baldinucci e del Ghiberti, che qui riporteremo solo per appagare-la curiosità, de'nostri leggitori : « Dipinse in Castel deU'Uovo la cappella; e in una sala, che poi fu « rovinata per fare il castello, siccome ancora nelT Incoronata, fece molte « opere e ritratti di famosi uomini, e con essi il suo proprio ». ( Bal- dinücci). y « Molto egregiamente dipinse la sala del re liberto de huomini fa- « inosi. In Napoli dipinse nel Castello dell'Uovo ». (Ghiberti , MS. nella Magliahechiana ). ' « Nè dopo queste storiche discussioni dehbono far peso o la tradizione popolare, o le opinioni degl'intendenti, sian pure quelle di un Kestner. Notevoli sono a questo proposito le parole del Casarano : « Molte pitture « si attribuiscono a' capiscuola, mentre appartengono a qualche discepolo « che in un quadro si è sorpassato, quando che in generate nelle altre « opere sue si mostró di gran lunga interiore ; e viceversa, un grande ar- « tista è stato qualche volta non degno délia sua reputazione ». « Per queste considerazioni ci pare aver dimostrato chiaramente T opi- nione del Casarano e del Minieri Eiccio contraria a quella dell'Aloe e del Ventimiglia; ciob, che Giotto non dipingesse nelT Incoronata, come asseriscono molti scrittori posteriori d'assai in ordine di tempo; e che niuna testimonianza storica possa comprovaré le supposizioni messe innanzi dal- l'Aloe: cioè, che una cappella fosse costruita da re Eoberto nel Palazzo delia Giustizia; che quivi Giotto dipingesse degli affreschi; e che tal cap- pella dipinta da Giotto rimanesse compresa nella chiesa delT Incoronata, quando questa fu fatta edificare da Giovanna. Anzi, bisognerebbe pur supporre, o che re Cario costruisse la cappella col palazzo prima del 1309, e si fosse aspettato joer dipingerla fino al 1827 ; o che re Eoberto al pa- lazzo già terminato facesse aggiungere quella cappella: e che, nell'uno o nell'altro caso, non se ne fosse accorto nessuno di quei tanti scrittori di croniche e di diarii che a quei tempi registravano le minime partico- laritk di ció che visibilmente facevano i sovrani ». ' *Si vede chiaro che l'errore in prima fu del Ghiberti, e che il Vasari e poi il Baldinucci non fecero altro che ricopiarlo. 426 CGMMENTARIO ALLA VITA DI GIOTTO Canzone di Giotto sopra la povertà Molti son quel die lodan povertade, E tai' dicon che fa state perfetto; S'egli è approvate e eletto; Quelle osservando, o nulla cosa avendo. A ció inducon certa autoritade, Che r osservar sarebbe troppo stretto : E pigiiando quel dette, Dure estremo mi par, s'io ben comprendo; E però noi commendo: Che rade volte è stremo sanza vizio. Et a ben far difizio, Si vuol si provveder dal fondamento, Che per crollar di vento, 0 d'altra cosa, cesi ben si regga, Che non convegna poi si ricorregga. Di quella povertà ch' ò centro a voglia, Nen è da dubitar che e tutta ria; Che di peccare e via, Facendo spesso a' giudici far fallo ; E d'onor donna e damigella spoglia; E fa far furto, forza e villanía, E spesso usar bugia; E ciascun priva d'onorato stallo. E in piccolo intervalle Mancando roba, par che manchi senne; Se avesse rotto Brenno ' II cod. dice tadicon, che 11 Rumohr e 11 Rositil sclolgono In ti dicon. " II cod. ha renno, parola che, non dando senso, è da credere piuttosto uno sconcio del coplatore. Nol abbiamo fatto la correzlone, conghletturando che In qualche modo s'allude al vlncltore di Brenno, al savio Cammillo, cui la crudele povertà patita nell'ingiusto esiglio decretatogli dalla patria non l'inimicó contro di lei cosí, che nel maggior pericolo egli non prestasse 11 bracclo ed 11 senno a salvarla. COMMENTARIO ALLA VITA DI GIOTTO 427 O qiialvuolsia che poverta lo giunga; Tosto ciascun fa punga Di non voler che 'nanzi gli si faccia; Che pur pensando gik si turba in faccia. Di quella poverta che eletta pare, Si può veder per chiara sperïenza, Che sanza usar fallenza, S'osserva o no, non si come si conta; E l'osservanzia non è da lodare. Perche discrezïon nè cognoscienza 0 alcuna valenza Di costumi 0 virtute le s'affronta. Certo, mi par grand'onta Chiamar virtute quel che spegne '1 bene; E molto mal s'avvene. Cosa bestial preporne a le virtute, Le qua' donan salute Ad ogni savio intendimento accetta; E chi pih vale, in ciò piii si diletta. Tu potresti qui fare un argomento: II Signer Nostro molto la commenda. Guarda che hen l'intenda; Che sue parole son molto profonde, E talor hanno doppio intendimento: E' vuol che '1 salutifero si prenda. Però '1 tuo viso sbenda, E guarda '1 ver che dentro vi s'asconde. Tu vedrai che risponde Le sue pai-ole alia sua santa vita; Che podesth compita Ebbe di sodisfare a tenq-ío e loco. E però '1 suo aver poco Fu per noi scampar dall'avarizia E non per darci via d' usar malizia. ' Noi veggiam pur col sense molto spesso, Chi pin tal vita leda, manca in pace, E sempre studia e face Come da essa si possa partiré. ' Questo verso che manca nel códice Laurenziano, si legge nel Riccardiano. 428 COMMENTARIO ALLA VITA DI GIOTTO Se onore e grande stato gli è commesso, Forte Tafferra' qual Inpo rapace; E ben si contrafface, Purch'egli possa suo voler compire; E sassi SI coprire Che T piggior luijo par miglior agnello, Sotto il falso mantello. Se tosto non va in fondo Questa ipocrisia, che non lascia parte Aver nel mondo sanza usar su' arte. Canzon, va; e se truovi de'giurgiuffi, Mostrati loro si, che li conveiTi. Se pure stesson erti, Sie si gagliarda, che sotto li attnffi. ^ Cosí il Riccardiano. II Laurenziano, afferma', che starebbe a significare e l'aíferrare e il tener fermo il già preso. ^ Questa parola pare al Rosini, che dal contesto voglia dire ipocriti. Pare a noi piuttosto che voglia dire orgogliosi, e forse della povertá stessa. AGOSTINO E AGNOLO 429 riTTORI E ARCHITETTI SANESI (Nato ; morto nel 1350. — Nato ; morto nel 1343 ) Fra gli altri che nella scuola di Giovanni e Niccola scnltori pisani si esercitarono, Agostino ed Agnolo seul- tori sanesi, de'qnali al presente scriviamo la vita, riu- scirono seconde que'tempi eccellentissimi. Questi, seconde che io trovo, nacquero di padre e madre sanesi,* e gli antenati loro fiirono architetti; con ció sia che l'anno 1190, * *Che tra Agostino ed Agnolo non fosse altra fratellanza che quella del- Farte, lo sospettó in prima il Delia Valle: ora Fesame da noi istituito sopra antiche carte e scritture, muta il sospetto in certezza. Imperciocchè, se non è raro di trovare il nome di questi due arteflci, li veggiamo però sempre ricor- dati come figliuoli di padre différente. Ma la maggior diíñcoltá sta nello stabi- lire quale de'due o tre Agostini, ed Agnoli, che vissero contemporanei, sia quelle, di cui il Vasari ha descritto la vita e le opere. Se non che, leggendo che la Repubblica Senese si servi a quei tempi per opere di maggiore importanza di un Agostino di Giovanni e di un Angelo di Ventura, propendiamo a credere che di questi due debba intendersi aver paríate il Biógrafo aretino. E qui, sul bel principio di queste note, specialmente sugli artefici senesi, non possiamo far a meno di dichiarare che le asserzioni del Vasari saranno coll'aiuto di antiche testimonialize spesso da noi contraddette, e qualche volta chiamate false o errate: onde, se fosse alcuno, il quale ci tassasse di aver con troppa industria e con poca carita di patria spogliato i due artefici senesi di quella parte di gloria che dalle opere d'architettura massimamente a loro ve- niva, sappia che il ricercare e il dire francamente la verità, o quella che tale stimiamo, sarà sempre per noi un dovere da mettere innanzi ad ogni altra con- siderazione e rispetto. 430 agostino e agnolo, senesi sotto il reggimento de'tre consoli, fusse da loro condotta a perfezione Fontebranda; ^ e poi, l'anno seguente, sotto il medesimo consolato, la Dogana di quella città ed altre fabbriche. E nel vero, si vede che i semi delia virtù moite volte, nelle case dove sono stati per alcun tempo, germogliano e fanno rampolli che poi producono mag- giori e migliori frutti che le prime piante fatto non ave- vano. Agostino, dunque, ed Agnolo, aggiugnendo moltb miglioramento alla maniera di Griovanni e Mccola pi- sani, arricchirono Tarte di miglior disegno ed invenzione, come T opere loro chiaramente ne dimostrano. Dicesi che tornando Giovanni sopraddetto da Napoli a Pisa Tanno 1284, si fermò in Siena a fare il disegno e fon- dare la facciata del Duomo, dinanzi^ dove sono le tre porte principali, perche si adornasse tutta di marmi rie- camente; e che allora, non avendo più che quindici anni, ando a star seco Agostino per attendere alla scultura, délia quale aveva imparato i primi principj, essendo a quelTarte non meno inclinato che alie cose d'architet- tura. E cosí , sotto la disciplina di Giovanni, mediante un continuo studio, trapassò in disegno, grazia e ma- niera tutti i condiscepoli suoi; intanto che si diceva per ognuno, che egli era Tocchio diritto del suo maestro. E perché nelle persone che si amano, si desidera sopra tutti gli altri beni, o di natura o d'animo o di fortuna, la virtù, che sola rende gli uomini grandi e nobili, e più ' *La Fonte Branda, che è ricordata fin dal 1081, fu perfezionata nel 1193 sotto il governo de'sei Consoli, da un maestro Bellamino. E nell'anno seguente fu cominciata la Dogana, la quale piú tardi formó parte del Palazzo Pubblico. Dopo quel che abbiamo detto nella nota precedente, si fa sempre più dubbioso che da questo Bellamino discendessero i nostri artefici. ^ *Convengono col Vasari i cronisti senesi rispetto all'anno, in cui fu co. minciata ad innalzare la facciata del Duomo ; che nel 1290 non era ancora finita. Ma s'ingannerebbe di grosso chi dicesse disegnata da Giovanni Pisano la facciata presente ; t la quale pare che fosse cominciata ne' primi anni del trecento, e dopo esser rimasta sospesa fino oltre la metà di quel secolo, fu poi da Giovanni di Ceceo capomastro del Duomo ripresa e condotta a fine nel modo che oggi si vede. AGOSTINO E AGNOLO, SENESI 431 in questa vita e nell'altra felicissimi; tirò Agostino, con questa occasione di Giovanni, Agnolo suo fratello minore al medesimo esercizio. ^ We gli fu il ciò fare molta fatica ; perche il praticar d'Agnolo con Agostino e con gli altri sciütori gli aveva di già, vedendo honore e utile che traevano di cotai arte, V animo acceso d' estrema voglia e desiderio d'attendere alia scultura: anzi, prima che Agostino a ció avesse pensato, avea fatto Agnolo nasco- sámente alcune cose. Trovandosi, dunque, Agostino a la- vorare con Giovanni la tavola di marmo delf altar mag- giore del Vescovado d'Arezzo,^ della quale si ë favellato di sopra, fece tanto, che vi condusse il dette Agnolo suo fratello; il quale si portó di maniera in quelh opera, che, finita che ella fu, si trovó avere nelh eccellenza del- harte raggiunto Agostino. La qual cosa conosciuta da Giovanni, fu cagione che dopo questa opera si servi del- huno e delhaltro in molti altri suoi lavori, che fece in Pistoia, in Pisa ed in altri luoghi. E perche attesero non solamente alia scultura, ma alharchitettura ancora, non passó molto tempo, che, reggendo in Siena i Nove, fece Agostino il disegno del loro palazzo in Malborghetto ; che fu h anno 1308.® Nel che fare si acquistó tanto nome nella patria, che, ritornati in Siena dopo la morte di ' *11 racconto del Vasari non può che generare in noi forte sospetto di fal- sita, allorchè riflettiamo che le prime opere certe di questi artefici, nati al dir suo poco dopo il 1260, sarebbero state fatte tra il 1329 e il 1330, cioè quando già erano giunti all'età di 69 o 70 anni. Può egli, infatti, credersi che in tanta vac- chiezza riuscisse ad Agostino e ad Agnolo di condurre un lavoro come quello del sepolcro di Guido Tarlati; lavoro che solamente quando ferve l'età, e risponde la forza del corpo, può 1' uomo eseguire ? Queste considerazioni ci fanno abbracciare la opinione che i due scultori senesi nascessei'o molto tempo dopo a quello asse- guato dal Vasari; 6 che, per conseguente, piuttosto che dirli scolari di Giovanni Pisano, debbano chiamarsi suoi imitatori. ^ i Nelle note alia Vita di Niccola e Giovanni Pisani, noi abbiamo dimo- strato che la tavola del Vescovado d'Arezzo non è di Giovanni Pisano. ® * Quella porzione del Palazzo Pubblico che guarda la via di Malborghetto, fu cominciata nel 1307, e compita con molta sollecitudine nel 1310. II Tizio nondi- raeno sostiene, contro il detto dei cronisti contemporanei, che ciò accadesse nel 1298. Ma che ne fosse architetto il nostro Agostino, non si può pro vare con 432 AGOSTINO E AGNOLO, SENESI Giovanni, fnrono l'imo e l'altre fatti architetti del pub- blico: onde poi, Tanno 1317, fu fatta per loro ordine la facciata del Duomo^ che è volta a settentrione ; e Tanno 1821, col disegno de'medesimi, si cominciò a inu- rare la porta Komana in quel modo che ell' ë oggi, e riessuna antica testimonianza. Che anzi, non occorrendo il nome di Agostino fra quello de'molti maestri, de'quali a quei tempi, per lavori pubblici e di molta importanza, si servi la Repubblica senese, è da conchiudere che il Vasari siasi, neir asserirlo, ingannato. * *Che nel 1317 fosse innalzato il lato destro che guarda Valle Piatta, e la facciata posteriore del Duomo, lo raccontano ancora i cronisti; solo da noi si nega che questi lavori fossero ordinati da Agostino e da Agnolo, colla ragione che essi non furono mai agli stipendj dell'Opera del Duomo, la quale fin da'piú antichi tempi ebbe maestri proprj deputati alia direzione ed ai lavori della fab- brica. E nel 1317 pare che fosse capo-maestro un Camaino di Crescentino, da cui nacque quel maestro Tino scultore senese, il quale fu sconosciuto fino ai nostri tempi. Per lo che, porgendosi la occasione, non sará inutile che di alcune si Fece opere che tuttora rimangono di lui dica qualche parola. egli, adunque, nel 1312, per San Giovanni di Pisa, i bassorilievi che ornano il Battesimo, e per una cappella della Primaziale la tavola di marmo, ove è figurata Maria Ver- gine che apparisce a san Ranieri. Volendo poi i Pisani, dopochè fu morto Ar- rigo VII imperatore, onorare la sua memoria, diedero a fare a maestro Tino la sua sepultura, la qiiale stette per lungo tempo nel loro Duomo, finché ai no- stri giorni fu tolta di là e traspórtala nel Campo Santo. E di sua mano nel Duomo di Firenze il sepulcro del vescovo Antonio d'Orso (morto nel 1321): come apparisce dalla iscrizione che si legge murata nella párete interna della chiesa che è fra la porta principale e la láterale destra, dal qual luogo nel 1842 fu tolto il sepulcro suddetto,e collocato sopra la porta detta della Canónica. Là iscrizione che fu lasciata nell'antica párete, dice: operv. de senis natus ex magro Camaino in hoc situ florentino : tinus : sculpsit : ôl : lât. nun . p. pa- tre genitivo decet inclinari ut magister illo vivo : nolit : appellari. La quale barbara iscrizione si deve, per intendere qualcosa, costruire in tal guisa: Tinus de Senis, natus ex magistro Camaino, sculpsit in hoc situ florentino omne latus operum: Nunquam pro pâtre genitivo etc. t Fece Tino anche la sepoltura del vescovo Tedice Aliotti che si vede nella chiesa di Santa Maria Novella di Firenze. Ma le maggiori sue opere furono in Napoli, dove essendosi condotto fino dal 1324, scolpi nel 1325 il sepulcro della regina Maria d'Ungheria moglie di Carlo II re di Napoli, che è collocato nella chiesa di Santa Maria detta di Domna Regina \ nel 1332 quello di Matilde prin- cipessa d'Acaia, e nel 1338 l'altro di Carlo duca di Calabria, messo nella chiesa del Corpus Domini: e finalmente nello stesso anno quello di Maria di Valois stata moglie del detto Duca. Le quali opere dagli scrittori napoletani sono state fino ad ora attribuite ad altri maestri del loro paese: ma il vero è, e i Registri An- gioini ne fanno testimonianza, che esse furono fatte da maestro Tino. II quale, dimorando in Napoli, dove mori negii ultimi mesi del 1339, costrui pel re Ro- berto sul colle di Sant'Erasmo la, chiesa e il monastero di SanMartino, ed in- sieme un palazzo, ed un castello che da quel colle prese il nome AGOSTINO E AGNOLO, SENESl 433 fa finita Tanno 1826: la qual porta si cliiamava prima, porta San Martino. Rifeciono anco la porta a Tufi, clie prima si chiamava la porta di Sant'Agata all'Arco/ II medesimo anno fu cominciata, col disegno degli stessi Agostino ed Agnolo, la chiesa e convento di San Fran- cesco,® intervenendovi il cardinale di Gaeta, legato apo- stolico. We molto dopo, per mezzo d'alcuni de'Tolomei che, come esuli, si stavano a Orvieto, furono chiamati Agostino ed Agnolo a fare alcune sculture per l'opera di Santa Maria di quella citta. Pnr che, andati là, fecero di scultura in marino alcuni profeti, che sono oggi, fra r altre opere di quella facciata, le migliori e pin proper- zionate di quell'opera tanto nominata.^ Ora avvenne, l'anno 1326, come si è dette nella sua Vita, che Giotto fu chiamato per mezzo di Cario duca di Calavria, che allora dimorava in Fiorenza, a ISÍapoli, per fare al re Huberto alcune cose in Santa Chiara ed altri luoghi di quella città: onde passando Giotto, nell'andar là, da Or- vieto per veder r opere che da tanti uomini vi si erano fatte e facevano tuttavia, egli volle veder minutamente ogni cosa. E perché più che tutte l'altre sculture gli piacquero i profeti d'Agostino e d'Agnolo sanesi, di qui venue che Giotto non solamente li commendò, e gli ebbe, con molto loro contento, nel numero degli amici suoi; * *Questa porta ebbe principio nel 1327, e quella di Sant'Agata o del Tufi nel 1325, come si legge in una pietra che è sopra la stessa porta. La porta Ro- mana è forse Túnico edifizio in Siena che con qualche probabilitá possa dirsi disegnato da Angelo di Ventura. ^ *Una demanda porta al Gran Consiglio della cittá dai Frati Minori nel 16 di novembre del 1286, affine di ottenere aiuto di denari per continuare e compire la facciata della loro chiesa, farebbe credere che il cardinale Giovanni Gaetano degli Orsini intervenisse nel 1326 alla consacrazione piuttosto che alla fondazione di quella chiesa. Il che provato vero, si escluderebbe che ed Agostino Agnolo ne fossero stati gli architetti. ' *Fra i maestri che lavorarono nel Duomo di Orvieto, il nome di è Agostino ricordato per la prima volta nel 1339 insieme con Giovanni suo D'Agnolo figliuolo. non si fa parola. Ond'è a credere che le statue del Profeti, seppure sono del maestro senese, fossero fatte molto più tardi che il Vasari non dice. V^sAur, Opere..— Vol. Í. 28 431 AGOSTINO E AGNOLO, SENESI ma clie ancora li mise per le mani a Piero Saccone da Pietramala, come migliori di quanti allora fussero seul- tori, per fare, come si ë dette nella Vita d'esso Giotto, la sepoltura del vescovo Guido, signore e vescovo d'Arezzo» E cosi, adunque, avendo Giotto veduto in Orvieto T opere di molti scultori, e giudicate le migliori quelle d'Ago- stino ed Agnolo sanesi, fu cagione che fu loro data a fare la detta sepoltura; in quel modo però che egli Taveva disegnata,' e seconde il modello che esse aveva al dette Piero Saccone mandate. Finirono questa sepoltura Ago- stino ed Agnolo in ispazio di tre anni,"^ e con molta di- ligenza la condussono, e murarono nella chiesa del Ye- SCOvado di Arezzo, nella cappella del Sagramento. Sopra la cassa, la quale posa in su certi mensoloni intagliati pill che ragionevolmente, è disteso di marmo il corpo -di quel vescovo; e dalle bande sono alcuni Angeli, che tirano certe cortine assai acconciamente. Seno poi inta- gliate di mezzo rilievo, in quadri, dodici storie' delia vita e fatti di quel vescovo, con un numero infinito di figure piccole. II contenuto delle quali storie, acció si veggia con quanta pacienza furono lavorate, e che questi * Cosa poco verosimile, come ciascun verle per sé raedesirao. Agostino ed Agnolo, come s'esprime 11 Cicognara, eran giá troppo avanzati neU'arte da accettare il disegno d'altri. Erano al tempo stesso troppo savi da non gradire intorno al disegno proprio il parere di un Giotto. ® La cominciarono del 1327, anno delia morte di Guido, e la finirono del 1330. t Nel 1783 il vescovo Marcacci fece trasportare questa sepoltura, che era nella cappella del Sacramento, dal lato della sagrestia, perché avesse maggior luce. ® *Sedici, e non dodici, sono le storie; la descrizione delle quali, perché nel Vasari é assai disordinata, daremo noi, accorciando quella compiutissima del Cicognara. Nella I. È quando Guido é fatto vescovo (1312). II. Quando è chia- mato signore à'kxezzo (1321). III. Il Comune d'Arezzo sotto le sembianze di un vecchio genuflesso innanzi a Guido. IV. Il Comune in sîgnoria. Il vecchio della terza storia seduto in tribunale col vescovo. V. El fare delle mura d'Arezzo. VI. La del castello di Lucignano. VII. La presa di Chiusi del Casentino. presa VIII. La presa di Fronzole. IX. La presa del Castel Focognano. X. La presa di Rondina. XI. La presa del Bucine in Valdarno. XII. La presa di Caprese. XIII. La distruzione di Laterhia. XIV. La rovina e 1' incendio del Monte San- sovino. XV. La incoronazione di Lodovico il Bavaro. XVI. La morte di messer il vescovo Guido. AGOSTINO E AGÍÍOLO, SENESI 435 scultori stiidiando cercarono la buona maniera, non mi parra fatica di raccontare. Nella prima è quando, aiutato dalla parte Gliibellina di Milano, che gli mandó quattrocento muratori e da- nari, egli rifa le miíra d' Arezzo tutte di nnovo, allun- gandole tanto piíi che non erano, che dh loro forma d'una galea; nella seconda è la presa di Lucignano di Valdi- chiana; nella terza quella di Chiusi; nella quarta quella di Fronzoli, castello allora forte sopra Poppi, e posseduto dai figliuoli del conte di Battifolle ; nella quinta ë quando il castello di Rondine, dopo essere stato molti mesi as- sediato dagli Aretini, si arrende finalmente al vescovo; nella sesta ë la presa del castello del Bucine in Valdarno ; nella settima ë quando piglia per forza la rocca di Ca- prese, che era del conte di Bomena, dopo averie tenuto l'assedio interno più mesi; nell'ottava ë il vescovo che fa disfare il castello di Laterino, e tagliare in crece il poggio che gli ë soprapposto, acció non vi si possa far più fortezza; nella nona si vede che rovina e mette a fuoco e fiamma il Monte Sansavino, cacciandone tutti gli abitatori; neir undécima ë la sua incoronazione, nella quale sono considerabili molti begli abiti di soldati a pië ed a ca- vallo e d'altre genti; nella duodécima, finalmente, si vede gli uomini suoi portarlo da Montonero, dove ammaló, a Massa, e di li poi, essendo morto, in Arezzo. Sono anco interno a questa sepoltura in molti luoghi l'insegne ghi- belline e fiarme del vescovo; che sono sei pietre quadre d'oro in campo azzurro, con quell'ordine che stanno le sei palle nelfi arme de' Medici. La quale arme della ca- sata del vescovo fu descritta da Frate Guittone, cavaliere e poeta aretino, quando, scrivendo il sito del castello di Pietramala, onde ebbe quella famiglia origine, disse: Dove si scontra il Giglion con la Chiassa Ivi furono i miei antecessori, Che in campo azzurro d'or portan sei sassa. 436 AGOSTINO E AGNOLO, SENESl Agnolo, dmique, e Agostino sanesi condussono questa opera con miglior arte ed invenzione, e con pin diligenza che fusse in alcuna cosa stata condotta mai a' tempi loro. E nel vero, non deono se non essere infinitamente lo- dati, avendo in essa fatte tante figure, tante varietà di siti, luoghi, torri, cavalli, uomini ed altre cose, che e proprio una maraviglia. Ed ancora che qiiesta sepoltnra fusse in gran parte guasta dai Franzesi del duca d'Angiò, i quali, per vendicarsi con la parte nimica d'alcune in- giurie ricevute, messono la maggior parte di quella citta a sacco ; ella nondimeno mostra che fu lavorata con bo- nissimo giudizio da Agostillo ed Agnolo detti, i quali v' intagliarono in lettere assai grandi queste parole : Hoc opus fecit magister Augustinus et magister Angelus de Senis. Dopo questo, lavorarono in Bologna una tavola di marino per la chiesa di San Francesco, raimo 1829,^ con assai .bella maniera; ed in essa, oltre alFornamento d'intaglio, che h ricchissimo, feciono di figure alte un braccio e ' *Fu controverse fra gli ernditi l'autore di questa tavola. II Ghirardacci e il Baldinucci seguono il Vasari. Ma il Masini, e dopo di lui l'Oretti, sostennero che quest'opera fosse fatta da lacopo e Pietro Paolo delle Masegne, scultori ve- neziani; seconde Tuno nel 1396, e seconde l'altre nel 1338. Il Cicognara non seppe risolversi a crederla de'due veneziani, sembrandogli che nel 1338 fossero eglino troppo giovani da condurre un'opera cosi bella: ma dall'altre lato, ve- deva che, essendo Agostino ed Agnolo occupati a quel tempo in tanti lavori, avrebbero potuto attendere a questo. La questione adunque rimase non indecisa, sino che, nel 1843, il márchese Virgilio Davia tolse di mezzo ogni dubbio di a discrepanza, avendo trovato il documento originale, col quale i Frati Minori di Bologna, sotte il di 16 di novembre del 1388, allogarono a lacobello e Pietro Paolo de Masigni (quelli stessi, de'quali il Vasari fa memoria in fine di questa Vita) una tavola nueva di marmo per l'altar maggiore di detta chiesa, per il nrezzo di 2150 ducati d' oro. Erró portante il Vasari col dire che questo monu- mento di scultura fu fatto da Agostino ed Agnolo senesi, e di avervi letto i loro nomi l'anno 1329. — Profanata la chiesa, nelia mutazione del e governo awe- ñuta sul principio del corrente secóle, questo prezioso monumento fu scomposto e ammucchiato in un augusto sotterraneo di San Petronio, dove ebbe a patire quei guastamenti che, pur troppo, si seno veduti ricomponendone le disperse parti, allorchè nel 1842 fu riaperta e restituita al culto la chiesa de'Francescani. (Vedi Davia, Memorie storico-artisticlie intorno a una tavola di marmo figu- rata nella chiesa di San Francesco di Bologna ecc. Bologna 1843; e Appendice alie dette Memorie, Bologna 1845). AGOSTINO E AGNOLO, SENESI 437 mezzo un Cristo che corona la Nostra Donna, e da eia- scuna banda tre figure simili, San Francesco, San San lacopo, Domenico, SanF Antonio da Padova, San Petronio e San Giovanni Evangelista; e sotto ciascuna delle dette figure è intagliata una storia di basso rilievo della vita del Santo che è sopra: e in tutte queste istorie ë un numero infinito di mezze figure, che seconde il costume di quei tempi fauno ricco e bello ornamento. Si vede chiaramente che durarono Agostino ed Agnolo in sP que- opera grandissima fatica, e che pesero in essa ogni diligenza e studio per faria, come fu veramente, opera lodevole; ed ancor che siano mezzi consumati, pur vi si leggono i nomi loro ed il millésime, mediante il quale, sapendosi quando la cominciarono, si vede che a forniria penassono otto anni interí: ben è vero che in quel me- desimo tempo fecero anco moite altre cosette in diversi luoghi e a varie persone. Ora, mentre che costero lavo- ravano in Bologna, quella città, mediante un legato del papa, si diede liberamente alia Chiesa; e il papa, all'in- contre, promise che anderebbe ad abitar con la corte a Bologna, ma che per sicurta sua voleva edificarvi un castello, ovvero fortezza. La qual cosa essendogli conce- duta dai Bolognesi, fu con ordine e disegno di Agostino e d'Agnolo testamente fatta ; ma ebbe pochissima vita : perciocchë, conosciuto i Bolognesi che le molte promesse del papa erano del tutto vane, con molto maggior pre- stezza che non era stata fatta, disfecero e rovinarono la detta fortezza. Dicesi che, mentre dimoravano questi due scultori in Bologna, il Po, con danno incredibile del territorio mantoano e ferrarese, e con la morte di piti che diecimila persone che vi perirono, usci impetuoso del letto, e revino tutto il paese aU'intorno per molte miglia; e che perciò chiamati essi, come ingegnosi e va- lenti uomini, trovarono modo di rimettere quel terribile fiume nel luogo suo, serrándolo con argini e altri ripari 438 AGOSTINO E AGNOLO, SENESI í'; utilissimi; il che fu. con molta loro lode ed utile perche, oltre che n'acquistarono fama, furon o dai signori di Man- toa e dagli Estensi con oiioratissimi premj riconosciuti. Essendo poi tornati a Siena Tanno 1338, fu fatta con ordine e disegno loro la chiesa nuova di Santa Maria, appressò al Duomo vecchio verso piazza Manetti: ^ e, non molto dopo, restando molto sodisfatti i Sanesi di tuttfe r opere che costero facevano, deliberarono con si fatta occasione di mettere ad eífetto quelle di che si era molte volte, ma invano, insino allora ragionato; cioe di fare una fonte puhblica in su la piazza principale, dirimpetto al Palagio della Signoria. Perché, datone cura ad Ago- stino ed Agnolo, eglino condussono per canali di piombo e di terra, ancor che molto difficile fusse, l'acqua di quella fonte: la quale cominciò a gettare Tanno 1343,® * t A proposito di questo fatto si legge nella Crónica di Fra Giovanni de'Cor- nazani ( Muratori, Rer. Ital. Script., tom. XII, col. 738) che nel 1330 «del mese d'ottobre il fiume Po inondó la campagna piú che mai per innanzi fosse udito dire, perché tanto soprabondó l'acqua che uscita dal suo letto scorse fino a Torrille e a Gainaco e comunemente piú che tre milliara si allargo fuori degli argini, a tanto che tutta Mantova e Ferrara furono coperte dall'acqua: cosa or- ribile a vedere ! ». ^ *L'accre3CÍmento del Duomo peí piano di Santa Maria verso piazza Ma- netti fu cominciato nel 1339, e tirato avanti, con diverse interruzioni, fino . al 1356. Ma insorte varie difficoltà, fu infine tralasciato, e ripreso ad ingrandire e ad ornare il vecchio Duomo, che è quelle stesso che oggi si vede. Anche in questo luogo neghiamo che Agostino ed Agnolo dessero il disegno del nuevo Duomo ; perché sappiamo che in quelle stesso anno fu dalla Repubblica chia- mate da Napoli a questo effetto maestro Lando di Pietro, orafo ed architetto sánese di molta fama a'suoi giorni; e che, mor lo nel 13-10 il dette maestro Lando, fu fermato agli stipend) del Duomo, come capo-maestro, Giovanni di maestro Agostino, e poi nel 1351 ebbe il medesimo ufficio maestro Domenico, altro fi- gliuolo di maestro Agostino, morto nel 1369, al quale é forse da attribuire molta parte de'difetti che poi si scopersero in quella fabbrica, e che alfine cagionarouo che essa fosse abbandonata. ' "Fin dal 1334 erano stati allogati a maestro Giacomo di Vanni i lavori dei bottini per condurre l'acqua nella Fonte di Piazza, chiamata Fonte Gaja. E nel 1340, i nominati maestro Lando di Pietro, maestro Agostino di Giovanni e maestro Giacomo, ebbero a continuare la stessa opera: la quale non fu condotta a perfezione che alcuni anni dopo. Si trova però che l'acqua venisse per la prima volta nella Fonte di Piazza il 5 gennaio 1343. I bottini sono per la massima parte tagliati nel tufo, e dove il terreno poteva cadere, vestid con muro di mattoni. ag03tin0 e agnolo, sene3i 439 a di primo di giugno, con molto piacere e contento di tntta la citta, che restó per ció molto obbligata alia virtù di qnesti dne snoi cittadini. Nel medesimo tempo, si fece la sala del consiglio maggiore nel Palazzo del Pubblico ' : e cosí fu, con ordine e col disegno dei medesimi, con- dotta al suo fine la torre del detto palazzo ramio ISM-i e postovi sopra dne campano grandi, delle quali una eb- bono da Grosseto e T altra fu fatta in Siena." Trovandosi, finalmente, Agnolo nella cittk d'Ascesi, dove, nella chiesa di sotto di San Francesco, fece una cappella e una se- poltura di marino per il fratello di Napoleone Orsino, il quale, essendo cardinale e Frate di San Francesco, s'era niorto in quel luogo;® Agostino, che a Siena era rimaso per servigio del pubblico, si mori, mentre an- dava facendo il disegno degli ornamenti delia detta fonte di piazza, e fu in Duonio orrevolmente seppellito." E"on ho gia trovato, e peró non posso alcuna cosa dmie, ne ' *La nuova Sala del Consiglio, che fu fatta nel 1327, diventó nel 1560 il teatro che si dice de' Rinnovati. ^ *La prima pietra délia torre del Palazzo Pubblico fu, secondo alcuni, get- tata nel 3 di dicembre del 1325; secondo altri, nel 12 d'ottobre dello stesso anno. ■ Vi lavorarono varj maestri, e maestro Agostino di Giovanni ne era operaio nel 1339. Maestro Moccio la fini va in parte nel 1344; ma fu compita dopo il 1345. La cam- pana fu gettata nel 1348 da maestro Ricciardo di Tingo da Firenze. ' *Si vuole da alcuni che il sepolcro del cardinal Giovanni Gaetano Orsini sia dietro ail'altare delia cappella di san Niccoló (ora di san Giuseppe) nella basilica d'Assisi. — t Modernamente essendo stato levato Faltare di legno do- rato, si scoperse nella cappella Orsini, che è presse la sagrestia, e fu fatta in- nalzai'e dal cardinal Napoleone di questa famiglia, un vuoto, ove doveva esser collocate il monumento sepolcrale del detto cardinale; il quale si puô credere che fosse nello stesso modo di quelle che è nella cappella dirimpetto dall'altro lato délia creciera, nel quale è scolpito il cardinale Giovanni Gaetano fratello del suddetto, giacente supino e colle mani incrociate sul petto. Due angeli aprono le cortine, l'une tiene la navicella dell'incenso, e l'altro, ora mancante delia mano destra, doveva tenei'e il turibolo. Forse nella prima cappella non fu mai raesso il monumento del cardinal Napoleone, il quale, seconde il Ciacconio, mori in Avignone nel 1355, e fu sepolto nella chiesa di San Francesco di quella città. ^ *Le memorie di Agostino di Giovanni giungono al giugno del 1350. Da un documento del 18 di novembre dello stesso anno si sa che era già morto. Rispetto ad Agnolo, neppur noi sappiamo il quando delia sua morte. — Ago- stino ebbe un figliuolo di nome Giovanni, il quale nel 1340 era capo-maestro 440 AGOSTINO E AGNOLO, SENESl come nè quando morlsse Agnolo, nè manco altre opere d'importanza di mano di costoro: e però sia questo il fine delia Yita loro/ Ora, perche sarebbe senza dubbio errore, segnendo Tordine de'tempi, non fare menzione d'alcuni, che, seb- bene non hanno tante cose adoperato che si possa scri- vere tutta la vita loro, hanno nondimeno in qualche cosa aggiuntocommodo ebellezza all'arte e almondo; pigliando occasione da qnello che di sopra si ë detto del Vesco- vado d'Arezzo e della pieve, dico che Pietro e Paolo, orefici aretini, i qnali impararono a disegnare da Agnolo e Agostino sanesi, fnrono i primi che di cesello lavora- rono opere grandi di qualche bonta: perciocchë, per un del Duomo di Siena, conae abbianao detto. Di lui è un bassorilievo nella cappelletta contigua all'oratorio superiore di San Bernardino, nel prato di San Francesco in Siena; che rappresenta la Madonna col bambino Gesú ritto sulle ginocchia di lei, e due Angeli ai lati che porgono due vasi di fiori. Nello zoccolo è scritto: lOHANNIS (SÎC) MAGISTRI AGOSTINI DE SENIS ME FECIT. ^ *Ebbe ancora Agostino di Giovanni parte principale nella edificazione della fortezza di Massa di Maremma, incominciata nel 1336, allorchè questa città venne stabilmente sotto il dominio della Repubblica Seríese. E nei libri ordinati a registrare le spese del Comune, il nome di Agostino spesso si legge in com- pagnia di maestro Angelo, e di maestro Agostino di Rosso, che alcuni, senza I'appoggio di sicure prove, stimarono essere quello stesso, di cui scrive qui il Vasari. Fu ancora pubblicato dal Della Valle (molto scorrettamente invero) un contralto, nel quale sono tritamente scritti i pátti che messer Gontieri di Goro Sansedoni fece nel 4 di febbraio 1340 (stile comune) con maestro Agostino del maestro Rosso, con maestro Cecco di Corsino e con Agostino di Giovanni, come principali, per la edificazione della faccia innanzi alia strada del palazzo Sansedoni. II documento originale in pergamena, nell'alto della quale è disegnata a penna la facciata suddetta, esiste ancora nell'archivio de'signori Sansedoni. Esso è assai importante per le notizie che si possono trarre non tanto sull'arte edificatoria, quanto ancora sui linguaggio técnico di quei tempi. t Questo strumento fu poi ripubblicato piú corretto n"e! vol. I, pag. 232r del Documenti per la storia dell'Arte senese, già citati. Pare che maestro Ago- stino, dopo aver finito il sepolcro del vescovo Tarlati, dimorasse per qualche altro anno in Arezzo, trovandosi che nel 1331 lavorò una cappella nella Pieve di quella città a prete Goro, e nel 1332 fece patto di costruire ed ornare di seul- ture di marmo la cappella di Simone e Jacopo di Ghino Grassi nella detta Pieve. E lo strumento di questa allogazione fu pubblicato a pag. 200 del vol. I di detti Documenti ecc. Un anno dopo, maestro Giovanni figliuolo di maestro Agostino si obbligava con messer Roberto Tarlati di costruire ed ornare una sua cappella nel Vesco vado d'Arezzo per il prezzo di 55 fiorini d'oro. AGOSTINO E AGNOLO, SENESI 441 arciprete delia pieve d'Arezzo, condussono una testa d'ar- gento grande quanto il vivo, nella quale fu inessa la testa di San Donato, vescovo e protettore di quella città; la quale opera non fu se non lodevole, si perche in essa fecero alcune figure smaltate assai belle, ed altri orna- menti; e si perche fu delle prime cose che fussero, come si è dette, lavorate di cesello/ Quasi ne'medesimi tempi, o poco innanzi. Tarte di Calimara di Firenze^ fece fare a maestro Cione, orefice eccellente,® se non tutto, la maggior parte delTaltare d'argento di San Giovanni Batista; nel quale sono moite storie delia vita di quel Santo, cavate d'una piastra d'ar- gento in figure di mezzo rilievo ragionevoli. La quale opera fu, e per grandezza, e per essere cosa nueva, te- ñuta da chiunche la vide maravigliosa. II medesimo mae- stro Cione, Tanno 1330, essendosi sotto le volte di Santa * t Intendasi in Arezzo, poichè si hanno altrove cose lavorate anteriormente, come il celebre tabernacolo pel Ss. Corporale d'Orvieto, lavorato a storie d'ar- gento smaltate da Ugolino di Vieri e da altri orefici sanesi nel 1338. La testa d'argento cesellata dai due artefici aretini, e poi sempre conservata nella Pieve della lor patria, è del 1346, siccome ci è attestato dalle seguenti iscrizioni, che dicono; quella nella cornice della base: hoc opus factum fuit tempore mar- gareti boschi ser bonuditi oper. per paulum et petrum aurif. aret. ; l'altra neir angolo destro di detta base : et petrus francisci catararius ; la terza nel sinistro : tempore guilielmi arch, aretini ; e finalmente sopra l'orecchio della testa quest'ultima : anno domini mcccxlvi tempore domini guilielmi arch. aretini. La testa d'argento, allorchè le genti di Lodovico d'Angiô saccheggia- rono Arezzo nel 1384, fu rubata da un soldato francese e venduta a Sinibaldo Ordelaffi signore di Forli, il quale premió poi il ladro colla forca. Morto l'Or- delaffi nel dicembre del detto anno, passô quella reliquia nelle mani de' suoi ni- poti, da'quali riebbela il Comune di Firenze e restituilla agli Aretini nell'aprile del 1386. ^ L'Arte della Lana. E il nome ne fu probabilmente portato di Costantinopoli, ove forse chiamavasi calimara, o bella lana, la fine tessitura de'pannilani. ' t Padre, seconde che afferma il Vasari, del celebre Andrea Orcagna. Della qual cosa noi fortemente dubitiamo, come sarà detto alia Vita di questo artefice. Questo preziosissimo altare d'argento fu fatto fare dall'Arte della Lana, come rilevasi dalla seguente scritta della smaltata cornice di esso dossale : Anno Domini MCCCLXVl inceptum fuit hoc opus dossalis tempore Benedictí Ne- rozzi de Albertis, Pauli Michelis de Rondinellis, Bernardi DTii Chovonis de Chovonibus offítialium deputalorum. Errarono pertanto coloro che dissero in- cominciato questo lavoro l'anno 1336. 442 AGOSTINO E AGNOLO, SENESI Reparata tróvate il corpo di San Zanobi, legó in una testa d'argento grande quanto il naturale quel pezzo della testa di quel Santo, che ancora oggi si serba nella medesinia d'argento, e si porta a processione: la quale testa fu allora tenuta cosa bellissima, e diede gran nome albartefice suo; che non inolto dopo, essendo ricco ed in gran reputazione, si inori.' Lasciò maestro Cione molti discepoli, e fra gli altri, Forzore di Spinello aretino, che lavorò d'ogni cesella- mento benissimo, ma in particolare fu eccellente in fare storie d'argento a fuoco smaltate: come ne fanno fede, nel Vescovado d'Arezzo, una mitra con fregiature bel- lissime di smalti, ed un pastorale d'argento molto bello. Lavorò il medesimo al cardinale Galeotto da Pietramala moite argenterie, le quali dopo la morte sua rimasero ai Frati della Vernia,® dove egli voile essere sepolto.; e dove, oltre la muraglia che in quel luogo il conte Or- lando, signor di Chiusi (picciolo castello sotto la Vernia), aveva fatto fare, edificó egli la chiesa e moite stanze nel convento, e per tutto quel luogo, senza farvi Tin- ^ ^ Non fu Cione, osserva il Cicognara, quegli che lavorò questa testa vera- mente bellissima, e di stil più semplice e più largo che forse a'giorni di Cione ancor non si usava; ma un Andrea Arditi di Fiorenza, siccome leggesi in un cartellino di smalto ch'è nella testa medesima. — *Di questo Andrea Arditi più lavori possedeva la met)'opolitana florentina, come abbiamo scoperto dall'estratto di un Inventario di Santa Reparata di Firenze, fatto al tempo di messer Marco Davanzati e di messer Salutato Salutati, camarlinghi, I'anno 1413; dove si trova scritto quanto appresso : « Item, un calice d'ariento dorato, gr-ande, smaltato con l'arme di san Zanobi, nel quale è scritto Andrea di Ardito maestro, colla patena smaltata quando Christo va in cielo. — Item, un calice mezzano d'ariento dorato, smaltato con molte figure di santi, fatto nel 1331, fatto per maestro An- drea d'Ardito, seconde ch'è scritto nel detto calice, colla patena ecc. » (Biblio- teca Magliabechiana, Spogli Sti'ozziaui, classe xxxvii, var. 304 , 0. 0. 1236). ^ La mitra e il pastorale qui rammernorati dal Biógrafo, notava il Bottari, più non esistono nella cattedrale d'Ai-ezzo, né si sa che presse i frati della Vernia si conservino argenterie di Pietramala. t Quanto ail'autora di questi lavori noi crediamo che sia stato non Forzore Spinelli, oreflce vissuto flno al 1477, ma sibbene Cola di Spinello suo antenato, che visse ed operó nella metà del secóle xiv. AGOSTINO E AGNOLO, SENESI 443 segna sua o lasciarvi altra memoria. Fu discepolo ancora di maestro Clone, Llenardo dl ser Giovanni fiorentlno. 11 quale dl cesello e dl saldature, e con mlgllor dlsegno clie non avevano fatto gll altri Innanzl a lui, lavorò moite opere, e partlcolarmente Paitare e tavela d'argento di San lacopo dl Pistola;^ nella quale opera, oltre le storle che seno assal, fu molto lodata la figura che fece In mezzo, alta plù d'un bracclo, d'un San lacopo, tonda e lavorata tanto pulltamente, che par pluttosto fatta di getto che di cesello.^ La qual figura è collocata In mezzo alie dette storle nella tavela dell'altare, Interno al quale è un fre- gio dl lettere smaltate, che dlcono cesi: Ad honorem Dei, et Sancti Jacohi Apostoli, hoc opus factum fuit tempore Do- mini Franc. Pagni dictœ operœ opei'arii suh anno 1371, per me Leonardum Ser lo. de Floren, awific. Ora, tornando a Agostlno e Agnolo, furono loro di- scepoll moltl che dopo loro feclono molte cose d' archltet- tura e di scultura In Lombardla ed altii luoghl d'Italia: e fra gll altrl, maestro lacopo Lanfranl da Vlnezla, 11 quale fondo San Francesco d'Imola, e fece la porta prm- clpale di scultmra, dove Intagllò 11 nome suo ed 11 mil- leslmo, che fu l'anno 1343;^ ed In Bologna, nella chlesa di San Domenlco, 11 medeslmo maestro lacopo fece una sepultura di marmo per Giovanni d'Andréa Calderlno,'' dottore di legge e segretarlo di papa Clemente VI; ed un'altra pur dl marmo è nella detta chlesa, molto ben lavorata, per Taddeo Peppoll, conservator del popolo e ' L'altare, come dimostrano il Ciampi e il Tolomei altre volte citati, è opera d'un Andrea di lacopo (o di Puccio) Ognabene pistoiese, terminata fin dal 1316. ^ O.uesta figura, come pur dimostrano il Ciampi e il Tolomei, è d'un mae- stro Gigiio o Cilio, pisano {ignoto al Vasari, al Baldinucci, e a quanti scrissero finora del risorgimento delle arti), il quale fioriva interno al 1350. ® La chiesa fu poi convertita in teatro, e della porta scolpita nulla rimase. ' *Per errore di stampa, da noi corretto, diceva Calduino, ed intendasi il monumento di Giovanni d'Andréa Calderini, scolpito nel 1348 [Guida di Bolo- gna, ediz. del 1845). 444 AGOSTINO E AGNOLO, SENESl delia giustizia di Bologna:' ed il medesimo anno, che fu l'anno 1347, finita questa sepoltnra, o poco innanzi, an- dando maestro lacopo a Yinezia sua patria, fondo la chiesa di Sant'Antonio, che prima era di legname, a ri- chiesta d' uno abate fiorentino dell' antica famiglia degli Abati, essendo doge messer Andrea Dándolo; la quale chiesa fu finita l'anno 1849.'^ lacobello ancora e Pietro Paolo viniziani,® che furono discepoli d'Agostino e d'Agnolo, feciono in San Domenico di Bologna una sepoltura di marmo per messer Giovanni da Lignano, dottore di legge, Tanno 1888.'^ I quali tutti e molti altri scultori andarono per lungo spazio di tempo seguitando in modo una stessa maniera, che n' empierono tutta ritalia. Si crede anco che quel Pesarese, che, oltre a molte altre cose, fece nella patria la chiesa di San Do- menico, e di scultura la porta di marmo con le tre figure tonde. Dio Padre, San Giovanni Batista e San Marco, ' *Esiste anche oggi. ^ Anche questa chiesa fu poi denaolita. — t Essa era stata fondata da messer Zotto o Giotto degli Abati che ne fu anche il primo abate. ® Figli d' un Antonio delle Masegne, o de'Masigni, come è detto piú innanzi. ^ Fecero anche, tra Faltre cose, le belle statue (quattordici fra tutte) del- l'architrave che separa il presbiterio dal resto della nave maggiore di San Marco di Venezia; e fra le quali è un Crocifisso di lacopo di Marco Benato, lor con- cittadino e contemporáneo, opei'a notabilissima d'oreficeria. lacobello, come di- mostra il Cicognara, ebbe un figlio di nome Paolo, che nel 1394 (l'anno stesso in cui fu fatto il Crocifisso giá detto ) lavorava in Venezia, seconde lo stile del padre, al deposito Gavalli in San Giovanni e Paolo, te scolpiva la sepoltura di Prendiparte Pico nella chiesa di San Francesco della Mirándola, dove messe questa iscrizione: Questa opera de tallo fatta in preda. Un venician la fe cha nome Polo, Nato di Jachomel cha taia preda. Questo monumento è dato inciso dal Litta nella Famiglia Pico. Ai fratelli delle Masegne attribuisce il Cicognara l'arca di sant'Agostino, che era nella chiesa di San Pietro in Celdauro di Pavia, poi ne'primi anni di questo secolo lu e trasportato nella Cattedrale. II Vasari, nelle Vite di Benvenuto Garofolo e di Girolamo da Carpi, la dice opera di Agostino ed Agnolo, senesi. Ma essa, secondo il Sacchi essendo stata scolpita intorno al 1370, non puó essere de'detti mae- stri senesi, e dallo stile si riconosce ch'è opera d'un maestro uscito dalla scuola di Giovanni Balducci pisano. AGOSTINO E AGNOLO, SENESI 445 fusse discepolo d'Agostino e d'Agnolo; e la maniera ne fa fede. Fu finita questa opera Tanno 1385. Ma percliè troppo sarei lungo se io volessi minutamente far men- zione deiropere che furóno da molti maestri di que'tempi fatte di questa maniera, voglio che quello che n'ho detto cosi in generale, per ora mi basti; e massimamente non si avendo da cotali opere alcun giovamento che molto faccia per le nostre arti. De' sopraddetti mi è paruto far menzione, perche se non meritano che di loro si ragioni a lungo, non sono anco, dall'altro lato, stati tali, che si debba passarli del tutto con silenzio. 417 STEFANO E UGOLINO PITTOUE FIORENTINO PITTOKE SANESE (Nato nel 1301 ?; morte nel 1350? — Nato nel 1200 ?; morto nel 1339) Fu in modo eccellente Stefano, pittore fiorentino e discepolo di Giotto/ che non pure superó tutti gli altri che innanzi a lui si erano aífaticati nelFarte, ma avanzó di tanto il suo maestro stesso, che fu, e meritamente, tenuto il miglior di quanti pittori erano stati infino a quel tempo ; come chiaramente dimostrano 1' opere sue. Dipinse cestui in fresco la Nostra Donna del Campo Santo * Notí so!o discepolo, seconde il Baldinucci, ma anche ñipóte, poichè figiio di Caterina figliuola di Giotto, maritata al pittore Ricco di Lapo. i Nel Libro Alfabético dei Matricolati alF Arte de'Medici e Speziali (mss. membran., dal 1290 al 1443, nell'Arcbivio Centrale di Stato), compilato verso la metà del secolo xv, questo Stefano non si trova. Forse perché quando si tratta di pittori anticbi de'primi anni del secolo xiv, questa loro professione non è sempre segnata appresso il nome. Ma neppure si trova nel Rnolo délia Compagnia di S. Luca, pubblicato dal Gualandi. Il che si puô splegare, per essere in quel Ruolo scritti i pittori che vivevano nel 1349, nel quai tempo Stefano era forse già morto. ^ *Questo mérito gli è stato da molti contrastato: ma il prof. Rosini giusta- mente osserva, che in moltissime occasioni poté il Vasari ingannarsi e pei tempi e per le opere fatte da uno o da un altro pittore, secondocbè le notizie trasmes- segli erano più o meno esatte ; ma che non poteva prendere ( avendo sott' occbio le opere fatte in patria) un abbagbo si forte, se i meriti di Stefano non fossero stati veramente grandi: tanto che il Gbiberti disse l'opere di costui esser molto mirabili, e fatte con grandissima dottrina. 448 STEFANO FIORENTINO di Pisa,* che è alquanto meglio di disegno e di colorito che Topera di Giotto; ed in Fiorenza, nel chiostro di Santo Spirito, tre archetti a fresco: ^ nel primo de'quali, dove ë la Trasfigurazione di Cristo con Moisë ed Elia, figuró, immaginandosi quanto dovette essere lo splendore che gli abbagliò, i tre discepoli con straordinarie e belle attitudini; e in modo avviluppati ne'panni, che si vede che egli ando con nuove pieghe, il che non era stato fatto insino allora, tentando di ricercar sotto Tignudo delle figure: il che, come ho detto, non era stato con- siderato në anche da Giotto stesso. Sotto quelTarco, nel quale fece un Cristo che libera la indemoniata, tiró in prospettiva un edifizio perfettamente, di maniera allora poco nota, a buona forma e migliore cognizione ridu- cendolo; ed in esso con giudizio grandissimo moderna- mente operando, mostró tant' arte e tanta invenzione e proporzione nelle colonne, nelle porte, nelle finestre e nelle cornici, e tanto diverso modo di fare dagli altri maestri, che pare che cominciasse a vedere un certo lume della buona e perfetta maniera dei moderni» Immaginossi cestui, fra Taltre cose ingegnose, una salita di scale molto difíicile; le quali in pittura, e di rilievo múrate, e in ciascun modo fatte, hanno disegno, varietà ed inven- zione utilissima e comoda tanto, che se ne servi il ma- gnifico Lorenzo vecchio de'Medici nel fare le scale di fuori del palazzo del Poggio a Caiano, oggi principal villa delT illustrissime signer Duca.^ Nell'altro archetto ë una storia di Cristo quando libera san Pietro dal naufragio, tanto ben fatta, che pare che s' oda la voce di Pietro che dica: Domine, salva nos, ferimus. Questa opera ë giu- ' È Tunica pittura certa che rimanga di lui. Essa è veramente,.dice il Lanzi, di più gran maniera che non son Topere del maestro; ma ritocca. - + Altri attribuisce a Giottino le pitture di questi archetti. ® Dovea dire che se ne servi ( forse per consiglio di Lorenzo) Giuiiano da San Galio, architetto di questa scala. Se ne servi egualmente, per quella del Pozzo d'Orvieto, Antonio da San Gallo. E UGOLINO SANESE 449 dicata molto più bella dell'altre; perche, oltre la mor- bidezza de'panni, si vede dolcezza nell'aria delle teste, spavento nella fortuna del mare; e gli Apostoli, percossi da diversi moti e da fantasmi marini, essere figurati con attitudini molto proprie e tutte bellissime. E, benche il tempo abbia consumato in parte le fatiche che Stefano fece in questa operasi conosce, abbagliatamente però, che i detti Apostoli si difendono dalla furia de'venti e dall'onde del mare vivamente: la qual cosa essendo ap- presso i moderni lodatissima, dovette certo nei tempi di chi la fece, parere un miracolo in tutta Toscana. Dipinse dopo, nel primo chiostro di Santa Maria Novella, un San Tommaso d'Aquino allato a una porta; dove fece ancora un Crocifîsso, il quale ë stato poi da altri pittori, per rinnovario, in mala maniera condotto.® Lasciè simil- mente una cappella in chiesa, cominciata e non finita, che ë molto consumata dal tempo; nella quale si vede quando gli Angeli, per la supèrbia di Lucifero, piovvero giù in forme diverse: dove ë da considerare che le fi- gure, scortando le braccia, il torso e le gambe, molto meglio che scorci che fussero fatti prima, ci danno ad intendere che Stefano cominciò a conoscere e mostrare in parte le difiicolta che avevano a far tenere eccellenti ' Il tempo l'ha poi consúmate del tutto. ^ *Esiste sopra la porta che dal Chiostro Verde introduce in quello grande, con san Domenico e san Tommaso ai lati di esso; ma tutto in peggiore stato di quello che era al tempo del Vasari. Un qualche compenso del danno cagio- nato a questa opera, e délia perdita delle altre, puô essere il ritrovamento, fatto da noi in questo luogo, di una pittura di questo raro maestro, rimasta sconosciuta fin anco al Vasari ; sebbene indicata fosse dal Ghiberti. Essa si trova passato dentro quella porta, la quale dal sotterraneo introduce neU'antichissimo chiostro ael convento, e precisamente in una lunetta che soprasta alla porta (ora murata) délia soppressa cappella di San Tommaso. Rappresenta questo santo in più che mezza figura, colla penna nella destra e un libro aperto nella sinistra, dove è scritto : Verbitm caro panem verum verbo carnem efficit. Il Ghi- berti descrive questa pittura come esistente in questo sotterraneo, con queste parole: « E nei Frati Predicatori un san Tommaso d'Aquino, fatto molto egre- giamente: pare detta figura fuori del muro rilevata; fatta con molta diligenza ». Vasábi, Opere. — Vol. I- 29 450 STEPANO FIORENTINO coloro, che poi con maggiore studio ce gil mostrassono,.. come hanno fatto, perfettamente : laonde scimia della natura fu dagli artefici per soprannome chiainato.^ Condotto poi Stefano a Milano, diede per Matteo Vi- sconti principio a molte cose; ma non le potette finiré^, perche, essendosi per la mutazione dell'aria ammalato, fu forzato tornarsene a Firenze: dove, avendo riavuto la sanita, fece nel tramezzo della chiesa di Santa Crece, nella cappella degli Asini, a fresco, la storia del mar- tirio di San Marco quando fu stracinato, con molte fi- gure che hanno del buono.^ Essendo poi condotto, per essere stato discepolo di Giotto, fece a fresco in San Pie- tro di Eoma, nella cappella maggiore, dove è faltare di dette Santo, alcune storie di Cristo® fra le finestre che sono nella nicchia grande; con tanta diligenza, che si vede che tiró forte alla maniera moderna, trapassando d' assai nel disegno e nelf altre cose Giotto suo maestro. Dopo questo fece in Araceli, in un pilastre, accanto alla cappella maggiore a man sinistra, un San Lodovico in fresco; che è molto lodato, per avere in së una vivacità non stata insino a quel tempo në anche da Giotto messa in E, nel vero, aveva Stefano gran facilità nel opera. disegno: come si può vedere nel dette nostre libro, in una carta di sua mano, nella quale ë disegnata la Trans- figurazione che fece nel chiostro di Santo Spirito ; in modo che, per mio giudizio, disegno molto meglio che Giotto. Andate poi ad Ascesi, cominciò a fresco una storia della gloria celeste, nella nicchia della cappella maggiore nella chiesa di sotto di San Francesco, dove ë il coro; e, seh- bene non la fini, si vede in quelle che fece, usata tanta ' « Stefano da tutti è nominato scimmia della. natura, tanto espresse qua- lunque cosa voile ». Gosi Cristofano Landino, citato dal Baldinucci. ^ Tol to via il tramezzo, la pittura è perita. ' E queste pure e l'altre sotto, cose dipinte in Roma, che si accennano piú sono perite. E UGOLINO SANESE 451 diligenza, quanta più non si potrebbe desiderare. Si vede in questa opra coininciato un giro di Santi e Sante, con tanta bella varietà ne'volti de'giovani, degli uomini di mezza età e de'vecchi, che non si potrebbe meglio di- siderare: e si conosce in quegli spiriti beati una maniera dolcissima, e tanto unita, che pare quasi impossibile che in que'tempi fusse fatta da Stefano, che pur la fece; sebbene non sono delle figure di questo giro finite se non le teste; sopra le quali è un coro d'Angeli che vanno scherzando in varie attitudini, ed acconciamente por- tando in mano figure teologiche; sono tutti vôlti verso un Cristo crocifisso, il quale è in mezzo di questa opera, sopra la testa d'un San Francesco, che ë in mezzo a una infinita di Santi. Oltre ciò, fece nel fregio di tutta l'opera alcuni Àngeli, de'quali ciascuno tiene in mano una di quelle chiese che scrive San Giovanni Evangelista nel- l'Àpocalisse; e sono questi Angeli con tanta grazia con- dotti, che io stupisco come in quella età si trovasse chi ne sapesse tanto. Cominciò Stefano questa opera per faria di tutta perfezione, e gli sarebbe riuscito; ma fu forzato lasciarla imperfetta,^ e tornarsene a Firenze da alcuni suoi negozi d'importanza. In quel mentre, dunque, che per ciò si stava in Firenze, dipinse, per non perder tem- po, ai Gianfigliazzi lung'Arno, fra le case loro ed il ponte alla Carraia, un tabernacolo piccolo, in un canto che vi ë; dove figuró con tal diligenzia una JSÍostra Donna, alla quale, mentre ella cuce, un fanciullo vestito e che siede, porge un uccello; che, per piccolo che sia il la- voro, non manco mérita esser lodato, che si facciano ropere maggiori e da lui più maestrevolmente lavorate.^ ' *Nella nicchia del coro delia chiesa inferiere di San Francesco d'Assisi oggi non si vede più vestigio di questa gloria celeste; e in suo luego fu posto un cattivissimo quadro, rappresentante la Caduta degli Angeli ribelli. ^ II piccolo tabernacolo fu distrutto quando si fabbricó il palazzo Corsini. *11 prof. Rosini trovó presse il signer Ranieri Grassi di Pisa una molto rita d'epe- tavoletta, ch'egli tiene ragionevolmente per una replica di questo taberna- 452 STEFANO FIORENTINO Finito questo tabernacolo e speditosi de' suoi negozi, es- sendo chiamato a Pistoia da que'Signori, gli fn fatto di- pignore, I'anno 1346, la cappella di San lacopo: nella volta delia quale fece un Dio Padre, con alcuni Apo- stoli; e nolle facciate, le storie di quel Santo, e partico- larmente quando la madre, moglie di Zebedeo, dimanda a Gesù Cristo che voglia i due suoi figliuoli collocare uno a man destra, I'altro a man sinistra sua nel regno del Padre. Appresso a questo è la decollazione di detto Santo, molto bella.^ Stimasi che Maso detto Giottino, del quale si parlera di sotto, fusse figliuolo di questo Stefano; e, sebbene molti per 1' allusione del nome lo tengono figliuolo di Giotto, io, per alcuni stratti che ho veduti, e per certi ricordi di buena fede scritti da Lorenzo Ghiberti e da Domenico del Grillandaio,^ tengo per fermo che fusse colo; vedendo che la Vergine e il Divino Infante sono in essa rappresentati appunto il Vasari descrive. Un intaglio se ne vede a pag. 127 del tom. II come delia sua Storia. Ma se la congettura del chiarissimo storico è, rispetto a que- sta tavoletta, ragionevole, non si può in pari modo ammettere l'altra asserzione cadutagli dalla penna, quando con tanta asseveranza di parole dichiarò essere opera di questo Stefano florentino la tavola coll'Adorazione de'Re Magi che ora si conserva nella Pinacoteca di Brera; e delia quale símilmente esibi un inta- glio 125 del tomo sopra citato. Ma come si può dire opera di Stefano a pag. di Giottino questa tavola che porta scritta la data di un secolo dopo ? padre Difatti, non fldandoci della indicazione che ce ne dà la Guida delia Pinacoteca di Brera, pregammo la cortesia di un nostro amico, perché volesse mandarci copia esatta della iscrizione che in essa tavola si trova; la quale avuta, qui ri- portiamo: Stefanus Pinœit. 1435. — t II quale Stefano oggi con molta ragione si crede essere Stefano da Zevio, pittore Veronese. * Le pitture, di cui qui parla il Vasari, e che anche il Baldinucci attribuisce a Stefano, Ales- sono, secondo antiche memorie citate dal Ciampi, d'un maestro sio d'Andrea e d'un Bonaccorso di Cino, florentini, chiamati a Pistoia nel 1347, quando fu rifatta la volta della cappella di San lacopo, e distrutta la pittura che nella cappella medesima avea fatta, tra gli altri, flno dal 1265, quel mae- stro Coppo di Marcoaldo florentino, del quale abbiamo parlato nel Gommentario alia Vita di Cimabue. Erano bensi di Stefano altre pitture, ora perite, della cappella del Grociflsso, rappresentanti il Giudizio ; delle quali il Vasari non parla, ma che probabilmente furono per lui cagione d'equivoco. ® t I Ricordi del Ghiberti furono pubblicati per la prima volta dal Gicognara in una nota della sua Storia della Scultura, e riprodotti da noi nella prima no- stra edizione di queste Vite. Quanto a quelli del Ghirlandaio, che oggi non si tro- vano, noi crediamo che se ne possa avere un estratto nel códice Magliabechiano E UGOLINO SANESE 453 più presto figliuolo di Stefano che di Giotto.^ Comúnque sia, tornando a Stefano, se gli può attribuire che dopo Giotto ponesse la pittura in grandissimo miglioramento; perche, oltre all'essere state più vario neir invenzioni, fu ancora più unite nei colori e più sfumato che tutti gli altri; e sopra tutto, non ehhe paragone in essere di- ligente. E quegli scorci che fece, ancora che, come ho dette, cattiva maniera in essi, per la difficulta di fargli, mostrasse; chi è nondimeno investigatore delle prime difficolth negli esercizj, mérita molto più nome che co- loro che seguono con qualche più ordinata e regolata maniera.^ Onde, certo grande obbligo avere si dee a Ste- fano, perché chi cammina al buio, e mostrando la via rincuora gli altri, e cagione che, scoprendosi i passi dif- ficili di quella, dal cattivo cammino con spazio di tempe si pervenga al desiderate fine. In Perugia ancora, nella chiesa di San Domenico, cominciò a fresco la cappella di Santa Caterina, che rimase imperfetta. ® Visse ne'medesimi tempi di Stefano, con assai buen neme, Ugolino pittore sánese, suo amicissimo,* il quale (già Gaddiano) di n.° 17 delia classe xvn, dove un anonimo délia prima metà del 500 ha raccolto brevi notizie degli artefici fiorentini da Cimabue a Mi- chelangelo. In questo códice è spesso citato un Libro antico posseduto da ua Antonio Billi, dal quale sono cavate alcune notizie. Di questo códice avremo occasione di parlare più a lungo nel Commentario che segue. * È più conforme ail'uso, osserva il Bottari, che i fanciulli che nascono si chiamino col nome del nonno, o paterno o materno, che con quello del padre. Dubita però il Bottari medesimo, che Giottino non fosse figliuolo di Stefano, tro- vando nella matricola dell'arte, che questi ebbe un figliuolo chiamáto Domenico ; il quale poi fu padre d'altro Stefano, matricolato pittore nel 1414. t Interno a questo particolare noi ci riserbiamo a dire la nostra opinione nella Vita di Tommaso dette Giottino, che si legge più innanzi. ^ i Gli aífreschi della cappella Buontempi in San Domenico di Perugia, che qui il Vasari dà a Stefano, altrove gli attribuisce a Buífalmacco. Ad ogni modo essi non sono nè dell'uno nè dell'altro, ma di un pittore del secóle xv. ® Veri ta che non si potea esprimere più felicemente. * *In Siena, nei libri di Biccherna, all'anno 1317, è memoria di un Ugo- lino di Neri pittore: nel volume delle Gabelle de'Contratti del 1324, a c. 70, si trova ricordato Ugolino di Pietro pittore. Chi de'due fosse il maestro nominate dal Vasari, è difficile stabilirlo. In ogni caso, questo artefice non è da confon- 454 STBFANO FIORENTINO fece molte tavole e cappelle per tutta Italia: sebbene tenne sempre in gran parte la maniera greca, come quelle che, invecchiato in essa, aveva volute sempre per una certa sua caparbietà tenere piuttosto la maniera di Cimabue, che quella di Giotto, la quale era in tanta venerazione. È opera, dunque, d'Ggolino la tayola del- raltar maggiore di Santa Crece, in campo tutto d'oro;' ed una tavela ancora che stette molti anni air altar mag- giore di Santa Maria Novella, e che oggi ë nel Capitolo, dove la nazione Spagnuola fa ogni anno solennissima festa il dl di San lacopo, ed altri suoi uíñzj e mortorj.^ Oltre a queste, fece molte altre cose con bella pratica, senza uscire però punto della maniera del suo maestro. dere, come fecero il Della Valle ed altri, con Ugolino di maestro Vieri, orafo senese, al quale nel 1337 fu allogato a fare il famoso reliquiario a smalto per il Duomo d'Orvieto. — t Vedi il Commentario posto in fine di questa Vita, dove si ragiona della tavola dipinta da Ugolino di Neri, e non di Pietro, e si scopre il vero autore di quella che oggi si vede nel tabernacolo d'Or San Michele. ^ La tavola di Ugolino fatta per l'altar maggiore di Santa Croce, che il Bottari credette smarrita, e che il Della Valle ritrovô nel dormentorio del con- vento, fu venduta nel principio del presente secolo ad un inglese per pochi scudi. Cosí dice una nota manoscritta del cav. T. Puccini. *11 signor dottore G. F. Waagen ritrovô molti frammenti di questa tavola in Inghilterra, nella raccolta delle pitture della scuola italiana, posseduta da Young Ottley; e ne dette la descrizione a pag. 393-95 del tom. I della sua pre- citata opera, con queste parole, che noi qui riportiamo tradotte: « Alcuni quadri di vera origine bizantina, di ragguardevole antichità e di bella esecuzione arti- stica, tengono il primo posto; ma piú importanti di tutti sono i quadri del- l'antica scuola senese. Con mió gran piacere vi trovai la maggior parte delle ta- vole del quadro di Ugolino da Siena, fatto, seconde il Vasari, per 1'altar maggiore della chiesa di Santa Croce di Firenze. Questo artista, che mori Panno 1339 in età molto avanzata, apparisce qui come uno dei piú ragguardevoli anelli fra la maniera bizantina piú severa di quella di Duccio, e P altra piú dolce e piú pia- cevole del famoso Simone di Martine. Seconde il costume del secolo xiv, questo altare era formato da una quan tità di tavole divise, e riunite nel medesimo tempo da cornici di architettura gótica. Della principal serie, la cui tavola di mezzo rappresentava Maria col Divino Infante, e le sei altre tavole altrettanti Santi in mezza figura, trovansi ancora cinque tavole intere e solo un frammento della Madonna, la cui bellezza fa sentiíe immenso rammçirico per la perdita del resto. Sopra alie rammentate trovavasi una fila di egual numero, contenente ognuna due mezze figure di santi, delle quali non restaño che tre sole. La parte su- periore era formata di sette cuspidi, foggiate a guisa di gotici frontespizj, or- nati ciascuro di una mezza figura di santo; e ne vidi ancora quattro. Le sette E UGOLINO SANESE 455 Il medesimo fece, in un pilastro di mattoni delia loggia che Lapo^ avea fatto alla piazza d'Orsanmichele, la No- stra Donna: che non molti anni poi fece tanti miracoli, che la loggia stette gran tempo piena d'imagini, e che ancora oggi è in grandissima venerazione/ Finalmente, nella cappella di messer Eidolfo de' Bardi, che ë in Santa Croce, dove Giotto dipinse la vita di San Francesco, fece, nella tavola delf altare^ a tempera nn Crocifisso e una Maddalena ed un San Giovanni che piangono, con due Frati da ogni banda che gli mettono in mezzo.® Passò Ugolino da questa vita, essendo vecchio, I'anno 1349,'' e fu sepolto in Siena, sua patria, orrevolmente. •divisioni della predella, corrispondenti ai quadri principali, esistono intere; e contengono alcune storie della vita di Cristo, dalla Cena fino alla Resurrezione, le quali distinguons! per bellezza ed espressione di concetti. L'antica maniera bizantina predomina nei san ti: le teste sono bislunghe, gli occhi ben disegnati e bene aperti, i nasi lunghi e curvi in punta, le bocche di un taglio fine ed acuto, i corpi tesi, le braccia secche, le dita lunghe e magre, e le pieghe dei panni eccellentemente disposte e molto risentite. Negli angeli, al contrario, come pure nelle figure della predella, le forme sono più perfette, i moviment! piú liber! e più drammatici ; e però vi si scopre più stretta parentela colla maniera di Simone Martini. Nè son già trattati con le colle tenaci e scure de'Bizantim, ma invece seconde la maniera a tempra usata da Giotto : cioè col tuorlo d'uovo e la colla di carta pécora, conducendovi prima sopra uno strate di terra verde. Il fondo è generalmente derate. Trovas! pure, sotte il compartimento di riiezzo della predella, un regoletto con Tiscrizione in lettere majuscole gotiche, simile a quella citata dal Della Valle : Ugolinus de Senis me pimxit ». i Tre pezzi di questa tavela cogli Apostoli, due figure di santi, e se! storiette della predella, eccetto quella del mezzo con Maria Vergine e il Divin Figliuolo, passarono poi nella raccolta Fuller Russell presse Enfield in Inghil- terra. Due mezze figure de'santi Andrea e Bartolommeo apostoli, che facevano parte delle cuspid! della tavela, sono posseduti dal signer Davenport Bromley. Tra le opere di Ugolino, il Cavalcaselle propende a credere che si debba an- noverare, sebbene non registrata dal Vasari, una tavela con Maria Vergine e quattro santi, che ha nelle cuspid! il Salvatore benedicente tra quattro angeli, la quale è nella raccolta Ramboux a Colonia sotte i numeri 31-37. ' Fu poi tolta anche di là, per dar luego ad un'altra d'Alessandro Allori. Di essa nen ci è riuscito rinvenir traccia. ^ *Cioè Arnolfo, come nella Vita di questo artefice ha dette lo stesso Vasari. ' *Questa tavela d'Ugolino non saprebbesi dire ove sia stata trasferita; se pure non è perduta. ' *Secondo il Baldinucci, e seconde il Vasari nella prima edizione, Ugolino sarebbe morte nel 1339. 456 STEFANO FIORENTINO E UGOLINO SANESE Ma, tornando a Stefano, il quale dicono che fu anco huono architettore, e quello che se n' è dette di sopra ne fa fede ; egli mori, per quanto si dice, Tanne che ce- minciò il giubbileo del 1350, d'etk d'anni quarantanove, e fu riposte in San Spirito nella sepoltura dei suoi mag- giori con questo epitaffio: Stephano Florentino pictori, {in) faciundis imaginihus ac colorandis figuris nulli miquam in- ^ feriori; affines moestiss. pos. Vix. an. xxxxix. * Nella prima edizione dalle Vite, ove qualla d'Ugolino è a parte, si legge di lui pure un epitaffio, che dice cosi : Pictor divinas jacet hoc sub saxo Ugolinus, Cui Deus eternam tribuat vitamque supernam. Quest'epitaffio può credersi del tempo d'Ugolino; quello di Stefano è chiara- mente di tempo assai posteriora. ALBERO Gra ziano DELLÀ FAMIGLIA dl UGOLINO SANESE Mino GUIDO Güarnirri pittore pittore 1289-1321 detto Neri 1278-1302 dipinse pittore autora la Madonna con varj santi delia Madonna nel Palazzo Pubblico in San Domenico di Siena di Siena Guido Giacomuccio pittore detto Mucoio UGOLINO Bartolommeo nel 1321 inatricolato pittore pittore detto Meo air arte in Firenze Pia Niccoluccio Conte pittore sua Pieïro Cecoo nioglie Palmiera nel 1319 dipinge Becca di Tone la tavola delia chiesa Neri di Montelabbata i 1340 ora nella Pinacoteca di Perugia COMMENTARIO 459 alla Vita di Stefano fiorentino e d'Ug OLINO sanese J)ella tamla di Nostra Donna nel tahernacolo d! Or San Michele Nella storia de' primi tempi dell' arte risorta restaño ancora alcuni punti dnbbj e controversi; i più de'quali, sebbene abbiano in se non leggera difficoltà, si pub nondimeno sperare che un giorno saranno pie- namente chiariti e risoluti. Tra questi non ultimo ne meno importante crediamo essore quelle che riguarda il vero autore delia bellissima tavola di Nostra Donna nel celebre tabernacolo d'Or San Michele di Firenze; essendocliQ interno a questo i giudizi e le opinioni de' più solenni critici sieno tuttavia divise o discordi. 11 qual punto avendo noi preso ad esaminare, con quella maggior di- ligenza e studio che ei è state possibile; pare a noi, o c'inganniamo, di esser pervenuti a sgomberarlo da ogni sua dubbiezza, e conseguentemente a risolverlo, seconde il vero. Dobbiamo però confessaré, che non saremmo giunti giammai a questo eífetto, se non fossimo stati in gran parte ajutati dalla testimonianza di documenti contemporanei, sconosciuti fino ad ora a tutti qualli che delia detta tavola e del suo autore hanno di proj)Osito, o per occasione, discorso. Ed entrando senza più nell'argomento, diremo, che il Villani narra sotto r anno 1292, che « a di 3 del mese di luglio si comincib a mostrare « grandi ed aperti miracoli per una figura dipinta di Santa Maria in un « pilastre delia loggia d'Orto San Michele ». La espressione del cronista, in un pilastra, diede luego in prima a disputare, se quella pittura fosse eulmuro, o non piuttosto in tavola. Poi venne l'altra questione, se quella 460 COMMENTAEIO ALLA VITA immagine di Nostra Donna, in tavola o sul muro, fosse la stessa che il Vasari dice dipinta da Ugolino da Siena; ed in fine, se la bellissima ta- vola che presentemente si vede nel tabernp'·o^o d'Or San Michèle, sia quella medesima, del maestro senese. Quanto alla prima quistione, è certo che le parole del Villani, una figura dipinta in un pilastro, non essendo bastantemente chiare, danno luogo ad intenderle in due modi diversi; cioè, che la immagine di Nostra Donna fosse dipinta sul pilastro, oppure in una tavola appiccata ad esso. Nondimeno, al contrario di quello che altri giudicano, noi siamo di opi- nione, che il cronista abbia parlato d'una pittura in tavola, e che non altrimenti si debba interpretare quella sua espressione. II che è confermato dalla rubrica 14 de' Capitoli delia Compagnia di Santa Maria in Or San Mi- chele, compilat! nel 1297 ; dove si legge essere ordinate, affinchè la ta- vola colla figura di Nostra Donna non s'impolveri, ne si guasti per ca- giane del mercato del grano e per altre cose che si fanno sotto la loggia, e perché si conservi nella sua bellezza; che essa stia coperta, e non si discopra se non il sabato dopo il mercato, e stia discoperta per tutta la domeniea; e che per le feste solenni, in cui non si fa mercato, non si scopra ne si mostri senza torch! accès!. Quando dunque pochi anni dopo il 1292 noi troviamo ricordata in quel medesimo luogo una tavola di grande bellezza, e tenuta in molta venerazione, non si puo dubitare che essa tavola, e la figura di Nostra Donna dipinta in un pilastro delia loggia, come dice il Yillani, non sieno che una sola e medesima cosa. Eispetto air altra quistione, se fosse d'Ugolino da Siena la figurad!- pinta in un pilastro dell' antica loggia ; noi la ragioniamo cosí. Quando il furioso incendio destato da Neri degli Abati arse nel 1304 la loggia, è ragionevole il credere che non toccasse sorte diversa anche alla pittura nominata dal Villani e nel detto libro de' Capitoli della Compagnia d' Or San Michele; la quale, come è detto, era in tavola e non sul muro; e che dopo queiraccidente, rifatta la loggia, o almeno in gran parte rae- concia, se ne dipingesse una nuova, la cui forma si vede espressa nella bellissima miniatura d'un libro intitolato II Biadaiuólo, che appartenne gik ai marchesi Tempi, ed ora, per legato dell' ultimo maschio di quella casa, si conserva nella Mediceo-Laurenziana. Questo libro in foglio di pergamena, nel quale un Domenico Lenzi biadaiuolo registra di mano in mano i prezzi del grano e delle biade in Firenze negli anni di carestia, e racconta i tumult! che avvennero nella cittk e in altri luoghi di Toscana per quella cagione, comincia dai j)rimi anni del 1800, e per essere mutilate in fine, arriva solamente al 1385: ma non doveva andaré che poco più innanzi, e forse fino al 39, o al 40. Esso DI STEFANO FIORENTINO E D' UGOLINO SANESE 461 è ornato di alcune assai grandi e belle miniature allusive ai fatti che si narrano. Nell'ultima miniatura che piglia le faccie di due carte, è rap- preséntate un tumulto avvenuto nel settembre del 1329 sulla piazza d' Or San Michèle, dove si vendeva il grano. Si vede nella carta, a sinistra di chi guarda, il prospetto délia piazza suddetta e il Potestà che coi suoi berrovieri corre a sedare quel tumulto. Alcuni uomini sono presi, e ad un poveretto è tagliato il capo sul ceppo. Da un lato è un tabernacolo di marmo, dentrovi una tavela colla figura in mezzo di Nostra Donna seduta in trono, che tiene sulle ginocchia il sue divin Figliuolo. Ai lati del trono, sono tre angeli per parte: i primi quattro in piedi ed adoranti, vestiti di tuniche azzurre e di mantelli rossi; e gli ultimi due colla veste verde, ed inginocchiati. Figurando questa miniatura, come noipensiamo, la proijria forma delia tavela d' Or San Michèle rifatta dopo l'incendio del 1804, noi non siamo lontani dal tenere che Y autore di essa tavela sia state maestro Ugolino senese. La terza ed ultima questione e mossa da colore che nel trattare la storia dell'arte si lasciano guidare più dall'autorita altrui, che dal pro- prie senne e giudizio. Ma non b uomo alcun poco infórmate delle diverse pratiche e maniere che furono seconde i tempi nell' arte italiana, il quale possa restar dubbio o sospeso un momento nel risolvere, che la tavela che al presente si vede nel tabernacolo d' Or San Michele non sia giammai da riputarsi della mano di maestro Ugolino di Neri, nato interno al 1260, nè pittura de'suoi tempi. Imperciocchè, mentre sappiamo che il pittore senese fu tenacissimo della vecchia maniera bizantina, non estante la nueva luce j)ortata nell'arte da Giotto; noi vediamo in quella tavela una maraviglia di grazia e di espressione, una grandiosità di stile straor- dinaria, ed una esecuzione squisitissima : qualith tutte che dichiarano quel- r opera essere stata fatta da un maestro vissuto interno alia metà del se- colo XIV, il quale deriva in parte dalla scuola giottesca, ed in parte segue altre tradizioni. Oltre a ciò, se la già descritta miniatura del códice Laurenziano rap- presenta la propria forma della tavela che nel 1829 era nella loggia, e che noi crediamo essere quella stessa stata dipinta da Ugolino da Siena ; sono notabili le difi'erenze di composizione che passano tra quella e l'altra che oggi si vede nel tabernacolo; imperciocchè diverso era nell'antica il colore delle vesti; il bambino Gesù sedeva sulle ginocchia della Madre, e sei erano gli angeli, tutti di figura intiera; mentre nella presente la Vergine tiene in braccio il suo divin Figliuolo, e ai lati del trono stanno otto angeli di men che mezza figura. Ma se interno alla stupenda bellezza della tavela che ora sta dentro il tabernacolo d'Or San Michele, il giudizio de'più intendenti è state 462 COMMENTARIO ALLA VITA fino ad oggi concorde, non cosí si può dire qnanto ail'assegnarne l'antore. Già il Lanzi senza un dnbbio al mondo l'affermò di maestro Ugolino. 11 Rnmobr nel volume 11 delle sue Ricerche Ifaliane, pag. 25 in nota, dice: « Del senese Ugolino, il quale deve essere state circa questo tempo, « io non bo tróvate nulla di certo. Se la divota immagine d'Or San Mi- « chele in Firenze è délia sua mano, come afferma il Vasari, egli appar- « tiene ai migliori maestri cbe furono contemporanei di Cimabue ». Nella prima nostra edizione del Vasari avendo pigliato ad esaminare questa me- desima cosa in un Commentario alla Vita di Stefano fiorentino e di Ugo- line senese, mentre riconoscemmo in quella tavela « una deîle più mi- « rabili produzioni dell'arte ringiovanita, fatta più corretta e gentile », nella quale alla « grazia e dolcezza indescrivibile di espressione, alla bel- « lezza delle teste è accompagnato un magistère di disegno, specialmente « in quella del Divino Infante e nella mano destra delia Madonna, ve- « ramente mirabile », e non dubitammo di riporre quell'opera « tra quanto « di più bello la pittura produsse mai fino alla metà del secóle xiv » ; dicemmo poi francamente, che non vi si potevano ravvisare ne il fare d'un ostinato seguace délia maniera de'Greci, ne il carattere delle cose degli ultimi anni del dugento; lasciando allora irresoluta la questione, se di quella tavela possa essere autore il maestro senese. I signori Crowe e Cavalcaselle nella loro bella opera, già da noi più volte citata, intitolata A neto history of painting in Italy, vol. 11, p. 55, credono di scorgere in questa, detta da lore, colossale Madonna, il carat- tere delia fine del secolo siv ed in qualche j)arte la maniera senese; e tengono per molto probabile che essa sia stata dipinta da Lorenzo Monaco, piuttosto che da Ugolino. II pregiato e compianto nostro amico cav. Luigi Passerini, nel suo scritto sulla Loggia d'Or San Michèle,' credette che l'autore di quella tavela fosse invece Andrea Orcagna. Ed egli fu tratto a cosi opinare da un documento del 1352 comunicatogli da noi, e riferito da lui per intiero;. nel quale è la confessione finale del pagamento fatto al dette artista delia tavela di Nostra Donna dipinta per la Compagnia d' Or San Michèle. Ma noi dobbiamo. confessaré che in questo c'ingannammo, e insieme con noi e per cagione nostra s' inganno il suddetto cavaliere ; perche avendo meglio esaminata la cosa, ora siamo chiari che questa ultima tavela fu dipinta, dair Orcagna per la sala dell' Udienza de' Capitani della detta Compagnia e non per il tabernacolo. * Vedi Curiosità storico-artistiche florentine-, scritti del cav. Luigi Passe- rini (Firenze, Jouhaud; 1866 ). DI STEFANO FIORENTINO E D' UGOLINO SANESE 463 II sig. barone Ettore de'Garriod, persona assai nota per la rara intel- ligenza e sentimento dell'arte, sarebbe volentieri disposto a credere che aútore di quella Madonna fosse stato il celebre Simone da Siena; ma poi dubita, se pinttosto non debba attribnirsi all'Orcagna; parendogli poco verisimile, che i capitani d'Or San Michele, dopo avergli dato a fare il lavoro del prezioso tabernacolo, commettessero ad altri la esecuzione della sua tavola. Ricercando notizie di cose d' arte nell' archivio de' Capitani della Com- pagnia suddetta, oggi riunito al Centrale di Stato in Firenze, ci venne alie mani un libro cartaceo in-8°, di molti fogli, nel quale è il registro delle elemosine fatte dalla Compagnia alie povere persone della citta ; quando verso la fine del libro, dove comincia la nota somniaria delle spese, ci abbattemmo a leggere sotto il di primo di maggio 1346 la seguente partita : « A Bernardo Daddi dipintore che dipigne la tavola di Nostra Donna ; « in prestanza per la detta dipintura, fiorini quattro d'oro ». Parimente in un altro libro segnato di n° 245, trovammo, sotto il- di 16 di giugno 1847, quest'altra partita: « A Bernardo di Daddo dipintore per parte di pagamento de la dipin- « tura de la tavola nuova di Nostra Donna , fiorini quattro d'oro ». Duolci che interno a questa tavola, ed ai pagamenti fatti al pittore, nient'altro, per quanta diligenza vi abbiamo usato, ci sia riuscito di tro- vare tra i libri di quell'archivio. Nè questa h cosa da far meravigliare coloro, i quali per ricerche e studj eruditi hanno avuto occasione di ma- neggiare gli archivi cosí pubblici, come privati; sapendo essi che nella parte antica, qual più qual meno, i detti archivi sono stati quasi tutti manomessi e saccheggiati. Nondimeno queste poche memorie che ne abbiamo tratte fuori per la prima volta, del cui significato non può nascere nessun dubbio, tanto esse sono chiare e precise, ci paiono bastanti a pro vare che 1'autora fino ad ora ignoto della stupenda tavola del tabernacolo d'Orsanmichele non possa essere altri che Bernardo Daddi pittore fiorentino. Interno al quale ed alie sue opere, avendo raccolto quelle maggiori notizie che ci è stato possibile, crediamo che non sia fuori di luego di riferirle in questa occa- sione, perchb di lui fino a' nostri giorni ha paríate la storia assai scarsamente e non senza errori di fatto e di giudizio. 464 COMMENTARIO ALLA VITA Il nostro Bernardo, adunque, nato negli ultimi anni del secolo xiii, fu figliuolo d'un Daddo di Simone, il quale abbiamo qualche ragione di credere die venisse in Firenze da un luogo di Mugello cliiamato il Scdto. Egli abito dapprima nel popolo di San Lorenzo, e poi torno nel 1333 in una casa delia via Larga cbe aveva comperata da madonna Chiara, moglie di Lapo di Guccio, pittore. II Vasari lo ricorda brevemente nella vita di lacopo di Casentino, lo- dandone le moite belle opere di pittura, e dicendolo molto onorato da'suoi cittadini che I'adoperarono ne'magistrati e in altri negozi pubblici. De'ma- gistrati non sappiamo altro, se non che egli fu nel 1347 de'Consoli del- Tarte de'Medici e Speziali, alla quale erano sottoposti i pittori. Delle opere diremo più innanzi. La più antica memoria del Daddi è del 1320, leggendosi scritto in quest'anno nella matricola de'Medici e Speziali. Si trovo nel 1349 alla fondazione délia Compagnia de'Pittori di Firenze, e fu uno de'primi suoi consiglieri. Il Vasari, contro ogni verosimiglianza, lo dice scolare di Spinello aretino; mentre sarebbe più ragionevole dirlo suo maestro. Chi veramente gli diede 1 principj dell'arte e l'avviò alla pittura fu Giotto, come si vede nelle sue opere, e testimoniano le antiche memorie. Mori Bernardo sui finiré del 1350, e non del 1380, come afferma il Biógrafo aretino, perche dopo quell'anno non si trova mai più ricordato. Vero è che nel registro de'pittori délia Compagnia suddetta, appresso al nome del Daddi è Tanno 1355; ma questo è un errore che si ha da correggere col 1350. Corne potrebbe essere, infatti, che chi era stato del Consiglio délia Compagnia, fosse solamente nel 1355 ascritto a quella? Di più nel libro delT Estimo del 1351 Bernardo non apparisce; mentre vi è Daddo suo figliuolo, che fu pittore e si matricolù all'arte nel 1358. Dal quai Daddo nacque Simone, scultore ed architetto, che da Giovanna di Mazzuolo di Ugolino sua moglie ebbe Segna e Bertino ; T uno maritato ad una Zenobia nel 1379, e Taltro ad una Niccolosa nel 1383. Ed in loro fini, per quanto crediamo, la discendenza di Bernardo. Questi sono i pochi particolari che siam riusciti a raccogliere interno alia persona sua. Maggiori ragguagli invece abbiamo delle sue opere, al- cune delle quali, sebbene in gran parte guaste dal tempo, o sformate dai pessimi ritocchi, sono per fortuna avanzate alia grande rovina e sperpero che per il corso di tre secoli ebbero a patire tutte le cose della nostra arte antica. Per testimonianza del Vasari dipinse Bernardo sopra le porte della citta di Firenze. Poche e guaste reliquie di pitture erano sulla porta a Pinti ( oggi demolita ), altre ne restaño ancora su quella di San Niccolò e su Taltra di San Giorgio; ed in quest'ultima è, meno rovinata delle altre, una Nostra Donna con il bambino Gesù in braccio, ed ai lati san Gior- DI STEFANO FIORENTINO E D' UGOLINO SANESE 465 gio e san Lionardo. In basso, a fatica visi legge un millésime, cbe pare dica Mcccxxx. Che queste pitture sieno j)roprio del Daddi, non neghiamo nb afiermiamo ; solamente è bene notare, che, quanto alla porta a San Gallo, Jacopo Nucci pittore vi fece nel 1322 alcune figure pel prezzo di sette fiorini d'oro. L'altra opera ricordata dal Biógrafo sono i freschi delle storie di san Lorenzo e di santo Stefano nella cappella Berardi in Santa Groce. I signori Crowe e Cavalcaselle, nella citata opera, dicono che quelle pit- ture scoprono la debolezza d'un artista di bassa sfera, ma che non ignora bensi le leggi della composizione, che erano note anche ai più infimi giot- teschi. Questo loro giudizio apparisce da un lato troppo severo, e dal- l'altro non in tutto vero. II che nasce da due cagioni: la prima, che essi non essendo ben chiari interno alia persona ed alia eth del Daddi, lo scarabiano talvolta, come fa il Vasari, col fratello deH'Orcagna; il quale non Bernardo, ma Nardo, abbreviate da Lionardo, fu sempre per proprio nome appellate; secondochè mostrano apertamente tutte le me- morie antiche, cosi latine come volgari, che parlano di lui. L'altra è, che hanno creduto essere due artisti diversi Bernardo Daddi e Bernardo da Firenze, com' b scritto in alcune tavole. Ora, il loro giudizio non poteva riuscire, sotte queste condizioni, che mal sicuro e discorde. Cosi mentre, come si b veduto, fanno poca stima de'freschi di Santa Croce, tanto malconci dal tempo e dai ritocchi; lodano, e meritamente, la tavela della Crocifissione, che fu già nella chiesa di San Giorgio a Ruballa, ed oggi si trova in Inghilterra ; nella quale il pittore pose questa iscrizione : Anno dñi mcccxlviii Bernardus pinxit me QUEM FLORENTIA FINXIT ; non accorgendosi che questo Bernardo da loro lodato per quella tavela b le stesso Daddi già chiamato artefice di bassa sfera nelle pitture di Santa Croce. Il Rumohr credette che l'autore di essa tavela fosse un Bernardo di Fiero, il quale nel 1866 intervenne insieme coh altri a con- sigliare interne alla nueva fabbrica di Santa Reparata. Ma egli s'ingannò ; perchb questo artefice ebbe parte in quel consiglio non corne pittore, chb non era sua arte, ma si come maestro di pietia. Due altre tavole di Ber- nardo si veggono in Firenze: l'una. in Ognissanti, la quale dalla sagrestia fu portata in una stanza del chiostro : ed b un dessale divise in tre corn- partimenti. In quel di mezzo b la Madonna col bambine Gesù; in quelli da lato b a destra san Matteo apostelo, e san Niccolò vescovo a sinistra. Vasari — , Opere. Vol. I. 30 466 COMMENTARIO ALLA VITA Queste sono tnfcte mezze figure e d'un terzo minori del vero. Sotto vi si legge : ANO • DÑi . M . C . C . C . XXVIII • FR • NICHOLAUS . DE • MAZINGHIS • DE . CANPI . ME • FIERI . FECIT . P - REMEDIO • ANIME • MATEIS . ET . FRATVM (SÏC) BERNARDVS DE FLOBENTIA ME PINXIT. L'altra, conservata nella Galleria dell" Accademia delle Belle Arti di Fi- renze, è la parte di mezzo assai guasta d'un piccolo trittico con Maria Vergine in trono e due santi ai lati. Sotto il trono è a lettere d'ora questa iscrizione : NOMINE BERNARDUS DE FLORENTIA PINXIT OP e nello zoccolo : ANNO mi' M . CCC . XXXII. ... Nel Catalogo di quella Galleria questo avanzo di trittico è detto erro- neamente di Bernardo Orcagna. Fra le oxiere che noi crediamo del Daddi, sebbene non abbiano scritto il suo nome, non sono da pretermettere le due preziosissime tavolette che pos- siede la Galleria dell'Istituto di Belle Arti in Siena. Nella prima, che e un tabernacoletto o piccolo trittico, notato nel Catalogo del 1860 sotto il numero 45 e detto d'ignoto, e nel mezzo Maria Vergine seduta in trono col Divin Figliuolo in braccio, e circondata da vaij santi e santé che l'adorano. Figure tutte di squisita esecuzione, e di una maravigliosa bellezza. Negli sportelli è la Natività di Gesù Cristo, la sua Crocifissione, e due storiette d'argomento ignoto, forse délia vita di san Niccolò. NellO zoccolo è scritto : ANNO DOMINI . M . CCC . XXXVI. Questo trittico è benissimo conservato. La seconda, parimente detta di ignoto, e segnata col numero 46, b la sola parte di mezzo d'un trittico, con Nostra Donna e Gesù bambino, a cui fanno corona varj santi e santé in atto d'adorazione. Ha patito assai, ma è di pari, se non di maggiore bellezza délia prima. Era un tempo nell'antica Cappella dell' Udienza del palazzo pubblico in Firenze una tavela con san Bernardo in atto di scrivere, a cui appa- risce in alto Maria Vergine. Questa tavela, che non si saprebbe dire se oggi esista ancora, ne dove, fu ordinate, con deliberazione de'17 d'ago- DI STEFANO FIORENTINO E D' UGOLINO SANESE 467 sto 1432, che si nettasse e riattasse nel suo ornamento colla spesa di trentanove fiorini d'oro. L'Inventario compilato nel medesimo anno dice a questo proposito cosí : « Ancora e sopradetti Signori feciono nettare e « ripulire la tavola, predella e cappella dell'altare di San Bernardo, la « quale era tutta affummicata e ñera per lo fummo degl' incensi e dell' es- € sere stata grandissime tempo non procurata: la quale trovano fu di- « pinta nel 1335 per maestro Bernardo dipintwe, il quale fu discepolo di « Giotto ». Nel Rapporte» interno al ritratto di Dante, pubblicato nel 1865, fu da noi dette, "a proposito delle pittmre segnate col neme di Bernardo da Firenze, che esse potevano tenersi di mano del nostre Daddi: e fu get- tato un motto, cosi per via di congettura, che di lui si potessero credere ancora alcune opere che il Vasari attribuisce all'Orcagna e al suo fra- telle. Queste opere sono i freschi del Trionfo della Morte, del Giudizio e deir Inferno nel Camposanto di Pisa. I nominati signori Crowe e Ca- valcaselle, i quali hanno discorso con gran diligenza ed esaminato con critica nueva e dotta le pitture di quel luego, stimano che quelle asse- guate ai fratelli Orcagna sieno di maestro in tutto diverso ; trovando nel- l'esecuzione loro, non solo dissomiglianza dalle pitture della cappella Strozzi in Santa Maria Novella, ma ancora varieta grande dalla scuola florentina ne'tipi, nelle forme e nella espressione. Aífermano di più, che esse sono tutte d'una mano, e d'une stile più senese che florentino; e che se ad un artefîce si dovessero assegnare, si farebbe con più ragione a Pietro Lorenzetti o al fratel sue Ambrogio. Mentre noi ci ^ccordiamo volentieri coU'opinione loro di non ricono- ' scere per opera degli Orcagna quelle pitture; siamo poi di contrario av- ; vise rispetto al più probabile loro autore. Ai ternpi del Vasari doveva essere ancor viva la tradizione che nel Camposanto di Pisa avessero lavo- rato fra gli altri un Andrea ed un Bernardo, pittori florentini. Questi due nomi bastarono a lui per comporvi sopra una delle sue solite favolette. Egli dunque la ragionò cosi : un pittore di que' tempi di neme Andrea fu rOrcagna; dunque quelle pitture sono sue senza dubbio. L'Orcagna ebbe un fratello, veramente chiamato Nardo dal Ghiberti, ma Nardo non è che un'abbreviatura di Bernardo; dunque chi dipinse nel Camposanto fu il fratello dell' Orcagna ; tanto più che quivi egli ha ripetuto il me- desimo soggetto dell'Inferno, che aveva trattato nella cappella degli Strozzi. Ma oggi è manifesto che persona diversa dall'Orcagna fu quel mae- stro Andrea da Firenze, il quale nel 1877 dipinse nel Camposanto le ' Vedilo citato nella parte prima del Commentario alia Vita di Giotto. 468 COMMENTARIO ALLA VITA storie dl san Ranieri attribuite dal Yasari a Simone da,Siena; sebbene resti difficile I'assegnare quale egli sia de'molti pittori del medesimo nome cbe furono allora in Firenze. Rispetto alTaltro pittore cliiamato Bernardo, non potendosi mai scambiare con Nardo fratello dell'Orcagna, è per noi certo che debba riconoscersi in lui il nostro Daddi; fuori del quale è impossibile di trovare in Firenze per tutto il secolo xiv un altro pittore di questo nome : e che perciò del Daddi e non del fratello dell' Orcagna sieno le dette pitture del Camposanto, cioè il Trionfo delia Morte, il Giu- dizio e r Inferno. Ed in questa opinione ci conforta ancora quel che dice ranónimo autore d'un libro in penna, gia veduto dal Baldinucci, che si conserva nella Magliabechiana tra i codici Gaddiani, sotto il numero 17 delia classe xvii. Questo libro è diviso in due parti: nella prima, che si stende per 37 carte, sono raccolte sotto grande brevità le notizie de' più illustri artefici dell'antichith; e nell'altra, che comincia a carte 48 {verso), quelle degli artefici fiorentini da Cimabue a Michelangelo. Si vede bene che il libro non è che un primo abbozzo e come la preparazione d'un' opera che intomo a questo argomento intendeva di scrivere l'autore; il quale tenue per ció innanzi un più antico esemplare, ch'egli chiama l'Originale, e toise moite cose da un altro libro appartenuto ad un Antonio Billi che visse sul finiré del 1400. Trovandovisi varj particolari che non si leggono nel Vasari, o sono diversi, circa la persona e le opere degli artefici, è naturale il credere che il libro sia stato compilato innanzi alla stampa delle Vite, e con materiali in parte differenti. Ora in esso a carte 48 {verso) si legge: « Bernardo fu discepolo di Giotto et operó assai in Firenze et in altri luoghi. In Pisa dipinse la chiesa di San Paojo a Ripa d'Arno « « et in Campo santo lo Inferno ». Le quali parole, per le ragioni dette di sopra, non si possono riferire ad altri che al Daddi, che sarebbe non solo rautore delle pitture del Camposanto attribuite all'Orcagna, ma anche di quelle di San Paolo a Ripa d'Arno, che il Vasari dù in parte a Buffalmacco ed in parte a Giovanni da Ponte. Quanto Bernardo fosse valente nell'arte sua, si mostra appieno dalle opere che di lui rimangono, e tra queste dovrà da qui innanzi annoverarsi come principalissima la stupenda tavola del tabernacolo d'Or San Michèle. Ed in che stima fosse egli appresso i suoi contemporanei si puó ancora raccogliere da quel che si legge nella Novella 186 del Sacchetti, dove varj artisti, come maestro Alberto Arnoldi, l'Orcagna e Taddeo Gaddi, sono introdotti a disputare quale sia stato il maggior maestro di dipin- gere da Giotto in fuori. Ed essi dicono, chi Cimabue, chi Stefano, chi Bernardo, chi Buffalmacco, e chi altri. Ora, a noi pare chiaiissimo, che il maestro Bernardo quivi nominato come terzo in ischiera tra i migliori pittori che furono dopo Giotto, sia sicuramente il nostro Daddi. Nelle cui DI STEFANO FIORENTINO E D' UGOLINO SANESE 469 opere infatti, cosi in tavela, come in muro, si vede nna grandiosità di stile straordinaria, nna continua ricerca della forma mediante lo studio del vero, nn coloriré pieno di forza ed insieme di vaghezza, ed una di- ligenza estrema di esecuzione fino nelle minuzie. Oltre a ció è precipua sua qualita un sentimento sevéro ne' volti viriU, ed una espressione di soavissima grazia e di celestiale bellezza nelle teste delle Vergini, degli angeli e delle sante. In somma egli apparisce maestro tanto eccellente, che pochi pittori del suo tempo possono venirgli al paragone, e che da nessuno egli è superato. Spesse volte è accaduto che uomini in grande riputazione appresso i contemporanei sieno stati poi con miglior giudizio condannati dalla po- sterità. ad un perj)etuo oblio; come pure non è stato raro il caso che altri uomini, il cui nome per giuoco della fortuna era rimaste da lunga pezza quasi sotterrato, sieno stati sottratti all'ingiusta dimenticanza, ed alia fama che meritavano restituiti. Tra coloro che ancora aspettano dalla giustizia degli uomini e del tempo questa riparazione, la storia dovrà registrare Bernardo Daddi, pit- tore fiorentino della prima metà, del secóle xiv; le cui opere, allorquando saranno meglio conosciute e studiate, basteranno senza dubbio ad asse- gnargli un luego onoratissimo tra i migliori artefici di quella età. PIETEO LAUEATI 471 fittore sanese ( Nato ; morte circa il 1350 ) Pietro Laurati/ eccellente pittore sánese, provo vi- vendo quanto gran contento sia quello dei veramente virtuosi, che sentono T opere loro essere nella patria e fuori in pregio, e che si veggiono essere da tutti gli uomini desiderati: perciocche nel corso della vita sua fu per tutta Toscana chiamato e carezzato, avendolo fatto conoscere primieramente le storie che dipinse a fresco nella Scala, spedale di Siena;® nelle quali imitó di sorte * *Di Pietro, che fu figliuolo di Lorenzo o Lorenzetto, il primo ricordo come pittore è del 1305. II Della Valle ere dette che fosse il minore de'due Lorenzetti: ma noi opiniamo il contrario, perché Ambrogio si trova nominato nel 1323 per la prima volta; e perché nella iscrizione che un tempo era nell'alfresco fatto da essi nella facciata dello Spedale di Siena, il nome di Pietro stava avanti a quello del fratello. ^ *Le fece insieme con Ambrogio suo fratello. Esse furono guaste nel 1720, quando fu tolta la tettoja che le riparava dalle intemperie, e fu riscialbata la mu- raglia. L'Ugurgieri {Pompe Senesi) é il primo che ci ha conservato questa iscri- zione : hoc opvs fecit Petrvs Lavrentii et Ambrosivs eivs frater. mcccxxxv. Nella sagrestia del Duomo senese si vede la tavola della Nativitá di Nostra Donna, già citata dal ms. di Alfonso Landi e dal Della Valle: tavola molto pre- ziosa, si perché ci fa conoscere il mérito veramente grande di Pietro di Lorenzo, come ancora perché é Túnica opera certa che di lui sia rimasta in Siena. In •essa é scritto: Petrvs Lavrentu de Senis me pinxit anno mcccxlii. 472 PIETRO LAURATI la maniera di Giotto divulgata per tutta Toscana,^ che si credette a gran ragione che dovesse, come poi av- venne, divenire miglior maestro che Cimabue e Giotto e gli altri stati non erano. Perciocche, nolle figure® che rappresentano la Vergine quando ella saglie i gradi del tempio, accompagnata da Giovacchino e da Anna e ri- cevuta dal sacerdote, e poi lo Sponsalizio, sono con hel- r ornamento cosi ben panneggiate e ne'loro abiti sem- plicemente avvolte, ch'elle dimostrano neH'arie delle teste maesta, e nella disposizione delle figure bellissima maniera.® Mediante dunqne questa opera, la quale fu principio d'introdurre in Siena il buon modo delia pit- tura, facendo lume a tanti belli ingegni che in quella patria sono in ogni eth fioriti;^ fu chiamato Pietro a Monte Oliveto di Chiusuri, dove dipinse una tavola a tempera, che oggi è posta nel Paradiso sotto la chiesa.® In Fiorenza poi dipinse, dirimpetto alia porta sinistra della chiesa di Santo Spirito, in sul canto dove oggi sta * * Pietro, che certamente ebbe i principj dell'arte nella sua patria, non imitó Giotto. Basta vedere le opere sue per riconoscervi un fare ed una pratica diversa. Pare a noi che risenta tanto della maniera di Duccio e di Segna, da credere che dall'uno de'due fosse indiriz^ato alla pittura. Il certo si è che am- bidue i Lorenzetti furono fratelli anche nell'arte; e le pitture di Pietro somigliano in moite parti a quelle di Ambrogio per modo, che un semplice confronto basta ad indurre in ciascun intelligente la persuasione di ció. ^ Affine di trovar sintassi in questo periodo, leggi: « perciocchè le figure». ® t Fra i freschi di Ambrogio Lorenzetti nel Gapitolo di San Francesco di Siena, tanto celebrati dal Ghiberti e dal Vasari,e stati fino a'nostri giorni co- perü dal bianco, i signori Crowe e Gavalcaselle vogliono riconoscere per opera di Pietro Lorenzetti, non ricordata dal Vasari, quella della Grocifissione, che essi lodano per grandissime sentimento ed energia. * t La lode di aver fatto avanzare l'arte della pittura in Siena non si deve in tutto attribuire a Pietro Lorenzetti e ad Ambrogio suo fratello. Vuole giu- stizia che grandissima parte di questa lode si riconosca meritare il vecchio Guido, autore della celebre tavola di Nostra Donna, in San Domenico, dipinta nel 1281 e non nel 1221, come è stato fino ad oggi creduto, e Duccio suo di- scepolo, e Segna e Simone Martini. (Vedi negli Scrtííz varj suW arte toscana di G. Milanesi, Siena, tip. Sordo-Muti, 1873, in-8, l'articolo intitolato Della vera età di Guido pittore senese e della celebre sua tavola in San Domenico di Siena)^ ® * Questa tavola è smarrita. PIETRO LAURATI 473 •un beccaio, un tabernacolo, che per la morbidezza delle teste e per la dolcezza che in esso si vede, mérita di essere sommamente da ogni intendente artefice lodato/ Da Fiorenza andato a Pisa, lavorò in Campo Santo, nella facciata che è accanto alia porta principale, tntta la vita de' Santi Padri, con si vivi affetti e con si belle attitn- dini, che, paragonando Griotto, ne riportò grandissima lode, avendo espresso in alcnne teste, col disegno e con i colori, tntta quella vivacità che poteva mostrare la maniera di que'tempi. ^ Da Pisa trasferitosi a Pistoia, fece in San Francesco, in una tavola a tempera, una Nostra Donna, con alcuni Angeli intorno molto bene accomodati; e nella predella che andava sotto questa ta- vola, in alcune storie, fece certe figure piccole tanto pronto e tanto vive, che in que'tempi fu cosa niaravi- gliosa: onde, sodisfacendo non meno a se che agli altri, voile porvi il nome suo con queste parole Petrus Lanrati de SenisP Essendo poi chiamato Pietro, l'anno 1355,* * Pittura, che a'di del Bottari avea molto sofferto, ed ora è aífatto perita. " *11 prof. Rosini ( Guida del Campo Santo ) inclina a credere che il gruppo di quei quattro monaci, i quali stanno presso ad una chiesetta occupât! in varie faccende, siano di Antonio Veneziano, essendo quelle figure alquanto diverse dalle altre. Il Lanzi chiama questa storia la piú ricca d'idee, la piú nuova, la piú hen pensata che forse si vegga in Campo Santo. Ma egli dà a questo dipinto le lodi che mérita piuttosto la tavoletta ch' è nella Gallería degli Uffizj ; sulla quale però il medesimo storico s'inganna dicendola copia o replica delCaíFresco pisano. Se ne faccia il riscontro, e vedrassi che queste pitture altro non hanno di comune che l'argomento: il quale, come si vede, non è concetto originale del nostre pittore, ma tutto imitato dalla bizantina esposizione e rappresentazione di que- sto soggetto. Un'altra tavoletta più simile nella composizione all'archetipo di Campo Santo era in casa Frosini a Pisa, ora in mano del pittore Rimedio Fezzi. ' * Questa tavola oggi si conserva in Firenze nella Gallería degli Uffizj ; man- cante però del gradino. Ma 1' iscrizione data dal Vasari non è nè intera nè esatta. Essa dice come segue : Petrvs • Lavrentii • de • senis • me • pinxit • anno • do- MINI ■ M • CGC ■ XL • Dall'aver letto male questa scritta venne I'errore del Va- sari di cognominar Laurati il nominato Pietro di Lorenzo ; e quindi il non aver conosciuto che questo pittore era fratello di Ambrogio Lorenzetti. *Qui 0 la stampa o il Vasari errano nell'assegnare al 1355 I'andata di Pietro ad Arezzo; giacchè dubitiamo che sia molto difficile il trovar memorie deir esser suo che giungano al 1350. Forse è da leggere 1345, nel qual anno fu arciprete delia pieve d'Arezzo un Guglielmo. 474 PIETEO LAURATI da messer Guglielmo arciprete e dagli opérai delia pieve d'Arezzo, che allora erano Margarito Boschi ed altri; in quella chiesa, stata molto innanzi condotta con migliore disegno e maniera che altra che fosse stata fatta in To- scana insino a quel tempo, ed ornata tutta di pietre qua- drate e d'intagli, come si è detto, di mano di Margaritone; dipinse a fresco la tribuna, e tutta la nicchia grande delia cappella delf altar maggiore, facendovi a fresco dodici sto- rie delia vita di Nostra Donna, con figure grandi quanto sono le naturali; e cominciando dalla cacciata di Giovac- chino^ del templo, fino alla Natività di Gesù Cristo. Nolle quali storie lavorate a fresco si riconoscono quasi le me- desime invenzioni, i lineamenti. Tarie delle teste, e Tat- titudini delle figure, che erano state proprie e particolari di Giotto suo maestro. E sebbene tutta questa opera ë bella, ë senza dubbio molto migliore che tutto il resto quello che dipinse nella volta di questa nicchia : perchë dove figuró la Nostra Donna andaré in cielo, oltre al far gli Apostoli di quattro braccia Tuno (nel che mostró gran- dezza d'animo, e fu primo a tentare di ringrandire la maniera), diede tanto bella aria alie teste e tanta va- ghezza ai vestimenti, che più non si sarebbe a que' tempi •potuto disiderare. Símilmente, nei volti d'un coro d'An- geli che volano in aria interno alia Madonna, e con leg- giadri movimenti bailando, fanno semblante di cantare, dipinse una letizia veramente angelica e divina; avendo massimamente fatto gli occhi degli Angelí, mentre suo- nano diversi istrumenti, tutti fissi e intenti in un altro coro d'Angelí, che, sostenuti da una nube in forma di mandorla, portano la Madonna in cielo, con belle atti- tudini, e da célesti archi tutti circondati.® La quale opera, perchë piacque, e meritamente, fu cagione che ^li fu data * In altre edizioni, ma erróneamente: nella cacciata di Zaccheria. ^ Queste pitture della tribuna e deila nicchia piú non esistono. PIETRO LAUBATI 475 a fare a tempera la tavola dell'altar maggiore della detta pieve: ^ dove, in cinque quadri, di figure grandi quanto il vivo fino al ginoccliio, fece la Nostra Donna col Fi- gliuolo in braccio, e San Giovanni Batista e San Matteo dall'uno de'lati, e dall'altro il Yangelista e San Donato, con molte figure piccole nella predella, e di sopra nel fornimento della tavola; tutte veramente belle e con- dotte con bonissima maniera. Questa tavola, avendo io rifatto tutto di nuovo a mie spese e di mia mano l'altar maggiore di detta pieve, e stata posta sopra 1'altar di San Cristofano a pie della chiesa.^ Nè voglio che mi paia fatica di dire in questo luogo, con questa occasione e non fuor di proposito, che mosso io da pietà cristiana e dair affezione che io porto a questa venerabil chlesa col- legiata ed antica ; e per avere io in quella apparato nella mia prima fanciullezza i primi documenti, e perche in essa sono le reliquie de'miei passati; che mosso ^ dico, da queste cagioni, e dal parermi che ella fusse quasi dere- litta, l'ho di maniera restaurata, che si può dire ch'ella sia da morte tomata a vita: perche, oltre all'averia il- luminata, essendo oscurissima, con avere accresciute le finestre che prima vi erano e fattone dell'altre; ho le- vato anco il coro, che, essendo dinanzi, occupava gran parte della chiesa, e, con molta soddisfazione di que'si- gnori canonici, postolo dietro 1'altare maggiore.® II quale ' -i Questa tavola fu allegata, pel prezzo di 160 lire pisane, a Pietro da Guido Tarlati vescovó d'Arezzo ai 17 d'aprile del 1320 con strumento regato da ser Astaldo di Baldinuccio notaio aretino. Restaurandosi a'nostri giorni la Pieve, questa tavola è stata provvisoriamente traspórtala in una sala del pa- lazzo municipale d'Arezzo. ® *La tavola esiste tuttora, appesa nella párete destra entrando; presse l'al- tare della Misericordia. Manca pei'ó il gradino, e con esso la iscrizione che di- ceva Petrus • Laurentii • hanc • pinxit • dextra • senensis , lettavi dal Rumohr (Ricerche italiane, tom. II): il quale però ebbe ragionevole sospetto che essa vi fosse scritta posteriormente. ® Fino al duodecimo secolo le chiese ebbero finestre strettissime simili a feritoje: ció che conferiva moltissimo al raccogiimento, e si accordava colla severitá e co' misteri del Cristianesimo. Avevano pure il coro dinanzi e non die- 476 PIETRO LAURATI altare nuevo, essendo isolate, nella tavela dinanzi ha un Cristo che chiama Pietre ed Andrea dalle reti; e dalla parte del coro è, in nn'altra tavela, San Giorgio che occide il serpente; dagli lati seno quattro quadri, ed in ciascuno d'essi due Santi, grandi quanto il naturale. So- pra, poi, e da basso nelle predelle, è una infinità d'altre figure, che per hrevita non si raccontano. L'ornamento di questo altare ë alto braccia tredici, e la predella alta braccia due. E perché dentro ë voto, e vi si va con una scala per uno uscetto di ferro molto bene accomodate; vi si serbano molte venerando reliquie, che di fuori si possono vedere per due grate che seno dalla parte di- nanzi: e fra faltare, vi ë la testa di San Donato, vescovo e protettore di quella citta; e in una cassa di mischio di braccia tre, la quale ho fatta fare di nuevo, seno l'ossa di quattro Santi. E la predella dell'altare, che a proporzione lo cinge tutto interno interno, ha dinanzi il tabernacolo, ovvero ciborio del Sacramento, di legname intagliato e tutto dórate, alto braccia tre in circa: il quale taberna- colo ë tutto tonde, e si vede cesi dalla parte del coro come dinanzi. E perchë non ho perdónate në a fatica në a spesa nessuna, parendomi esser tenuto a cosi fare in oner di Die; questa opera, per mio giudizio, ha tutti quegli ornamenti d'oro, d'intagli, di pitture, di marmi, di trevertini, di mischi e di porfidi e d'altre pietre, che per me si seno in quel luego potuti maggiori.^ Ma, tor- liando oramai a Pietre Laurati, finita la tavela, di cui si ë di sopra ragionato, lavero in San Piero di Koma molte cose, che poi seno state rovinate per fare la fabbrica tro Faltare, come si vede in alcune pochissime ; le quali, per non perdere af- fatto i visibili testimonj degli usi antichi, è bene che si conservino come stanno. * Tutte le cose qui descritte della pieve d'Arezzo sono tuttavia nello stato in cui il Vasari le pose o le lasciò, eccetto la tavola principale, che ha alquanto patito. Tra le figure della predella, accennate dopo quella tavola, sono ritratti d'alcuni suoi parenti; come dice egli stesso nella Vita di Lazzero Vasari suo bisavolo. PIETRO LAURATI 477 nuova di San Piero. Fece ancora alcune opere in Cor- tona ed in Arezzo, oltre quelle che si son dette; al- cnn'altre nella chiesa di Santa Fiora e Lucilla, monastero de'monaci Neri: e in particolare, in una cappella, un San Tommaso che pone a Cristo nella piaga del petto la mano/ Fu discepolo di Pietro, Bartolomineo Bolgarini sa- nese,Ml quale in Siena e in altri luoghi d'Italia lavorò ' Il san Tommaso qui rammemorato più non si vede. i II Gavalcaselle (op. cit., vol. I, pag. 174 e seg., ediz. italiana) dice che nella chiesa di sotto di San Francesco d'Assisi, nella creciera dalla banda délia sagrestia, è di Pietro Lorenzetti la Crocifissione che il Vasari attribuisce a Pie- tro Cavallini. E dello stesso maestro crede la Passione di Nostro Signore e san Francesco che riceve le stimate, pitture che sono nelle pareti del lato sini- stro délia detta creciera; pitture che il Biógrafo aretino assegna a Giotto. Pa- rimante vuele del Lorenzetti la Madonna col Divin Figliuolo in collo ed ai lati san Francesco ed un altro santo giovane, in mezze figure, che seno dipinte vi- cine alia Crocifissione suddetta : e la stessa mano riconosce nella piccola figura di Cristo in crece, con ai lati due stemmi, uno per parte, ora cancellati, e alia destra di chi guarda, la figura d'un uomo di 50 anni, sbarbato e dalla cintola in su, con mani giunte e col capo coperto da una berretta, nella qual figura si € volute vedere il ritratto del Cavallini. Finalmente gli pare che non mostrino diverso carattere, ed abbiano la medesima maniera, il Vescovo e le tre sante in mezza figura che adornano la párete sotto la Deposizione di crece. * i Nel Vasari, per errore di stampa, si leggeva qui e piú a basso Bolo- ghini, che noi abbiamo in ambedue i luoghi corretto in Bolgarini-, il qual pit- tore operava dal 1337 al 1378, in cui mori. Egli ebbe per moglie una madonna Bartolommea, e risedè nel supremo magistrate della sua città nel bimestre di marzo e aprile del 1362. Fu frate dello Spedale di Santa Maria della Scala. Miniô nel 1337 e nel 1353 le coperte de'libri del magistrate dette della Biccherna, che era sopra l'entrate del pubblico. Dipinse nel 1373 per la chiesa del dette Spe- dale una tavela che stette nella cappella presse la porta dell'oratorio chiamato del Sacro Chiodo. In essa si leggeva questa iscrizione; Frater Bartholomeus nÑí Bulgarini de SeniS me pinxit tempore dnï Galgani rectoris hospitalis SiK Marie • A . Dni . mccclxxiii . In Siena oggi non resta nulla che possa con certezza tenersi per lavoro di sua mano. Fu da alcuni creduto che maestro Martine di Bartolomineo, pittore che fieri verso la fine del secolo xiv, fosse sue figliuolo; ma tal credenza non puô altrimenti reggersi; imperciocchè certe scritture del tempo, da noi ri tróvate in Siena, ci provano che maestro Martine fu figliuolo di un Bartolommeo di maestro Biagio, della famiglia Sensi, che appartenne a quell'ordine di cittadini che fu dette dei Biformatori-, fece testamento nel 1434 e nel medesimo anno mori; mentre i Bolgarini furono sempre dell'ordine dei Nove. Riserbando ad altro luego di parlare di una sua opera fatta in Siena, ci tratterremo alquanto a discorreré delle sue pitture a'nostri giorni scoperte fuori della sua patria. Martine di Bartolommeo, in compagnia di Giovanni del 478 PÍETRO LAURATI moite tavole; e in Fiorenza ë di sua mano quella che ë in suir altare della cappella di San Silvestre in Santa Crece/ fu Fiero da Napoli (pittore quasi ignoto sin qui, e del quale in Pisa, dove ebbe dimora continua, sono varie opere), prese a fare una tavola, che è nello spedale di Santa Chiara, allegata a'due socj pittori, nel di 27 aprile del 1402, da Tommasc del fu Tieri da Calcinaja, procuratore del pió luogo. In essa, a'ter- mini della convenzione, doveva esser dipinta una Nostra Donna col Divin Fi- gliuolo, sant'Agostino, san Giovan Battista, san Giovanni Evangelista e santa Chiara, ai lati; e sopra, la Ss. Trinità, la Vergine Annunziata e Tángelo Ga- briele (in luogo delle quali tre figure, per mutato volere o de'committenti o de'pittori, oggi si vedono san Marco e sanLuca). Questa tavola manca del gra- dino cogli apostoli, otto profeti e due serafini. Al prof. Rosini venne in animo di attribuire quest'opera a Taddeo Bartoli, e la dette incisa molto fedelmente nel numero xxix del monumenti della sua Storia. Un'altra tavola, nella quale il nostro Martine scrisse il suo nome e Tanno 1403, è quella già rinvenuta dal Morrona (Pisa ilhcstrata, prima edizione, tom. Ill, p. 253, 254, 266) nello Spe- dale de'Trovatelli di Pisa, ed oggi appesa allé pareti di una stanza contigua alia chiesa. Ma la maggiore sua opera, più copiosa d'invenzione e piú importante, ed in buena parte ancora conservata, si vede nelTantica chiesa (or profanata) di San Giovan Battista, della terra di Cascina presse Pisa, la quale fu già ma- gione de'Gavalieri Gerosolimitani. In essa sono alcuni freschi, parte a chiaro- scuro e parte coloriti, che lo Zuccagni-Orlandini con manifesto errore attribui al Luino, e il prof. Bonaini restituí al suo vero auto re, avendovi scoperto e letto il 31 maggio 1846 il nome del pittore Martine da Siena. La maggiore di queste storie è la Crocifissione : al di sotto due soli dei quattro affreschi rimangono, cioè il Battesimo di Cristo e il Convito di Erodiade. Attorno alie rimanenti pareti sono disposte, in quattr'ordini, storie tratte dal vecchio Testamento, dalla Creazione al Giudizio di Salomone, parte a chiaroscuro, parte a colori; e a descriverle tutte si uscirebbe da'limiti di una nota. Insomma, questa è tal'opera, da fare molto onore a Martine. Sotto la maggior pittura leggesi questo avanzo di scritta : .. .Ris de Cascina anno domini m. . . lxxxxvi . . . Marti lomei de Senis pinsit 'roTUM .... isïius ecclesie santi .JoHANNis Baptiste . Nel Cabreo della Com- menda di San Giovanni di Prato e de'suoi membri di Cascina e Pontremoli, fatto dal commendatore Fra Ippolito Borromeo nel 1678 (Vedi nelTArchivio di State di Firenze ; Carte delle corporazioni religiose soppresse : Ordine di San Gio- vanni di Gerusalemme, filza 176), è riferita per intero la detta iscrizione, che dice cosí : hoc opus fecit fieri Bartolus de Palmeriis de Cascina • Anno Do- mini . m . ccc • lxxxxviii • Martinus BaRTHOLOMEI de Senis pinsit totum opus istiüs EccLESiE sANTi JoHANNis Baptiste . Tanto della scoperta degli autori della tavola di santa Chiara, quanto degli affreschi di Cascina, ripetiamo doverne saper grado alla dotta sagacità del prelodato prof. Bonaini ; il quale, colle assidue ri- cerche di tutto ció che spetta alia patria erudizione, seppe trovare una cosí ab- bondante e ignota mèsse di documenti, che la storia delTarte ne è per ricevere luce nuova e grandissiraa; di che, fra molti altri, fa fede il bel saggio pubbli- cato per le stampe col titolo di Memorie inédite intorno alla vita e ai dipinti di Francesco Traini, e ad altre opere di disegno dei secoli XI, XIV e XV, Pisa, tipografia Nistri, 1846. ' Questa tavola è perita. PIETRO LAUEATI 479 Furono le pitture di costero interno agli anni di nostra salute 1350: e nel mio libro tante volte citato si vede un disegno di mano di Pietro; dove un calzolaio che cuce, con semplicijina naturalissimi lineamenti, mostra grandis- simo aífetto, e qual fusse la propria maniera di Pietro; il ritratto del quale era, di mano di Bartolommeo Bol- garini, in una tavela in Siena, quando, non seno molti anni, lo ricavai da quelle ñella maniera che di sopra si vede. ANDEEA PISANO 481 SCÜLTORE ED ARCHITETTO ( Nato circa il 1270 ; morte nel 1348 ) Non fieri mai per tempo nessimo Tarte délia pittura, che gli scultori non facessino il loro esercizio con eccel- lenza: e di ció ne sono testimonj, a chi ben riguarda, T opere di tntte T età : perche veramente quelle due arti sono sorelle, nate in un medesimo tempo, e nutrite e governate da una medesima anima. Questo si vede in Andrea Pisano/ il quale, esercitando la scultura nel tempo di Giotto, fece tanto miglioramento in tal'arte, che e per pratica e per studio fu stimato in quella profes- sione il maggior uoino che avessino avuto insino ai tempi suoi i Toscani, e massimamente nel gettar di bronzo. Per- loche, da chimique lo conobbe furono in modo onorate e premiate T opere sue, e massimamente da'Fiorentini, che non gl'increbbe cambiar patria, parenti, faculta ed amici. A costui giovò molto quella diificultà che avevano * "Nacque, verso il 1270, da un ser Ugolino notajo figliuolo di Nino, i quail certamente non furono artisti, come taluno ha preteso. Dobbiamo al ricordato prof. Francesco Bonaini la scoperta che maestro Andrea, anche inuanzi ai tempi del Vasari detto pisano, fu veramente da Pontedera. Vedansi i documenti nelle precitate Memorie del Traini. Vasari , Opere. — Vol. I- 31 482 ANDKEA PISANO avuto nella scultura i maestri che erano stati avanti a , lui; le sculture de'quali erano si rozze e si dozzinali, che chi le vedeva a paragone di quelle di quest'uomo, le giu- dicava un miracolo. E che quelle prime fussero goife, ne fanno fede, come s'ë dette altrove, alcune che sono so- pra la porta principale di San Paolo di Firenze, ed alcune ■ che di pietra sono nella chiesa d'Ognissanti ; le quali sono cosi fatte, che piuttosto muovono a riso coloro che le mirano, che ad alcuna maraviglia o piacere.^ E certo ë, : che r arte della scultura si può molto meglio ritrovare ^ quando si perdesse l'esser delle statue, avendo gli uomini •" il vivo ed il naturale, che ë tutto tondo come vuol ella; che non può l'arte della pittura, non essendo cosi pre- sto e facile il ritrovare i bei dintorni e la maniera buena, per metterla in luce. Le quali cose nell' opere che fauno i pittori arrecano maestà, bellezza, grazia e ornamento. Fu in una cosa alie fatiche d'Andrea favorevole la for- tuna; perchë, essendo state condotte in Pisa, come si ë altrove dette, mediante le molte vittorie che per mare ebbero i Pisani, molte anticaglie e pili che ancora sono intorno al Duomo ed al Campo Santo ; elle gli fecero tanto giovamento e diedero tanto lume, che tale non lo . potette aver Giotto, per non si essere consérvate le pit- ture antiche tanto, quanto le sculture. E sebbene sono spesso le statue destrutte da' fuochi, dalle revine e dal furor delle guerre, e sotterrate e traspórtate in diversi luoghi; si riconosce nondimeno, da chi intende, la diife- renza della maniera di tutti i paesi; come, per esempio, la egizia ë sottile e lunga nelle figure ; la greca ë arti- fiziosa e di molto studio negl'ignudi, e le teste hanno quasi un'aria medesima ; e l'antichissima toscana, diificile ' *Queste sculture scomparvero quando nel 1669 fu rinnovata l'antica chiesa; delle altre che erano in Ognissanti, non si ha più notizia. Ma i pergaini di Nie- j coia e , Giovanni pisani, pur dal Vasari stesso lodati, stan contro questo suo gludizio. ANDREA PISANO 483 nei capelli ed alquanto rozza. De' Romani (chiamo Romani per la maggior parte quelli che, poi che fu soggiogata la Grecia, si condussero a Roma, dove ció che era di bueno e di bello nel mondo fu pórtate); questa, dice, è tanto bella per l'arie, per l'attitudini, pe'moti, e per ghignuli e per i panni, che si può dire che eglino ab- biano cavato il bello da tutte l'altre provincié, e raccol- tolo in una sola maniera, perché ella sia (com'è) la mi- gliore, anzi la più divina di tutte l'altre/ Le quali tutte belle maniere ed arti essendo spente al tempe d'Andrea, quella era solamente in uso che da' Goti e da' Greci gofñ era stata recata in Toscana. Onde egli, considerate il nuevo disegno di Giotto, e quelle poche anticaglie^ che gli erano note, in modo assottigliò gran parte della gres- sezza di si sciagurata maniera col suo giudizio, che co- minciò a operar meglio e a dare molto maggior bellezza alie cose, che non aveva fatto ancora nessun altro in quell'arte insino ai tempi suoi. Perché, conosciuto l'in- gegno e la buena pratica e destrezza sua, fu nella patria aiutato da molti; e datogli a fare, essendo ancora gio- vane, a Santa Maria a Ponte alcune figurine di marino, che gli recarono cosi buen neme,® che fu ricerco con in- stanza grandissima di venire a lavorare a Firenze per r Opera di Santa Maria del Fiore; che aveva, essendosi cominciata la facciata dinanzi delle tre porte, carestía di maestri che facessero le storie che Giotto aveva disegnate pel principio di detta fabbrica. Si condusse, adunque, Andrea a Firenze in servigio dell'Opera detta; e perché desideravano in quel tempo i Fiorentini rendersi grato ^ Pochi vorranno convenire col Vasari nel preferirá la maniera de'Romani, benchè de'tempi migliori, alla greca pur de'tempi migliori; cioè da Pericle ad Alessandro. ^ E di Niccola e di Giovanni suoi concittadini non vide egli dunque nulla ? Giovanetto, siccome consta dai libri dell'Opera del Duomo di Pisa veduti dal Ciampi, ei lavorava come garzone di Giovanni, a cui poi fu compagno. ® i Santa Maria del Ponte Nuovo, oggi detta comunemente della Spina. 484 ANDREA PISANO ed amico papa Bonifazio VIII, che allora era sommo pon- tefice della Chiesa di Dio, vollono che, innanzi a ogni altra cosa, Andrea facesse di marmo e ritraesse di natnrale detto pontefice. Laonde, messo mano a questa opera, non restó che ebbe finita la figura del papa, ed un San Fiero ed un San Paulo che lo mettono in mezzo : le quali tre figure furono poste e sono nella facciata di Santa Maria del Fiore. Facendo poi Andrea, per la porta del mezzo di detta chiesa, in alcuni tabernacoli ovver nicchie, certe figurine di profeti; si vide ch'egli avea recato gran mi- glioramento all'arte, e che egli avanzava in bontà e di- segno tutti coloro che insino allora avevano per la detta fabbrica lavorato. Onde fu risoluto che tutti i lavori d'im- portanza si dessono a fare a lui, e non ad altri. Perché, non molto dopo gli furono date a fare le quattro statue de'principali dottori della chiesa; San Oirolamo, Sant'Am- brogio, Sant'Agostillo e San Oregorio. E finite queste, che gli acquistarono grazia e fama appresso gli opérai, anzi appresso tutta la citta, gli furono date a far due altre figure di marmo della medesima grandezza; che fu- roño il Santo Stefano e San Lorenzo, che sono nella detta facciata di Santa Maria del Fiore, in sull'ultima canto- nata. * E di mano d' Andrea similmente la Madonna di ' Disfattasi sventuratamente (verso il 1586) la facciata, che giá era giunta a due terzi, tutte le figure d'Andrea furon disperse, quali per la chiesa, quali altrove. II Bonifazio VIII, opera di stil grandioso e mirabilmente condotta, fu traspórtalo nel giardino Riccardi,poi Stiozzi, in Gualfonda; t ed ora si trova nel giardino degli Orti Oricellarj, appartenente alia sign ora Orloff, ma mutilato. Alcune figure di dottori furon poste al principio dello stradone di Poggio Im- periale, e trasformate, come ancor si vede, in figure di poeti, ecc. t Noi circa a queste statue che il Vasari assegna ad Andrea, siamo in grandissime dubbio che sieno di altri maestri e di tempo posteriori. E questo dubbio ci nasee dal vedere che ne'libri dell'Opera del Duomo di Firenze non si comincia a parlare di statue da farsi per ornamento della facciata di Santa Re- parata, se non dopo il 1357: sapendosi per esempio che le figure de'quattro dot- tori della Chiesa furono date a scolpire nel 1396 a Pietro di Giovanni tedesco, cioè i santi Ambrogio e Girolamo; e a Niccoló di Piero d'Arezzo, i santi Ago- stino e Gregorio; e che nel 1391 il detto maestro tedesco lavorava la figura di santo Stefano. ANDREA PISANO 485 marmo, alta tre braccia e mezzo, col figliuolo in collo, che ë sopra Taltar della ciiiesetta e compagnia della Mi- sericordia in sulla piazza di San Giovanni in Firenze ; che fu cosa molto lodata in que'tempi, e massimamente aven- dola accompagnata con due Angeli che la mettono in mezzo, di braccia due e mezzo Tuno G alla quale opera ha fatto a'giorni nostri un fornimento interno di legname molto ben lavorato, maestro Antonio dette il Carota; e sotto, una predella piena di bellissime figure, colorite a olio da Eidolfo figliuolo di Domenico Grillandai. ' Pari- mente, quella mezza Nostra Donna di marino, che ë so- pra la porta del fiance pur della Misericordia nella fac- * II Cicognara, producendo un parti to del Capitani del Bigallo e della Mi- sericordia del 1358; ripubblicato dal cav. Passerini nelle sue Cvriositá storico- artistiche-, mostra che quest'opera è d'Alberto Arnoldi florentino, che imitó in essa il fare d'Andréa, della oui scuola era allievo, ed emuló il nuovo magistero che Nino flgliuolo d'Andrea giá aveva mos trato nella poli tura del marmo della sua Madonna della Spina di Pisa. — *Di questo Alberto Arnoldi il barone di Rumohr nei libri dell'Opera di Firenze trovó varj ricordi. Nel 1358 era tra gli altri maestri che servivano 1'Opera. Nel 1359 lavorava nella facciata della chiesa verso il campanile, insieme con maestro Francesco Talenti, al quale era stato dato a lavorare nel campanile e in un'altra faccia della chiesa verso iCofanai, mentre Alberto conduceva le flnestre allato al campanile. Poi si trova nominato capomaestro dell'Opera; e a di 16 di dicembre dello stesso anno 1359 gli è dato a fare I'arco della porta maggiore del Duomo. Dall'anno 1362 in poi non è piú nè capomaestro nè maestro agli stipend] dell'Opera. (Y. Antologia di Firenze, tom. Ill, pag. 125-26; e le Ricerche italiane, tom. II). i È certo che Alberto Arnoldi fu lombardo, e che venuto ad abitare in Firenze ne'primi anni del secolo con Amoldo Alberti suo padre e parimente maestro di pietra; furono fatti cittadini. Alberto Arnoldi nel 4 gennaio 1351 si obbligó in compagnia di Neri Fioravanti, di Benozzo di Niccoló e di Niccoló di Beltramo di forniré e lavorare marmi blanchi, rossi e neri per dieci braccia di altezza ail'intorno del campanile del Duomo di Firenze, il quale era condotto allora aile ultime flnestre, e seconde il modello che sarebbe stato loro dato dal capomaestro Francesco Talenti. Il contratto di questa allogazione fu rogato da ser Bartolo di Neri da Roffiano, allora notajo dell'Opera di Santa Reparata. ^ i L'ornamento di legname fu intagliato nel 1515 per lire 231 da Noferi d'Antonio di Noferi legnaiuolo florentino; persona diversa dal Carota, che si chiamó per proprio nome Antonio di Marco di Glano ; e indorato per lire 231 da Bernardo d'Jacopo e Zanobi di Lorenzo pittori e mettidoro. A Ridolfo del Ghirlandajo furono pagate 84 lire per la pittura delle tre storiette della predella. (Vedi la filza 15 a carte 73 delle Deliberazioni e Partiti della Compagnia del Bigallo dal 1510 al 1515, nell'Archivio Centrale di Stato in Firenze). 486 ANDREA PISANO ciata de'Cialdonai, è di mano d'Andrea;' e fu cosa molto lodata, per avere egli in essa imitate la buena maniera antica, fuer dell'uso suo, che ne fu sempre lontano: come testimoniano alcuni disegni che di sua mano seno nel nostre Libro, ne'quali seno disegnate tutte historie del- r Apocalisse. E perché aveva atteso Andrea in sua gioventù alie cose d'architettura, venue occasione di essere in ció ado- perato dal comune di Firenze; perché, essendo morte Arnolfo, e Griotto assente, gli fu fatto fare il disegno del Castelló di Scarperia, che é in Mugello alie radici deir Alpe.^ Dicono alcuni (non l'affermerei già per vero) che Andrea stette a Yinezia un anno, e vi lavorò di scultura alcune figurette di marino che seno nella fac- ciafca di San Marco ; e che al tempe di messer Fiero Dra- denigo, doge di quella repubblica, fece il disegno dell'Ar- señale : ma perché io non ne so se non quelle che trovo essere state scritto da alcuni semplicemente, lascerò ere- dere interno a ció ognuno a suo modo.' Tórnate da Yine- zia a Firenze Andrea, la citth, temendo della venuta del- r imperadore, fece alzare con prestezza, adoperandosi in * i Anche questa mezza Madonna fu scolpita da Alberto nel 1361, e gli fu pagatá 16 fiorini d'oro. Fu tolta di là nel 1791, in occasione di risarcimenti. Ora vedesi sotto vetri nella facciata verso San Giovanni. ^ *La deliberazione della Repubblica Fiorentina, colla quale si ordina Tedi- ficazione del castello di san Barnaba a lode e venerazione di questo Santo, nel luogo denominate la Scarperia, è del 1306 (Vedi Repetti, Dizionario della To- scana \ e Giovanni Villani , lib. vii, cap. 86): nel quale anno, sebbene Arnolfo non fosse ancor morto, Giotto però trovavasi in Padova. Che poi ne fosse archi- tetto Andrea Pisano, non è certificato da documenti. ® Quel che qui dice il Vasari è pur confermato da un manoscritto citato dair Orlandi n^WAbhecedario pittorico; e, siccome pare al Gicognara, anche da vecchie cronache veneziane, sebben in esse Andrea non sia nominate. Il Gicognara, paragonando alcune statue della facciata di San Marco di Venezia con altre fatte da Andrea per Firenze, le trova del medesimo stile. Nè egli conosce altro artefice contemporáneo di tanta vaglia, a cui si possano attribuire. II solo forse, egli dice, che avrebbe potuto operarle, vivendo, sarebbe state Filippo Galendario, architetto del palazzo del Doge e autore d'alcune sculture che I'adornano, perito imma- toramente nella congiura di Marino Faliero; quindi poco nominate da'suoi Ve- neziani, e affatto sconosciuto agli esteri. ANDREA PISANO 487 ció Andrea, una parte delle mura' a calcina otto braccia, in quella parte che è fra San Gallo e la porta al Prato ; ed in altri luoghi fece bastioni, steccati ed altri ripari di terra e di legnami sicurissimi. Ora, perché tre anni innanzi aveva, con sua molta lode, mostrato d'essere va- lente nomo nel gettare di bronzo, avendo mandato al papa in Avignone per mezzo di Giotto suo amicissimo, che allora in quella corte dimorava, una croce di getto molto bella;® gli fu data a fare di bronzo una delle porte del tempio di San Giovanni, della quale aveva gih fatto Giotto un disegno bellissimo. Gli fu data, dico, a finiré, per essere state giudicato, fra tanti che avevano lavorato insino allora, il più valente, il più pratico e più giudi- zioso maestro, non pur di Toscana, ma di tutta Italia. Laonde messovi mano, con animo deliberate di non vo- lere risparmiare ne tempo ne fatica ne diligenza per con- durre uifi opera di tanta importanza, gli fu cosi propizia la sorte nel getto, in que' tempi che non si avevano i se- greti che si hanno oggi, che in termine di ventidue anni la condusse a quella perfezione che si vede.® E, quelle che ë più, fece ancora in quel tempo medesimo non pure * Che poi si corapirono, dice Giovanni Villani (lib. xi, cap. 77), neU'anno 1316. ^ t Noi nella Vita di Giotto abblamo con buone ragioni mostrato esser senza prove I'andata di questo artefice ad Avignone. Quanto al Grociflsso di forse bronzo, il Vasari s'inganna dieendolo gettato da Andrea Pisano. La nostra nione è ehe opi- egli abbia scambiato 1'artefice pisano con Andrea Arditi orefice Aorentino, del quale abbiamo parlato nella Vita di Agostino ed Agnolo senesi. ® t Non sarà senza utilità per la storia il far conoscere molti particolari riguardanti il lavoro della porta di métallo fatto da Andrea. Noi gli abbiamo tratti dai preziosi Spogli che Carlo di Tommaso Strozzi fece de'libri dell'Arte di Calimala, oggi perduti o smarriti. Fino dal 6 novembre del 1329 i Consoli della detta Arte deliberarono che le porte della chiesa di San Giovanni si facessero di métallo e più belle che si poteva, e diedero commissione a Pietro fice d'Jacopoore- fiorentino che andasse a Pisa, vedesse le porte di bronzo che erano nella Primaziale, e ne facesse un ritratto, e che poi si portasse a Venezia per cercare un maestro, e trovándolo, fosse a lui dato il lavoro delle porte suddette. Pare «he il detto Piero non trovasse in Venezia maestro a ció sufficiente, i Consoli perché allogarono quell'opera a maestro Andrea di ser Ugolino da Pisa ai nove di gennaio del 1330. Cominció dunque Andrea a' 22 di gennaio quest'opera, nella quale ebbe per lavorauti, oltre il detto Piero di Jacopo, gli orefici Lippo 488 ANDREA PISANO il tabernacolo deir altar maggiore di San G-iovanni, con dne Angeli che lo mettono in mezzo (i qnali furono te- nuti cosa bellissima)/ ma ancora, secondo il disegno di Giotto, quelle figurette di marmo che sono per finimento della porta del campanile di Santa Maria del Fiore; ed interno al medesimo campanile, in certe mandorle, i sette Pianeti, le sette Virtù e le sette opere della misericordia, di mezzo rilievo in figure piccole, che furono allora molto lodate.^ Fece anco, nel medesimo tempo, le tre figure di braccia quattro l'una, che furono collocate nelle nicchie del detto campanile, sotto le finestre che guardano dove di Dino e Piero di Donato; e già nel 2 d'aprile del medesimo anno le storie dr cera erano finite, e la porta era stata gettata neiraprile del 1332 da maestro Lionardo del fu Avanzo campanaio di Venezia. Ma essa, essendo venuta tanto torta nel gettarla che non si poteva adoperare, fu dapprima commesso a Fiero di Donato di raddrizzarla, e non bastandogli poi 1'animo di farlo, l'Arte lo disobbligó e diede questo carico ad Andrea Pisano, che lo prese a fare a tutto rischio dell'Arte, per il prezzo di 10 fiorini d'oro ed in termine di due mesi. Nel 24 di luglio del 1333 si convenue Andrea di fare di métallo 24 teste di leone- e darle finite e indorarle per il primo del prossimo dicembre, obbligandosi a commetterle bene nella mezza porta o battente che era allora nell' Opera di San Gio- vanni, ed insieme a indorare le storie dell'altra mezza porta che era già stata messa su. Tutto questo lavoro era già finito e messo su nel 1336, nel quale anno si fece la spesa di lire venticinque pel marmo delle soglie di essa porta, fatto venire da Carrara. ' Fu bárbaramente disfatto nel 1732 per sostituirgliene uno di marmo di vario colore, secondo il misero gusto di quel tempo. I suoi avanzi furono com- perati e custoditi per qualche tempo da Anton Francesco Gori, l'antiquario. Indi, se non tutti, in parte almeno, passarono in possesso d'Angiolo M. Bandini; che forse li tenue a principio nelia sua abitazione vicino alla Marucelliana, di cui era bibliotecario ; poi li collocò nell' oratorio di Sant'Ansano presso Fiesole. 11 Cico- guara dice d'averne veduti parte in canónica, ove non pare che piú si trovino; e parte in una delle stanze della Marucelliana, volendo dir forse del bibliotecario di essa, che poi ne fece l'uso che si è detto. Vedi interno a ció una Diss, epist. di L. Tramontani al Bandini, stampata in Venezia nel 1789. — *Inun ricordo del templo di San Giovanni, riferito dal Richa, si legge: « 1336. Si volta Faltare « dalF altra parte, e in testa vi si colloca il tabernacolo, dentrovi una statua di « San Giovanni, e ai lati due angeli scolpiti da Andrea Pisano ». t Ma questo tabernacolo si ha gran sospetto che non fosse fatto da An- drea, perché fu lavorato nel 1313, come si rileva dal libro degli Statuti del- l'Arte di Calimala di quell'anno. ^ Non furono tanto lodate allora, che non sieno oggi ancor piú. II Cicognara ne ha fatto intagliare due per la sua Storia, e le celebra come il nonplus ultra- deir arte. ANDREA PISANO 489 sono oggi i Pnpilli, ^ cioë verso mezzogiorno; le quali figure furono tenute in quel tempo più che ragionevoli. Ma per tornare onde mi sono partito, dico che in detta porta di bronzo sono storiette di basso rilievo delia vita di San Giovanni Batista, cioë dalla nascita insino alia morte, condotte felicemente e con molta diligenza. E, seb- bene pare a molti che in tali storie non apparisca quel bel disegno në quella grande arte che si suol porre nelle figure, non mérita però Andrea se non lode grandissima, per essere stato il primo che ponesse mano a condurre perfettamente un'opera che fu poi cagione che gli altri, che sono stati dopo lui, hanno fatto quanto di bello e di difficile e di bueno nell'altre due porte e negli or- namenti di fuori al presente si vede. Questa opera fu po- sta alia porta di mezzo di quel tempio, e vi stette insino a che Lorenzo Ghiberti fece quella che vi ë al presente : perchë allora fu levata, e posta dirimpetto alia Miseri- cordia,^ dove ancora si trova. Non tacerò che Andrea fu aiutato in far questa porta da Nino suo figliuolo, che fu poi molto miglior maestro che il padre stato non era; e che fu finita del tutto Panno 1339,® cioë non solo pulita e rinetta del tutto, ma ancora dorata a fuoco; e credesi ch' ella fusse gettata di métallo da alcuni maestri vini- ziani molto esperti nel fondero i metalli : e di ció si trova ricordo ne'libri delParte de'rnercatanti di Calimara, guar- ^ *Oggi Confraternita della Misericordia. ^ Alia Misericordia vecchia, oggi il Bigallo, che un tempo le era unito, e» separandosene, occupó anche il luogo ch'essa occupava. ' * Giovanni Villani (lib. x, cap. 176) cosi scrive: «Nel detto anno 1330, « si cominciarono a fare le porte del métallo di San Giovanni, molto belle e di « maravigliosa opera e costo; furono formate in terra, e poi pulite e dórate le « figure per un maestro Andrea Pisano, e gittate furono a foco di fornelli per « maestri veneziani. E noi autore, per l'Arte dei Mercanti di Calimala, guar- « diani deirOpera di San Giovanni, fui ufficiale per far fare il detto lavoro ». Nella parte superiore di questa porta è scritto a lettere di rilievo : Andreas. Ugo- lini. Nini. de. Pisis. me. fecit, a. d. m. cccxxx ; il quale anno debbe intendersi per quello, in che fu compito il modello di terra, e incominciato il getto di métallo, a ultimare il quale si richiesero, corne si è veduto, cinque anni. 490 ANDREA PISANO diani deir Opera di San Giovanni/ Mentre si faceva la detta porta, fece Andrea non solo Taltre opere soprad- dette, ma ancora moite altre; e particolarmente il mo- dello del tempio di San Giovanni di Pistoia, il quale fu fondato l'anno 1337 ® : nel quale anno medesimo, a di 25 di gennaio, fu trovato, nel cavare i fondamenti di questa chiesa, il corpo del Beato Atto, stato vescovo di quella città, il quale era stato in quel luogo sepolto cento tren- tasette anni. L'architettura dunque di questo tempio, die ë tondo, fu seconde quei tempi ragionevole.® E anco di mano d'Andréa, nella detta città di Pistoia, nel tempio principale, una sepultura di marmo, piena nel corpo della cassa di figure piccole, con alcune altre di sopra mag- giori. Nella quale sepultura ë il corpo riposte di messer Cine d'Angibolgi,* dottor di legge e multo famoso let- terato ne'tempi suoi, come testimonia messer Francesco Petrarca in quel sonetto: Piangete, donne, e con voi pianga Amore; ' *L'Albert)ni, nel suo Memoriale stampato nel 1510, vuole che il fregio bellissimo ch'è intorno intorno a questa porta, con i suoi stipiti, sia lavoro fatto posteriormente da Vittorio di Lorenzo Ghiberti. ^ *Se debbesi credere ad un ricordo pubblicato negli Elogi degli illustri Pisani, e riprodotto dal Da Morrona (11, 379), la fabbrica di San Giovanni di Pistoia fu incominciata nell' anno 1300 : il che non osta a far autora del mo- dello di questo tempio Andrea Pisano. Gellino di Nese da Siena, nel 1338, fu eletto ad construendum, edificandum, complendum etperficiendumecclesiam et edificium. Saneti Joannis Baptiste juccta plateam comunis Pistorii etc. ( Giampi, Vitadi Cino da Pistoia, pag. 153). II Documento iv delle Notizie inedite della Sagrestia pistoiese ecc. parla piú specificatamente dell' ornamento e compiraento esterno di questa fabbrica allogato a maestro Gellino. ' * Questo battistero, che il Vasari dice tondo, è ottagono. * *11 Giampi, appoggiandosi allé parole di una Memoria da lui pubblicata nella detta Vita di Cino da Pistoia, inclinerebbe a creder questo monumento disegnato da Agostino ed Agnolo senesi. II Gicognara, invece, ravvisò in esso lo stile delle sculture di Goro di Gregorio da Siena, del quale è l'urna di san Gerbone nel Duomo di Massa Marittima. Sventuratamente, la lacuna che nel documento cade appunto là dove esser doveva il nome dell'arteñce senese, ci toglie il modo di sciogliere la questione. Ghecchè pensar si voglia del senese autore del disegno, è certo però che Andrea Pisano va del tutto escluso da questo lavoro. ANDREA PISANO 491 e nel quarto capitolo del Trionfo d'Amere, dove dice; Ecco Cin da Pistola, Guitton d'Arezzo, Che di non esser primo par ch'ira aggia. Si vede in questo sepolcro, di mano d'Andrea, in marino il ritratto di esso messer Ciño, che insegna a un numero di suoi scolari che gli sono interno, con si bella attitu- dine e maniera, che in que'tempi (sebbene oggi non sa- rebbe in pregio) dovette esser cosa maravigliosa. Si servi anco d'Andrea nelle cose d'architettura Gualtieri duca d'Atene e tiranno dei Fiorentini, facendogli allargaré la piazza, e, per fortificarsi nel palazzo, ferrare tutte le fine- stre da basso del primo piano, dov' è oggi la sala de'Du- gente, con ferri quadri e gagliardi molto/ Aggiunse an- cora il dette duca, dirimpetto a San Fiero Scheraggio, le mura a bozzi che seno accanto al palazzo, per acere- scerlo ; e nella grossezza del muro fece una scala segreta per salire e scendere occultamente; e nella detta facciata di bozzi fece, da basso, una porta grande, che serve oggi alia Degana, e sopra quella l'arme sua; e tutto col di- segno e consiglio di Andrea: la quale arme, sebbene fu fatta scarpellare dal magistrate de'Dodici, che ebbe cura di spegnere ogni memoria di quel duca, rimase nondimeno nello scudo quadro la forma del leone rampante, con due code; come può vedere chiunque la considera con dili- genza. Fer le medesimo di.ica fece Andrea moite terri interne aile mura délia città; e non pure diede principio magnifico alla porta a San Friano e la condusse al ter- mine che si vede,® ma fece ancora le mura degli anti- porti a tutte le porte délia città, e le porte minori per ' *Riferisce il Gaye una provvisione del 6 ottobre 1342, colla quale sono nominati tre uffiziali ed un camarlengo ad invigilare sopra la fabbrica del nuovo palazzo ordinato dal duca. {Carteggio inédito, I, 493). ^ *Questo accadde nel 1332, come si ritrae da una provvisione del Gomune florentino riferita dal Gaye, op. cit. I, 477. 492 ANDREA PISANO comodità dei popoli/ E perché il duca aveva in animo di fare una fortezza sopra la costa di San Giorgio, ne fece Andrea il modello; che poi non servi, per non avere avuto la cosa principio, essendo stato cacciato il duca l'anno 1343. Ben ebhe in gran parte eífetto il desiderio che quel duca avea di ridurre il palazzo in forma di un forte castello ; poiché a quello che era stato fatto da prin- cipio fece cosi gran giunta, come quella ë che oggi si vede, comprendendo nel circuito di quello le case de'Filipetri, la torre e le case degli Amidei e Mancini, e quelle de' Bel- lalberti. E perché, dato principio a si gran fabbrica ed a grosse mura e barhacani, non aveva cosi in pronto tutto quello che bisognava; tenendo indietro la fabbrica del Ponte Yecchio, che si lavorava con prestezza come cosa necessària, si servi delle pietre conce e de'legnami ordi- nati per quello, senza rispetto nessuno. E sebbene Taddeo Gaddi non era, per avventura, inferiere nelle cose d'ar- chitettura a Andrea Pisano, non volle di lui in queste fabbriche, per esser florentino, servirsi il duca; ma sib- bene d'Andréa. Yoleva il medesimo duca Gualtieri disfare Santa Cicilia, per vedere di palazzo la strada Romana e Mercato Nuovo, e parimente San Piero Scheraggio per suoi commodi; ma non ebbe di ció fare licenza dal papa. Intanto fu, come si é dette di sopra, cacciato a furia di popoloo Mérito dunque Andrea, per l'onorate fatiche di tanti anni, non solamente premj grandissimi, ma e la ci- viltà ancora; perché, fatto dalla Signoria cittadin floren- tino, gli furono dati uíñzj e magistrati nel]a citth;^ e r opere sue furono in pregio e mentre che visse e dopo * *Una provvisione degli 11 di dicembre 1340 parla del murare novamente le porte di San Giorgio e di San Miniato, le porticciole di San Niccolô e di Camal- doli, quella presso il Ponte alia Carraia, e altre. ( Gaye , op. cit., 1,491). ^ Aireccellenza nell'arte par ch'egli accoppiasse gran saviezza e prudenza, se, non ostante i favori del duca, poté conservare la fiducia del popolo ; e, cacciato il duca, aver uífizj e magistrati nella cittá, come dice il Vasari. — t Ma ne' libri pubblici di ció non si ha memoria e neppure che egli fosse fatto cittadino di Firenze. ANDREA PISANO 493 morte, non si trovando chi lo passasse neiroperare, infino a che non vennero Niccolò aretino, lacopo délia Quercia sánese, Donatello, Filippo di ser Brnnellesco, e Lorenzo Ghiberti: i quali condussono le sculture, ed altre opere che fecero, di maniera che conobbono i popoli in qiianto errore eglino erano stati insino a quel tempo, avendo ri- trovato questi con T opere loro quella virtii che era molti e molti anni stata nascosa e non bene conosciuta dagli uomini. Furono l'opere d'Andréa intorno agli anni di no- stra salute 1340. Rhnasero d'Andréa molti discepoli, e fra gli altri Tom- maso pisano, architetto e scultore * ; il quale fini la cap- pella di Campo Santo, e pose la fine del campanile del Luomo, cioë quella ultima parte dove sono le campane: il quale Tommaso si crede che fusse figliuolo d'Andréa, ® trovandosi cosi scritto nella tavola dell' altar maggiore di San Francesco di Pisa, nella quale ë intaghato di mezzo rilievo una Nostra Donna e altri Santi fatti da lui, e sotto quelli il nome suo e di suo padre. ® ' *Come architetto, dovè prestar l'opera sua in servigio del superbo e va- nitoso Giovanni dell'Agnello, primo ed ultimo doge di Pisa, quando, rovinate le case de'Gambacorta, egli comando al pisano artefice di fargli il disegno di un palazzo, del quale si gettarono appena le fundamenta. Come scultore, fece il di- segno di una sedia regale, cbe, eseguita in marmo col piú fino lavoro, doveva esser collocata nella tribuna maggiore del Duomo; e dopo la morte di Margberita, moglie dell'Agnello, il marito ordinó a Tommaso la scultura della sua tomba da collocarsi nel Duomo; lavoro distrutto nell'incendio del 1596. Tommaso fu ancbe orafo e pittore; siccbè egli si può dire artefice universale, come spesso erano a que'tempi molti di coloro cbe davansi all'arte. Gome orafo, trovasi nominato testimone ad un documento del 1368; come pittore, si sa cbe nell'anno mede- simo dipinse due scrigni da offrirsi in dono alla ducbessa Margberita. Tutte que- ste notizie, ignórate sin qui, sono frutto delle belle ricercbc del prof. Bonaini; il quale, oltre ció, è stato il primo a dirci cbe I'arte principale di Tommaso fu i'oreficeria. (Vedi le Memorie inédite sopraccitate, pag. 59-64). " *Quel cbe al Vasari parve dubbio, oggi è certo per i documenti trovati dal prof. Bonaini. Infatti, in un inventario del 1368 de'beni dell'Opera del Duomo Pisano, trovó nonlinato come testimone, Tommaso del quondam maestro Andrea da Pontedera. ® *Quest'opera si conserva nel Camposanto di Pisa; e la iscrizione, riportata ancbe dal Da Morrona, è la seguente: Tomaso figliuolo di stro Andrea •P esto lavoro et fu Pisano. 494 ANDREA PISANO D'Andréa rimase Nino suo figliuolo, che attese alia scultura; ed in Santa Maria Novella di Firenze fu la sua prima opera, perché vi finí di marino una Nostra Donna stata cominciata dal padre, la quale ë dentro alla porta del fianco, al lato alia cappella de'Minerbetti. ' Andate poi a Pisa, fece nella Spina una Nostra Donna di marmo dal mezzo in su, che allatta Gesù Cristo fanciulletto, in- volto in certi panni sottili;® alla quale Madonna fu fatto fare da messer lacopo Corbini un ornamento di marmo, I'anno 1522; e un altro molto maggiore e piti hello a un'altra Madonna, pur di marmo e intera, di mano del medesimo Nino,® nell'attitudine della quale si vede essa madre porgere con molta grazia una rosa al figliuolo, che la piglia con maniera fanciullesca e tanto bella, che si può dire che Nino cominciasse veramente a cavare la durezza de'sassi e ridurgli alla vivezza delle carni, lu- strandogli con un pulimento grandissime. Questa figura ë in mezzo a un San Giovanni ed a un San Piero di marmo, che ë nella testa il ritratto di Andrea di natu- rale. Fece ancora Nino, per un altare di Santa Caterina pur di Pisa, due statue di marmo; cioë una Nostra Donna ed un Angelo che l'annunzia; lavorate, siccome l'altre cose sue, con tanta diligenza, che si può dire ch'elle siano le migliori che fussino fatte in que'tempi. Sotto questa Madonna Annunziata, intaglió Nino nella basa queste ' Fece in essa ció che dal padre non sarebbesi fatto. Nel dar morbidezza alie carni, dice il Cicognara, ei vinse, fin da questa prima opera, tutti gli altri della scuola. * — Questa Madonna, figura intera, col Bambino in braccio, oggi rimane, puó dirsi, occultata in una nicchia sotto l'oi'gano, in mezzo alie due mensole dalla parte dell' altar maggiore ; e in questo luogo la vide anche 11 Da Morrona, le parole del quale ci sono state guida a ritrovarla. ^ II Da Morrona dubita se questa Madonna non debba piuttosto assegnarsi a Niccola o a suo figlio. II Cicognara dimostra che non può attribuirsi che a Nino d'Andréa. ' t L'ornamento di marmo a queste, figure, fatto fare dall'operaio Corbini nel 1521, fu scolpito da maestro Girolamo d'Jacopo da Carrara. (Vedi Fanfani, Notizie inedite di Santa Maria del Pontenovo. Pisa, Nistri, 1871, in-8). ANDREA PISANO 495 parole: A di primo Fehhraio 1370; e sotto 1'Angelo: Qiieste -figure fece Nina figliuolo d' Andrea Pisano.^ Fece ancora altre opere in quella citta ed in Napoli, delle quali non accade di far menzione."^ Mori Andrea, d'anni settanta- cinque, Tanno 1845, e fu sepolto da Mno in Santa Maria del Fiore con questo epitaíño: Ingenti Andreas jacet hie Pisanus in urna, Marmore qui potuit spirantes ducere vultus, Et simulacra Deûm mediis iniponere templis Ex aere, ex aura candenti, et pulcro elephanto. ^ ' *Questa iscrizione è certo di fattura piú moderna delle sculture; perché, oltre alio stile di essa, che non è di quel tempo, si oppone Tanno, che non può essere il 1370, nel quale, per un documento pubblicato dal citato prof. Bonaini, maestro Nino era morto. È questa una provvisione degli Anziani di Pisa, i quali, negli 8 dicembre 1368, fermarono che fossero pagati ad Andrea figliuolo del già Nino scultore, o a Tommaso pel nipote, venti fiorini d'oro, residuo del prezzo a Nino dovuto pel sepolcro ( oggi disperso ) che il doge Dell'Agnello si era da sè stesso ordinate. Le due statue fatte da Nino per la chiesa di SanZenone, antica Badia del Camaldolensi, furono quindi cómprate dai Battuti di San Gregorio. Come poi passassero in Santa Caterina e in proprietà dei Domenicani, può vedersi nar- rato nelle precitate Memorie ecc., a pag. 65 e 67. " *Fra i discepoli di Andrea, oltre Tommaso e Nino suoi figliuoli si anno- vera Alberto Arnoldi, già ricordato alia nota 1, pag. 485, il quale forse, seconde il Cicognara, lavorô in Milano tra il 1354 e il 1378; come sembra potersi ri- trarre dalla Nov. ccxxix del Sacchetti, il quale fa pure menzione del medesimo Alberto nella cxxxvi. Altro suo discepolo fu probabilmente Giovanni Balducci pisano. Ad esso molte opere s'attribuiscono ; ma noi non faremo ricordo se non di quelle che portano scritto il suo nome, e sono le seguenti ; il monumento di Guarnieri figliuolo di Castruccio, morto nel 1322, nella chiesa di San Francesco fuori di Sarzana, fatto, per quanto si ri trae dalla iscrizione, dopo la morte del padre, avvenuta nel 1328; il pergamo délia chiesa di Santa Maria del Prato in San Casciano, presso. Firenze; l'arca di san Pietro martire in Sant'Eustorgio di Milano, dell'anno 1339; e la porta maggiore di Santa Maria in Brera, col- r anno 1347. (Vedi Da Morrona, Pesa illustrata, e Cicognara.). ® Quest'epitaffio è di un secolo almeno dopo la sua morte. Esso ci è pre- zioso,per la notizia che ci dà ch'egli scolpi anche in oro e in avorio. L'urna in cui era scritto, stava, secondo un códice veduto dal Moreni, dietro il pulpito nella navata a destra di chi entra: ma da un pezzo è scomparsa. — t II Vasari non ricorda la Madonna che è sopra la porta di mezzo del Duomo d'Orvieto, scol- pita da Andrea nel 1347, quando era capomaestro di quel magnifico tempio ; nel qual carico troviamo che nel 1349, essendo egli morto, eragli successo Nino suo figliuolo. A loro si possono attribuire i piú bei bassorilievi della sua facciata. ALBERETTO DELLÀ FAMIGLIA Nino di ANDREA PISANO Ser UGOLINO notaje da Pontedera ANDREA orafo e scultore n. 1270 ? t 1348 Nino Tommaso orafo 6 scultore orafo t 1368 scultore e pittore Andrka BUONAMIGO BUFFALMACCO 499 pittoke fiokentino ( Nato ; vive va nel 1351 ) Buonamico di Cristofano, dette Buífalmacco, pittore fiorentino, il quale fu discepolo d'Andréa Tafi, e, come uomo burlevole, celebrato da messer Griovanni Boccaccio nel ^ suo Decamerone; fu, come si sa, carissimo compagne di Bruno e di Calandrino,® pittori ancor essi faceti e pia- cevoli; e, come si può vedere nell'opere sue sparse per tutta Toscana, di assai buon giudizio nell'arte sua del dipignere. Racconta Franco Sacchetti nelle sue trecento Novelle, per cominciarmi dalle cose che cestui fece es- sendo ancor giovinetto, che stando Buífalmacco, mentre era garzone, con Andrea,® áveva per costume il detto suo maestro, quando erano le notti grandi, levarsi innanzi giorno a lavorare e chiamare i garzoni alia vegghia; la qual cosa rincrescendo a Buonamico, che era fatto levar ' Vedi Giorn. vni, Nov. 3, 6, 9; e Giorn. ix, Nov. 5. ^ t II vero nome di Calandrino fu Nozzo, cioè Giovannozzo, di Ferino. II Manni trasse dagli Spogli dello Strozzi, che egli si trova nominato in uno stru- mento rogato da ser Grimaldo di ser Compagno notajo, come testimone in questo modo ; Teste Nozzo vocato Calandrino pictore quondam Perini populi Sancti Laurentii. ' Ció narra nellaNov. cxci. Parla di lui, come vedremo, anche nelle Nov. clxi, CLxiv e cxcn. 500 BÜONAMICO BUFFALMACCO in sui buono del dormiré, andò pensando di trovar modo che Andrea si rimanesse di levarsi tanto iiinanzi giorno a lavorare: e gli venne fatto. Perche, avendo tróvate in una volta male spazzata trenta gran scarafaggi, ovvero piattole, con certe agora sottili e corte appiccò a ciascuno di detti scarafaggi una candeluzza in sul dosso; e, venuta Tora che soleva Andrea levarsi, per una fessura delPuscio gli mise tutti a uno a uno, avendo accese le cándele, in camera d'Andrea: il quale svegliatosi, essendo appunto Tora che soleva chiamare Buffalmacco, e veduto que'lu- micini, tutto pieno di paura cominciò a tremare, e, come vecchio che era, tutto pauroso a raccomandarsi piaña- mente a Dio e dir sue orazioni o salmi; e finalmente, messo il capo sotto i panni, non chiamò per quella notte altrimenti Buffalmacco, ma si stette a quel modo sem- pre tremando di paura insino a giorno. La mattina poi levatosi, dimandó Buonamico se aveva veduto, come aveva fatto egli, più di mille demonj. A cui disse Buo- namico di non, perche aveva tenuto gli occhi serrati. e si maravigliava non essere stato chiamato a vegghia. Come a vegghia? disse Tafo: io ho avuto altro pensiero che di- pignere, e son risoluto per ogni modo d'andaré a stare in un' altra casa. La notte seguente, sebbene ne mise Buo- namico tre soli nella detta camera di Tafo, egli nondi- meno, tra per la paura délia ïiotte passata e que'pochi diavoli che vide, non dormi punto: anzi, non fu si tosto giorno, usci di casa per non tornarvi mai più; e vi bi- sognò del buono a fargli mutar openione. Pure, menando a lui Buonamico il prete délia parrocchia, il meglio che pote, lo racconsolò. Poi, discorrendo Tafo e Buonamico sopra il caso, disse Buonamico: To ho sempre sentito dire che i maggiori nimici di Dio sono i demonj, e, per con- seguenza, che deono anco esser capitalissimi avversarj de'dipintori; perche, oltre che noi gli facciamo sempre bruttissimi, quelle che è peggio, non attendiamo mai ad BUONAMICO BUFFALMACCO 501 altro che a far Santi e Sante per le mura e per le ta- vole, ed a far perciò, con dispetto del demonj, gli uomini più divoti o migliori: perlochè, tenendo essi demonj di ció sdegno con esso noi, come quelli che maggior possanza hanno la notte che il giorno, ci vanno facendo di questi giuochi; e peggio faranno se questa usanza di levarsi a vegghia non si lascia del tutto. Con queste ed altre moite parole seppe cosí bene acconciar la bisogna Buffalniacco, , facendogli buono ció che diceva messer lo prete, che Tafo si rimase di levarsi a vegghia, e i diavoli d'andar la notte per casa coTumicini. Ma ricominciando Tafo, tirato dal guadagno, non molti mesi dopo, e quasi scordatosi ogni paura, a levarsi di nuovo a lavorare la notte e chiamare Buffalmacco, ricominciarono anche i scarafaggi a andar attomo; onde fu forza che per paura se ne rimanesse in- teramente, essendo a ció massimamente consigliato dal prete. Dopo, divulgatasi questa cosa per la citta, fu ca- gione che per un pezzo në Tafo në altri pittori costu- marono di levarsi a lavorare la notte. Essendo poi, indi a non molto, divenuto Buífalmacco assai buon maestro, si parti, come racconta il medeshno Franco,' da Tafo, e cominció a lavorare da së, non gli mancando mai che fare. Ora, avendo egli tolto una casa, per lavorarvi ed àbitarvi parimente, che aveva allato un lavorante di lana assai agiato, il quale, essendo un nuovo uccello, era chia- mato Capodoca; la moglie di costui ogni notte si levava a mattutino, quando appunto, avendo insino allora lavo- rato, andava Buffalmacco a riposarsi; e postasi a un suo filatoio, il quale aveva per mala ventura piantato dirim- petto al letto di Buffalmacco, attendeva tutta notte a filar lo stame. Perchë non potendo Buonamico dormiré në poco në assai, cominció andar pensando come potesse * Nella Nov. cxcii, che il Vasari trascrive come 1'antecedente ed altre, onde la nuova e leggiadra semplicità delia sua narrazione. 502 BUONAMICO BUFFALMACCO a questa noia rimediare. We passò molto, che s'awide che dopo un muro di mattoni sopra inattoni, il quale di- \ddeva fra se e Capodoca, era il focolare della mala ,vi- ciña, e che per un rotto si vedeva ció che ella interno al fuoco faceva; perché, pensata una nueva malizia, foro con un succhio lungo una canna, ed appostato che la donna di Capodoca non fusse al fuoco, con essa per lo gih dette rotto del muro mise una ed un' altra volta quanto sale egli volle nella pentela della vicina; onde tornando Capodoca o a desinare o a cena, il più delle volte non poteva nè mangiare ne assaggiare ne minestra ne carne, in modo era ogni cosa per lo troppo sale amara. Per una 0 due volte ehbe pacienza, e solamente ne fece un poco di rumore; ma poi che vide che le parole non bastavano, diede per ció più volte delle busse alla povera donna, che si disperava, parendole pur essere più che avvertita nel salare il cotto. Costei, una volta fra Taltre che il ma- rito per ció la batteva, cominció a volersi scusare ; per- che, venuta a Capodoca maggior collera, di modo si mise di nuevo a percuoterla, che, gridando ella a più potere, corse tutto il vicinato a rumore; e fra gli altri, vi trasse Bufíalmacco; il quale, udito quelle di che accusava Capo- doca la moglie, ed in che modo ella si scusava, disse a Capodoca: Gnaffe, sozio, egli si vuele aver discrezione: tu ti duoli che il cotto mattina e sera è troppo salato, ed io mi maraviglio che questa tua buena donna faccia cosa che bene stia. lo, per me, non so come il giorno ella si sostenga in piedi, considerando che tutta la notte veg- ghia interno a questo suo filatoio, e non dorme, ch'io creda, un'ora. Fa'ch'ella si rimanga di questo suo le- varsi a mezza notte; e vedrai che, avendo il suo bisogno di dormiré, ella starà il giorno in cervelle e non incor- rera in cosi fatti errori. Poi, rivoltosi agli altri vicini, si bene fece parer loro la cosa grande, che tutti dissero'a Capodoca, che Buonamico diceva il vero, e cosi si voleva BUONAMIGO BÜFFALMACGO 503 fare come egli avvisava. Onde egli, credendo che cosi fusse, le comandó che non si levasse a vegghia; ed il cotto fu poi ragionevolmente salato, se non quando per caso la donna alcuna volta si levava : perche allora Buf- falmacco tornava al suo rimedio, il quale finalmente fu eausa che Capodoca ne la fece rimanere del tutto. Buffalmacco dunque, fra le prime opere che fece, lavorò in Firenze nel monasterio delle donne di Faenza, che era dov'ë oggi la cittadella del Prato,* tutta la chiesa di sua mano; e fra Taltre storie che vi fece delia vita di Cristo, nelle quali tutte si portó molto bene, vi fece l'occi- sione che fece fare Erode de'putti innocenti, nella quale espresse molto vivamente gli affetti cosi degli uccisori come deiraltre figure; perciocche in alcune balie e ma- dri, che strappando i fanciulli di mano agli uccisori si aiutano quanto possono il più, colle mani, coi graífi, coi morsi e con tutti i movimenti del corpo, si mostra nel di fuori r animo non men pieno di rabbia e furore che di doglia. Delia quale opera, essendo oggi quel monasterio rovinato, non si puó altro vedere che una carta tinta nel nostro libro de'disegni di diversi, dove è questa storia di mano propria di esso Buonamico disegnata. Nel fare questa opera alie gih dette donne di Faenza, perché era Buffalmacco una persona molto stratta ed a caso, cosi nel vestiré come nel vivere; avvenne, non portando egli cosí sempre il cappuccio ed il mantello come in que' tempi si costumava, che, guardándolo alcuna volta le monache per la turata che egli aveva fatto fare, coihinciarono a dire col castaldo, che non placeva loro vederlo a quel modo in farsetto; pur, racchetate da lui, se ne stettono un pezzo senza dire altro. Alla perfine, vedendolo pur sempre in quel medesimo modo, e dubitando che non fosse qualche garzonaccio da pestar colori, gli feciono dire ' La cittadella di San Giovan Battista, detta la Fortezza da basso. 504 BUONAMICO BUFFALMACCO dalla badessa, die avrebbono volute veder lavorar il mae- stro, 6 non sempre celui. A che rispóse Buonamico, come piacevole che era, che testo che il maestro vi fosse, lo fa- rebbe loro intendere; accorgendosi nondimeno della poca, confidenza che avevano in lui. Preso, dunque, un deseo e messovene sopra un altro, mise in cima una brocea ov- vero mezzina da acqua, e nella bocea di quella pose un cappuccio in sul manico, e poi il resto della mezzina co- perse con un mantello alia civile, aííibbiandolo bene in- torno ai deschi; e, posto poi nel beccuccio, donde 1'acqua si trae, acconciamente un pennello, si partí. Le monache, tornando a veder il lavoro per un aperto dove aveva cansato la tela, videro il posticcio maestro in pontificale; onde credendo che lavorasse a più potare, e fusse per fare altro lavoro che quel garzonaccio a cattafascio' non faceva, se ne stettono più giorni senza pensare ad altro- Finalmente, essendo elleno venute in desiderio di veder che bella cosa avesse fatto il maestro, passati quindici giorni, nel quale spazio di tempo Buonamico non vi era mai capitate; una nette, pensando che il maestro non vi fusse; andarono a veder le sue pitture, e rimasero tutte confuse e rosse nello scoprir, una più ardita delf altre, il solenne maestro che in quindici di non aveva punto lavorato. Poi, conoscendo che egli aveva loro fatto quellu che meritavano, e che l'opere che egli aveva fatte non erano se non lodevoli, fecero richiamar dal castaldo Bue- namico; il quale, con grandissime risa e piacere, si ri- condusse al lavoro, dando loro a conoscere che diíferenza sia dagli uomini aile brocche, e che non sempre ai ve- stimenti si deono 1' opere degli uomini giudicare. Ora, quivi, in pochi giorni fini una storia, di che si conten- tarono molto, parendo loro in tutte le parti da conten- tarsene, eccetto che le figure nelle carnagioni parevano ' Ordinariaccio, dozzinale. BUONAMICO BUFFALMACCO 505 loro anzi smorticcie e pallide che no. Buonamico sentencio ció, e avendo inteso che la badessa aveva una vernaccia la migliore di Firenze, la quale per lo sagrifizio della Messa serbava; disse loro che, a volere a cotal difetto rimediare, non si poteva altro fare che stemperare 1 co- lori con vernaccia che fusse buena; perche, toccando con essi cosí stemperati le gote e Taltre carni delle figure, elle diverrebbono rosse e molto vivamente colorite. Ció udito le buone suore, che tutto si credettono, lo tennono sempre poi fornito di ottima vernaccia, mentre duró il lavoro; ed egli, godendosela, fece da indi in poi con i suoi colori ordinarj le figure più fresche e colorite.* Finita questa opera, dipinse nella Badia di Settimo alcune storie di San lacopo nella cappella che ë nel chio- stro a quel Santo dedicata; nella volta della quale fece i quattro Patriarchi e i quattro Evangelisti, fra i quali ë notabile V atto che fa San Luca nel soffiare molto na- turalmente nella penna, perchë renda rinchiostro. Nelle storie poi delle facciate, che son cinque, si vede nelle figure belle attitudini, ed ogni cosa condotta con inven- zione e giudizio. E perchë usava Buonamico, per fare Pin- carnato più facile, di campeggiare, come si vede in.que- st'opera, per tutto di pavonazzo di sale, il quale fa col tempo una salsedine che si mangia e consuma il bianco e gli altri colori; non ë maraviglia se quest*opera ë gua- sta e consumata; laddove molte altre che furono fatte molto prima, si sono benissimo consérvate. Ed io, che gia pensava che a queste pitture avesse fatto nocumento Túmido, ho poi provato per esperienza, considerando al- tre opere del medesimo, che non dalTumido, ma da que- sta particolare usanza di Buífalmacco ë avvenuto che ' Si dice ( cosí il Bottari) che una volta fu sorpreso dalle monache, mentre hevea la vernaccia, e, sentando che una diceva a un'altra: ve', che se la bee; tosto spruzzó quella che aveva in bocea sulla pittura, e le monache rimasero appagate. 506 BÜONAMICO BÜFFALMACCO sono in modo guaste, che non si vede ne disegno në altro; e, dove erano le carnagioni, non ë altro rimaso che il paonazzo : il qual modo di fare non dee usarsi da chi ama che le pitture sue abbiano lunga vita. Lavorò Buonamico, dopo quello che si ë detto di so- pra, due tavole a tempera ai monaci della Certosa di Firenze ; delle quali 1' una ë dove stanno per il coro i libri da cantare, e T altra di sotto nelle cappelle vecchie.* Di- pinse in fresco nella Badia di Firenze la cappella de' Giochi e Bastari, allato alia cappella maggiore; la quale cappella, ancora che poi fosse conceduta alia famiglia de' Boscoli, ritiene le dette pitture di Buífalmacco insino a oggi;^ nelle quali fece la passione di Cristo, con aífetti ingegnosi e belli, mostrando in Cristo, quando lava i piedi ai disce- poli, umiltk e mansuetudine grandissima, e ne'Giudei, quando lo menano ad Erode, fierezza e crudeltà. Ma par- ticolarmente mostró ingegno e facilità in un Pilato che vi dipinse in prigione, ed in Giuda appiccato a un albero: onde si può agevolmente credere quello che di questo piacevole pittore si racconta, cioë che quando voleva usar diligenza e affaticarsi, il che di rado avveniva, egli non era inferiere a niun altro dipintore de' suoi tempi. E che ció sia vero; 1'opere che fece in Ognissanti a fresco, dov'ë oggi il cimitero, furono con tanta diligenza lavorate e con tanti avvertimenti, che l'acqua che ë pióvuta loro sopra tanti anni non le ha potuto guastare, në fare si che non si conosca la bontà loro, e che si sono mantenute benis- simo, per essere state lavorate puramente sopra la cal- ciña fresca. ISTelle facce, dunque, sono la Nativita di Gesù Cristo e l'adorazione de' Magi ; cioë sopra la sepoltura degli Aliotti. Dopo quest' opera, andato Buonamico a Bologna, lavoró a fresco in San Petronio nella cappella ' E queste, e quelle d'Ognissanti nominate appresso, sono perite. ^ Queste pitture, le une fin da quando il coro fu rifatto (1591), le altre più tardi, sono andate a male. BUONAMICO BUFFALMACCO 507 de^Bolognini, cioë nelle volte, alcune storie; ma da non so che accidente sopravvenuto, non le finid Dicesi che, l'anno 1302, fu condotto in Ascesi, e che nella chiesa di San Francesco dipinse, nella cappella di Santa Caterina,® tutte le storie della sua vita in fresco; le quali si sono molto ben consérvate, e vi si veggiono alcune figure che sono degne d'essere lodate. Finita questa cappella, nel passar d'Arezzo, il vescovo Guido per avere inteso che Buonamico era piacevole uomo e valente dipintore, volle che si fermasse in quella città, e gli dipignesse in Ve- SCOvado la cappella, dove ë oggi il battesimod Buonamico, messo mano al lavoro, n' aveva già fatto buona parte, quando gli avvenne un caso il più strano del mondo; e fu, secondo che racconta Franco Sacchetti nelle sue tre- cento Novelle,® questo. Aveva il vescovo un bertuccione il più sollazzevole e il più cattivo che altro che fusse mai. Questo animale, stando alcuna volta sul palco a ve- ' *Sebbene Buffalmacco vivesse molto più oitre del 1340, nel quale anno pone il Vasari la morte di lui, pur tuttavia non poteva dipingere in San Petronio, cominciato a edificare nel 1390; e molto meno nella cappella Bolognini, perciocchè il testamento di Bartoiommeo della Seta di questa famiglia, fatto nel 1408, ci as- sicura non essere a quel tempo per anche stata dipinta questa cappella. In esso ordina che si finisca e si dipinga la sua cappella ch' è in San Petronio, e descrive le storie che vi si dovevano figurare; le quali sono le stesse che ancora oggi si vedono, già erróneamente attribuite a Buffalmacco, e ad altri due pittori. Vitale e Lorenzo. {Guida di Bologna, ediz. del 1845). ^ t La cappella nella chiesa inferiere d'Assisi, già dedicata a santa Caterina vergine e martire, ed ora chiamata del Crocefisso, fu inalzata nel 1382 dal car- dinale Alvai-o, o meglio Albornoz. Le pitture che ancora vi si vedono rappre- sentano alcuni fatti della vita di quella santa. In uno de'pilastri deH'arco, per cui s'entra nella cappella, è dipinta la consacrazione del detto cardinale fatta dal papa. Esse sono lavori d'un mediocre pittore della fine del secóle xiv, e perció non possono essere di Buffalmacco, morte parecchi anni innanzi a quel tempo. ® Guido Tarlati, vescovo e signer d'Arezzo. ' Questa cappella, notava il Bottari, non si saprebbe dire ove fosse situata. Forse sotte le finestre, ne' cui vetri Guglielrao di Marcillac, del quale si legge più oltre la Vita, dipinse il Battesimo di Cristo. Ivi ancor si veggono due figure o due avanzi di figure d'antica mano, rappresentanti Giovanni il Battista e Giovanni il Vangelista. Se non che la loro iscrizione le fa del 1331, e il vescovo Guido mori nel 1327. ' Nella CLXi delle sue trecento. 508 buonamico buffalmacco dere lavorare Buonamico, aveva posto mente a ogni cosa, në levatogli mai gli occhi da dosso quando mescolava i colori, trassinava gli alberelli, stiacciava Tuova per fare le tempere, ed insomma, qnando faceva qualsivoglia al- tra cosa. Ora, avendo Buonamico un sabato sera lasciato Topera, la domenica mattina questo bertuccione, non ostante che avesse appiccato a' piedi un gran rullo di le- gno, il quale gli faceva portare il vescovo perche non po- tesse cosí saltare per tutto, egli sali, non ostante il peso che pure era grave, in sul palco dove soleva stare Buo- namico a lavorare; e quivi recatosifra mano gli alberelli, rovesciato che ebbe Tuno nelTaltro, e fatto sei mescugli e stiacciato quante uova v'erano, cominciò a imbrattare con i pennelli quante figure vi erano; e, seguitando di cos! fare, non restó se non quando ebbe ogni cosa ridi- pinto di sua mano. Ció fatto, di nuovo fece un mescuglio di tutti i colori che gli erano avanzati, come che pochi fussero, e poi sceso dal palco si parti. Yenuto il lunedi mattina, tomó Buonamico al suo lavoro, dove vedute le figure guaste, gli alberelli rovesciati ed ogni cosa sotto sopra, restó tutto maravigliato e confuso. Poi, avendo molte cose fra se medesimo discorso, pensó finalmente che qualche aretino per invidia o per altro avesse ció fatto: onde, andatosene al vescovo, gli disse come la cosa passava e quello di che dubitava: di che il vescovo ri- mase forte túrbate : pure, fatto animo a Buonamico, volle che rimettesse mano al lavoro, e ció che vi era di gua- sto rifacesse. E perche aveva prestato alie sue parole fede, le quali avevano del verosimile, gli diede sei de'suoi fanti armati che stessono co'falcioni, quando egli non lavorava, in aguato, e chiunque venisse, senza misericordia, taglias- seno a pezzi. Rifatte dunque la seconda volta le figure, un giorno che i fanti erano in aguato, ecco che sentono non so che rotolare per la chiesa, e poco appresso il ber- tuccione salire sopra Tassito; e, in un baleno fatte le me- BUONAMICO BUFFALMACCO 509 sticlie, veggiono il nuovo maestro mettersi a lavorare sopra i Santi di Buonamico. Perche chiamatolo, e mo- strogli il malfattore, e insieme con esso lui stando a ve- derlo lavorare, furono per crepar dalle risa; e Buonamico particolarmente, come che dolore glie ne venisse, non poteva restare di ridere në di piangere per le risa. Fi- nalmente, licenziati i fanti che con falcioni avevano fatto la guardia, se n'andò al vescovo, e gli disse: Monsignor, voi velete che si dipinga a un modo, e il vostre bertuc- cione vuele a un altro. Poi, contando la cosa, soggiunse: non iscadeva che voi mandaste per pittori altrove, se avevate il maestro in casa; ma egli forse non sapeva cosí ben fare le mestiche. Orsù, ora che sa, faccia da se, che io non ci son più bueno, e, conosciuta la sua virtù, son contento che per Topera mia non mi sia alcuna cosa data, se non licenza di tornarmene a Firenze. Non po- teva, udendo la cosa, il vescovo, sebbene gli dispiaceva, tenere le risa, e massimamente considerando che una bestia aveva fatto una burla a chi era il più burlevole uomo del mondo. Però, poi che del nuovo caso ebbono ragionato e riso abbastanza, fece tanto il vescovo, che si rimesse Buonamico la terza volta alT opera, e la fini. E il bertuccione, per gastigo e penitenzá del commesso errore, fu serrato in una gran gabbia di legno e tenuto dove Buonamico laverava, insino a che fu quelT opera interamente finita; nella quale gabbia non si potrebbe niuno immaginar i giuochi che quella bestiaccia faceva col muso, con la persona e con le mani, vedendo altri fare, e non potere ella adoperarsi. Finita Topera di que- sta cappella, ordinò il vescovo; o per burla o per altra cagione che egli se lo facessi; che Buffalmacco gli dipi- gnesse in una facciata del suo palazzo un' aquila addosso a un leone, il quale ella avesse morte. L'accorto dipintore, avendo promesse di fare tutto quelle che il vescovo vo- leva, fece fare un bueno assito di tavole, con dire, non 510 BUONAMICO BUFFALMACCO volere esser veduto dipignere una si fatta cosa. E ció fatto, rinchiuso che si fu tutto solo Ih dentro, dipinse, per contrario di quello che il vescovo voleva, un leone che sbranava un'aquila;^ e finita Topera, chiese licenza al vescovo d'andaré a Firenze a procacciar colori che gli mancavano. E cosi, serrato con una chiave il tavolato, se n' ando a Firenze con animo di non tornare altrimente al vescovo: il quale, veggendo la cosa andaré in lungo e il dipintore non tornare, fatto aprire il tavolato, co- nobbe. che più aveva saputo Buonamico, che egli. Perche, mosso da gravissimo sdegno, gli fece dar bando delia vita: il che avendo Buonamico inteso, gli mandó a dire che gli facesse il peggio che poteva; onde il vescovo lo mi- nacció da maladetto senno. Pur finalmente, considerando che egli si era messo a volere burlare, e che bene gli stava rimanere buriato, perdonó a Buonamico Tingiuria, 0 lo riconobbe delle sue fatiche liberalissimamente. Anzi, che è più, condottolo indi a non molto in Arezzo, gli fece fare nel Duomo vecchio molte cose, che oggi sono per terra, trattandolo sempre come suo familiare e molto fedel servitore. B medesimo dipinse pure in Arezzo, nella chiesa di San Giustino, la nicchia della cappella mag- giore.^ Scrivono alcuni, che, essendo Buonamico in Fi- renze e trovandosi spesso, con gli amici e compagni suoi, in bottega di Maso del Saggio,® egli si trovó con molti altri a ordinare la festa che, in di di calendi maggio, feciono gli uomini di Borgo San Friano in Arno sopra certe barche; e che quando il ponte alia Carraia, che al- ' *11 vescovo Guido fu uno dei piú fieri ghibellini del suo tempo; e perció dando a Buñalmacco a dipingere un'aquila che sbrana un leone, voile significare la parte ghibellina o impériale che sotto la forma dell' aquila, sua insegna, abbatte e vince la guelfa, rappresentata sotto la figura del leone. L'arme d'Arezzo è un cavallo corrente. ^ Anche la pittura di questa cappella è perita. ? Noto abbastanza per la famosa Nov. 3 della Gior. iv del nostro Boccaccio. Era sensale, e però avea bottega. BUONAMICO BUFFALMACCO 511 lora era di legno, revino, per essere troppo carico di per- soné che erano corse a quello spettacolo/ egli non vi mori, come molti altri feciono; perché, quando appnnto revino il ponte in sulla macchina che in Arno sopra le barche rappresentava T inferno, egli era andato a pro- cacciare alcune cose che per la festa mancavano. Essendo, non molto dopo queste cose, condotto Buo- namico a Pisa, dipinse nella Badia di San Paolo a Kipa d'Arno, allora de'monaci di Vallombrosa, in tutta la ero- ciera di quella chiesa da tre bande, e dal tetto insino a terra, moite istorie del Testamento vecchio, cominciando dalla creazione deiruomo e seguitando insino a tutta la edificazione della torre di Nembrot. Nella quale opera, ancorchë oggi per la maggior parte sia guasta, si vede vivezza nelle figure, buona pratica e vaghezza nel colo- rito, e che la mano esprimeva molto bene i concetti del- r animo di Buonamico; il quale non ehbe però molto disegno. Nella facciata della destra creciera, la quale è dirimpetto a quella, dov'è la porta del fianco, in alcune storie di Santa Nastasia, si veggiono certi abiti ed ac- conciature antiche, molto vaghe e belle, in alcune donne che vi sono con graziosa maniera dipinte. Non men belle sono quelle figure ancora, che con bene accomodate at- titudini sono in una barca, fra le quali ë il ritratto di papa Alessandro IV ; il quale ebbe Buonamico, secondo che si dice, da Tafo suo maestro, il quale aveva quel pontefice ritratto di musaico in San Piero." Parünente, neir ultima storia, dov'ë il martirio di quella Santa e d'altre, espresse Buonamico molto bene nei volti il ti- more della morte, il dolore e lo spavento di coloro che stanno a vederla tormentare e moriré, mentre sta le- ' Vedi i particolari di questo fatto in Giovanni Villani, lib. vin, cap. 70. ' Alessandro IV fu dal 1254 al 1261. Nella Vita del Tafi, il Vasari dice che Buíïalmacco ebbe da lui i ritratti di Celestino IV e d'Innocenzio IV, e tace d'Alessandro. 512 buonamico buffalmacco gata a un albero e sopra il fuoco. Fu compagne in que- st'opera di Buonamico, Bruno di Giovanni pittore/ che cosí è chiamato in sul veccliio libro della Compagnia ; il quale Bruno, celebrate anch'egli come piacevole nomo dal Boccaccio,^ finite le dette storie delle facciate, di- pinse nella medesima chiesa 1' altar di Sant' Orsola ® con la compagnia delle vergini ; facendo in una mano di detta Santa uno stendardo con l'arme di Pisa, che è in campo rosso una crece bianca ; e facendole porgere l'altra a una femmina, che, surgendo fra due menti e toccando con l'une de'piedi il mare, le porge ambedue le mani in atto di raccomandarsi. La quale femmina, figurata per Pisa, avendo in cape una corona d'oro e indosso un drappo pieno di tondi e di aquile, chiede, essendo molto trava- gliata in mare, aiuto a quella Santa. Ma perche, nel fare questa opera, Bruno si doleva che le figure che in essa faceva non avevano il vivo, come quelle diBuonamico; Buonamico, come burlevole, per insegnargli a fare le figure non pur vivaci, ma che favellassono, gli fece far alcune parole che uscivano di bocca a quella femmina che si rac- comanda alla Santa, e la risposta della Suinta a lei; avendo ció visto Buonamico nell' opere che aveva fatte nella me- desima città Cimabue. La quai cosa come piacque a Bruno e agli altri uomini sciocchi di quei tempi, cosï piace an- cora oggi a certi goflS, che in ció sono serviti da artefici plebei, come essi sono. E di vero pare gran fatto, che da questo principio sia passata in uso una cosa che per burla, ^ Di quanto Buffalmacco fece a fresco, con Bruno, in San Paolo a Ripa d'Arno appena rimase qualche vestigio. — *Nel vecchio libro della Compagnia de'Pittori si trova scritto Bruno Giovanni, pop. San Simone dipintore mcccl. ® Nella Novella già indicata. Vedi anche il Baldinucci. ^ * Questa importantissima tavola ora si conserva nell'Accademia delle Belle Arti di Pisa, ed il prof. Rosini ne ha dato un intaglio nella tav. xii della sua Sloria. — t É pittura assai rozza, debele di carattere, senza rilievo, ed in gran parte ridipinta. Seconde il Cavalcaselle (vol. I, p. 397), tra essa tavola e quelle de'pittori pisani Ghetto d'Jacopo, Jacopo dette Gera e Turino di Vanni, non apparisce notabile differenza. BUONAMIGO BUPFALMACGO 513 e non per altro, fn fatta fare;^ conciossiache anco nna gran parte del Campo Santo, fatta da lodati maestri, sia piena di questa gofferia. L'opere, dunque, di Buonamico essendo molto piacinte ai Pisani, gli fn fatto fare dal- Toperaio di Campo Santo qnattro storie in fresco, dal prin- cipio del mondo insino alia fabbrica delfarca di Noe,® ed intorno allé storie nn ornamento, nel quale fece il suo ritratto di natnrale; cioë in un fregio, nel mezzo del quale, e in su le quadrature, sono alcune teste, fra le quali (come ho detto) si vede la sua con un cappuccio, come appunto sta quelle che di sopra si vede.^ E perche in questa opera è un Dio che con le braccia tiene i cieli e gli elementi, anzi la macchina tutta dell'universo, Buo- namico, per dichiarare la sua storia con versi simili aile pitture di quelfetà, scrisse a'piedi in lettere maiuscole di sua mano, come si può anco vedere, questo sonetto; il quale, per Tantichità sua e per la semplicità del dire di que'tempi, mi è paruto di mettere in questo luego, come che forse, per mió avviso, non sia per molto pia- cere, se non se forse come cosa che fa fede di quanto sapevano gli uomini di quel secolo: Voi che avvisate questa dipintura Di Dio pietoso somme creatore, Lo qual fe'tutte cose con amere, Pesate, numerate ed in misura; ' Ma innanzi a Bruno, ed anche a Cimahue, non era stata fatta per burla. ^ La Creazione, la morte d'Abale, l'arca di Noè e il Diluvio. — i Oggi è provato che queste pitture non sono di BuiTalmacco, ma del pittore e mosaicista orvietano Pietro di Puccio, il quale si sa che nel 1390 fu con lettera particolare invitato a Pisa da Parasone Grassi operaio; e che andato colà, vi si ammaló, e che poi essendo guarito, prese a dipingere nel Camposanto la Goronazione délia Vergine sopra l'ingresso delia cappella Aulla, attribuita dal Vasari a Taddeo Bartoli, e le storie del Genesi. Pietro aveva dipinto nel 1370 in compagnia di Ugolino di Prete Ilario il coro delia cattedrale d'Orvieto, ed eseguito nel 1387 alcuni musaici délia facciata. (Vedi Giampi, Notizie ecc., e Gavalcaselle , op. cit., vol. I, pag. 396). ® *Intendi quello già posto a principio di questa Vita nella seconda edizione del 1568, Vasari , Opere. Vol. r. 33 514 BUONAMICO BÜFFALMACCO In nove gradi angelica natura, r nello empirio ciel pien di splendore, Celui die non si innove ed è motore, Giascuna cosa face buona e pura. Levate gli occlii del vostro intelletto, Considerate quanto è ordinate Lo mondo universale ; e con affetto Lodate lui die l'ha sï ben create; Pensate di passaré a tal diletto Tra gli Angeli, dov'e ciascun beato. Per questo mondo si vede la gloria, Lo basso, e il mezzo e l'alto in questa storia. E, per dire il vero, fu grand'animo quello di Buonaniico a mettersi a fare un Dio Padre grande cinque braccia, le gerarchie, i cieli, gli angeli, il zodiaco e tutte le cose süperiori insino al cielo della luna; e poi Telemento del fuoco, l'aria, la terra; e finalmente il centro. E per riem- pire i due angoli da basso, fece, in uno. Sant'Agostino e nell' altro, San Tommaso d'Aquino. Dipinse nel medesimo Campo Santo Buonamico, in testa dov' è oggi di marmo la sepoltura del Corte,' tutta la passione di Cristo, con gran numero di figure a piedi ed a cavallo, e tutte in varie e belle attitudini; e, seguitando la storia, fece la Resurrezione e l'apparire di Cristo agli Apostoli, assai acconciamente.^ Finiti questi lavori, ed in un medesimo tempo tutto quello che aveva in Pisa guadagnato, che non fn poco, se ne tornó a Firenze cosi povero come par- tito se n'era; dove fece moite tavole e lavori in fresco, di che non accade fare altra memoria. Intanto, essendo dato a fare a Bruno suo amicissimo, che seco se n'era tórnate da Pisa, dove si avevano sguazzato ogni cosa, al- cune opere in Santa Maria Novella; perche Bruno non ' Di Matteo Corte Cosimo I pavese, celebre medico, fattagli erigere da nel 1544. ^ Queste due pitture, d'altra mano che le antecedenti (forse d'Antonio Vite, a cui il Ciampi e il Morrona inclinano ad attribuire anche la prima), non hanno, non ostante i restauri fatti dal Rondinosi nel 1667, quasi piú nulla d'intatto. BUONAMICO BUFFALMACCO 515 aveva molto disegno në invenzione, Buonamico gli dise- gnò tutto quelle che egli poi mise in opera in una fac- ciata di detta chiesa dirimpetto al pergamo, e lunga quanto ë lo spazio che ë fra colonna e colonna : e ciò fu la storia di San Maurizio e compagni, che furone per la fede di Gesù Cristo decapitat!; ^ la quale opera fece Bruno per Guido Cainpese, connestabile allora de'Fiorentini : il quale avendo ritratto, prima che morisse, Tanno 1312, lo pose poi in questa opera armato, come si costumava in que'tempi; e dietro a lui fece un'ordinanza d'uomini d'arme tutti armati all'antica, che fauno bel vedere; mentre esse Guido sta ginocchioni innanzi a una Nostra Donna che ha 11 putto Gesù in braccio, e par che sia raccomandato da San Domenico e da Sant'Agnesa che lo mettono in mezzo. Questa pittura, ancora che non sia molto bella, considerandosi il disegno di Buonamico e la invenzione, ell'ë degna di esser in parte lodata, e mas- simamente per la varietà de'vestiti, barbute ed altre ar- mature di que'tempi; ed io me ne sono servito in alcune storie che ho fatto per il signer duca Cosimo, dove era bisogno rappresentare uomini armati all' antica, ed altre somiglianti cose di quell'età: la qual cosa ë molto pia- ciuta a sua eccellenza illustrissima, e ad altri che I'hanno, veduta. E da questo si può conoscere quanto sia da far capitale dell'invenzioni ed opere fatte da questi antichi, come che cosi perfette non siano ; ed in che modo utile e comedo si possa trarre dalle cose lore," avendoci eglino aperta la via allé maraviglie che insmo a oggi si sono fatte, e si fanno tuttavia. Mentre che Bruno faceva que- sta opera, volendo un contadino che Buonamico gli fa- cesse un San Cristofano, ne furono d'accorde in Fiorenza, e convennero per contratto in questo modo : che il prezzo ' Le fu poi dato di bianco. ^ E molti pittori infatti, anche di prima classe, ne hanno tratto utile eco- modo, ma non sono stati cosi sinceri come il Vasari per confessarlo. 516 BÜONAMiCO BUFFALMACCO fusse otto fiorini, e la figura dovesse essor dodici braccia. Andato dunque Buonamico alla chiesa, dove doveva fare il San Cristofano, trovó che, per non essore ella në alta në lunga se non braccia nove, non poteva në di fuori në di dentro accomodarlo in modo che bene stesse; onde prose partito, perchë non vi capiva ritto, di farlo dentro in chiesa a giacere: ma, perchë anco cosi non vi entrava tutoo, fu necessitate rivolgerlo dalle ginocchia in giù nella facciata di testa. Finita l'opera, il contadino non voleva in modo nessuno pagarla, anzi gridando diceva di essor assassinate. Perchë, andata la cosa agli uificiali di Gra- scia, fu giudicato, seconde il contratto, che Buonamico avesse ragione.^ A San Giovanni fra l'Arcore era una Passione di Cristo di mano di Buonamico molto bella; e, fra l'altre cose che vi erano molto lodate, vi era un Giuda appiccato ad un albero, fatto con molto giudizio e bella maniera. Simil- mente, un vecchio che si soíñava il naso, era naturalis- simo; e le Marie, dirotte nel piante, avevano ario e modi tanto mesti, che meritavano, seconde quell'ota che non aveva ancora cosi facile il modo d'esprimere gli affetti deir animo col pennello, di essere grandemente lodate. Nella medesima faccia, un Sant'Ivo di Brettagna, che aveva molte vedove e pupilli ai piedi, era buena figura; e due Angeli in aria che lo coronavano, erano fatti con dolcissima maniera. Questo edifizio e le pitture insieme furono gettate per terra l'anno d ella guerra del 1529.^ In Corteña ancora dipinse Buonamico, per messer Al- dobrandino vescovo di quella città, molte cose nel Ve- seovado, e particolarmente la cappella e tavela dell'altar maggiore; ma perchë nel rinnovare il palazzo e la chiesa ando ogni cosa per terra, non accade farne altra men- ' Questa storiella è raccontata anche dal Manni nelle Veglie. ® Vedi il Borghini, Origini di Firenze\ e ii Manni, Terme Fiorentine. BÜONAMICO BUFFALMACCO 517 zione. In San Francesco, nonclimeno, ed in Santa Mar- glierita della medesima citta, sono ancora alcnne pittnre di mano di Buonamico/ Da Cortona andato di nuovo Bno- nainico in Ascesi, nella chiesa di sotto di San Francesco dipinse a fresco tutta la cappella del cardinale Egidio Alvaro spagnnolo; e perche si portó molto bene, ne fu da esso cardinale liberalmente riconoscinto." Finalmente, avendo Buonamico lavorato molte pittnre per tutta la Marca, nel tornarsene a Fiorenza, si fermò in Perugia, e vi dipinse nella chiesa di San Domenico, in fresco, la cappella de'Bnontempi, facendo in essa istorie della vita di Santa Caterina, vergine e martire. E nella chiesa di San Domenico vecchio dipinse in una faccia, pure a fre- SCO, qnando essa Caterina, figlinola del re Costa, di- sputando, convince e converte certi filosofi alla fede di Cristo. E perche qnesta istoria è più bella che alcnne al- tre che facesse Buonamico giammai, si può dire con verita che egli avanzasse in qnesta opera se stesso: da che mossi i Perugini ordinarono, seconde che scrive Franco Sac- chetti,® che dipignesse in piazza SanFErcolano, vescovo e protettore di quella città; onde convenuti del prezzo, fu fatto nel luogo, onde si aveva a dipignere, una turata di tavole e di stuoie, perche non fusse il maestro veduto dipignere; e ció fatto, mise mano alPopera. Ma non pas- sarono dieci giorni, dimandando chimique passava quando ' i In Santa Margherita di Cortona furono scoperti últimamente alcuni lavori, avanzi di antiche pitture giudicate di Ambrogio Lorenzetti o del Berna, i quali, seconde il Vasari, dipinsero, oltre Buffalmacco, in quella chiesa. ^ i E chiaro che queste pitture della cappella del cardinale Alvaro sono quelle medesime già ricordate più indietro dal Vasari come esistenti nella cap- pella di Santa Cateiûna, che egli dice fatte nel 1302, e forse doveva dire 1382. Seconde altre memorie, Buffalmacco dipinse, per mens. Pontani vescovo d'As- sisi, la cappella di Santa Maria Maddalena nella stessa chiesa; e i suoi dipinti si conservano, henchè molto anneriti dal fume. — i Ma il Cavalcaselle dice (vol. I, pag. 390) che se fosse provato che que'dipinti de'primi anni del 300· fossero eseguiti da Buffalmacco, bisognerebbe credere che egli, piuttostochè dal Tafi, avesse appreso l'arte da Giotto. ® Nella Novella clxlk . 518 BUONAMICO BüPFALMACCO sarebbe cotale pittura finita, pensando che si fatte cose si gettassero in pretelle, che la cosa venne a fastidio a Bnonamico. Perche vennto alla fine del lavoro, stracco da tanta importmiità, deliberó seco medesimo vendicarsi dolcemente dell'impacienza di qne'popoli, e gli venne fatto; perche finita Topera, innanzi che la scoprisse, la fece veder loro e ne fii interamente soddisfatto. Ma, vo- lendo i Perugini levare snbito la turata, disse Bnonamico, che per due giorni ancora la lasciassono stare, perciocchë voleva ritoccare a secco alcnne cose ; e cosi fn fatto. Buo- namico, dunque, salito in snl ponte, dove egli aveva fatto al Santo una gran diadema d'oro, e, come in que'tempi si costumava, di rilievo con la calcina, gli fece una corona ovvero ghirlanda, intorno intorno al capo, tutta di lasche. E ció -fatto, una mattina accordato Toste, se ne venne a Firenze. Onde, passati due giorni, non vedendo i Peru- gini, siccome erano soliti, il dipintore andaré attorno, do- mandarono Toste che fusse di lui stato, ed inteso che egli se n'era a Firenze tornato, andarono subito a scoprire il lavoro ; e trovato il loro Sant' Frcolano coronato solenne- mente di lasche, lo fecion intendere testamente a coloro che governavano: i quali, sebbene mandarono cavallari in fretta a cercar di Buonamico, tutto fu invano, essen- dosene egli con molta fretta a Firenze ritornato. Preso, dunque, partite di far levare a un loro dipintore la co- roña di lasche e rifare la diadema al Santo, dissono di Buonamico e degli altri Fiorentini tutti que'mali che si possono imaginare. Ritornato Buonamico a Firenze, e poco curandosi di cosa che dicessono i Perugini, attese a lavorare e fare moite opere; delle quali, per non esser più lungo, non accade far menzione. Diró solo questo, che avendo dipinto a Calcinaia una Nostra Donna a fre- SCO col Figliuolo in collo, celui che gliel'aveva fatto fare, in cambio di pagarlo, gli dava parole; onde Buonamico, che non era avvezzo a essere fatto fare nè ad essere uc- BÜONAMICO BUFFALMACCO 519 •cellato, pensó di valersene ad ogni modo. E cosí, andato una mattina a Calcinaia, converti il fanciullo che aveva dipinto in braccio alia Vergine, con tinte senza colla o tempera, ma fatte con l'acqua sola, in uno orsaccliino: la qual cosa non dopo molto vedendo il contadino che raveva fatta fare, presse che disperato, ando a trovare Buonamico, pregándolo che di grazia levasse Torsacchino e rifacesse un fanciullo come prima, perché era presto a soddisfarlo: il che avendo egli fatto amorevolmente, fu della prima e della seconda fatica senza indugio pagato; e bastó a racconciare ogni * cosa una spugna bagnata. Finalmente, perche troppo lungo sarei se io volessi rae- contare cosi tutte le bnrle come le pitture che fece Buo- namico Buffalmacco ; e massimamente praticando in bot- tega di Maso del Saggio, che era un ridotto di cittadini e di quanti piacevoli uomini aveva Firenze e burlevoli; porró fine a ragionare di lui: il quale mori d'anni set- tantotto,® e fu dalla Compagnia della Misericordia, es- sendo egli poverissimo, e avendo più speso che guada- gnato, per essere un nomo cosi fatto, sovvenuto nel suo male in Santa Maria ISTuova, spedale di Firenze; e, poi morto, neirOssa (cosi ehiamano un chiostro dello spe- dale, ovvero cimitero), come gli altri poveri, seppellito, I'anno 1340.^ Furono T opere di cestui in pregio, mentre * *ln una stanza della prioria della chiesa di Calcinaja, un miglio distante ■dalla Lastra a Signa, si vede tuttora 1'avanzo di una pittura sui muro, rappre- sentante la Madonna col Bambino in braccio, e varj santi; opera cortamente ■del secolo xiv, che una tradizione locale dice anc' oggi esser quella di Buífal- ■maceo qui ricordata. " Nella prima edizione si legge sessantotto, ma forse per errore, corretto ■nella seconda. ® *Nel vecchio libro della Compagnia de'Pittori si trova notato il nome di Buonamico Cristofani detto Buffalmacco, coH'anno mcccli ; dal che si conosce •che il Vasari erró quando pose la morte di questo pittore all'anno 1340, e si l'a dubbio se potesse esser nato, corn'egli dice, nel 1262; tanto piú che noi ab- biamo congetturato che Tafo potesse esser nato nel 1250 incirca e non nel 1215, ■come aíferma il Vasari. Senza tener conto, perché non autentícate da nessun documento o testimonianza, delle altre opere che il Richa vuole attribuire a 520 BUONAMICO BÜFFALMACCO visse, 0 dopo sono state come cose di quelPetá sempre lodate. Buífalmacco, noi dubitiamo fortemente se il saggio che il prof. Rosini ne ha dato nel tom. II delia sua Storia, traendolo da San Domenico di Perugia, possa esser veramente 1'avanzo di quelle pitture che il Vasari dice aver Buífalmacco operate nella cappella Buontempi. Taceremo del dubbio nostro che queste pitture sieno del xv, anzichè del xiv secolo, non potendosi sopra un intaglio stabilire un tal giudizio; ma solamente noteremo, che la santa Caterina in esso figurata non è la santa vergine e martire, ma si bene la seráfica da Siena, come mo- stra chiaramente I'abito domenicano, il giglio, il libro ecc.; la quale essendo nata nel 1347 e morta nel 1380, non poteva esser dipinta da Buífalmacco, anche protraendo la vita di quest'artefice oltre il 1351. AMBEUOGIO LOEENZETTI 521 pittorb sanese ( Nato ; morte circa il 1333 ) Se ë grande, corne ë senza dubbio, l'obbligo clie aver deono alla natura gli artefici di bello ingegno, molto maggior dovrebbe essere il nostro verso loro, veggendo eh' eglino con molta sollecitudine riempiono le città d'ono- rate fabbriche e d'utili e vagM componimenti di storie, arrecando a se medesimi il più delle volte fama e ric- chezze con Topere loro; comefece Ambruogio Lorenzetti^ pittor sánese,^ il quale ebbe bella e molta invenzione nel comporre consideratamente e situare in istoria le sue figure. Di che fa vera testimonianza in Siena ne'Frati Minori una storia da lui molto leggiadramente dipinta nel chiostro ; dove ë figúrate in che maniera un giovane si fa frate, ed in che modo egli ed alcuni altri vanno al Soldano, e quivi son battuti e sentenziati aile forche, ed impiccati a un albero, e finalmente decapitati; con la^ sopraggiunta d'una spaventevole tempesta. Nella quale pittura, con molt'arte e destrezza, contraffece il rabbuf- famento dell' aria, e la furia delia pioggia e de' venti ne'travagli delle figure: dalle quali i moderni maestri * Egli costumô sottoscriversi nelle pitture sue Ambrosies Laurentii , ma nei ricordi ciel tempo è più spesso chiamato Ambrogio Lorenzetti, o del Lorenzetto;^ denominazione che egli ha comune con Pietro suofratello, e non conosciuto per tale dal Vasari. 522 AMBROGIO LORENZETÏI lianno imparato il modo ed il principio di qiiesta inven- zione, per la quale, come inusitata innanzi, mérito egli commendazione infinita/ Fu Ambruogio pratico coloritore a fresco; e nel maneggiar a tempera i colori gli adoperò con destrezza e facilità grande : come si vede ancora nelle tavole finite da lui in Siena alio spedaletto che si chiama Monna Agnesa," nella quale dipinse e fini una storia con nuova e bella composizione. Ed alio Spedale Grande, nella facciata, fece in fresco la Nativita di Nostra Donna, e quando ella va fra le vergini al templo:® e ne'Frati di SanFAgostino di detta città, il Capitolo: dove, nella volta, si veggiono figurati gli Apostoli con carte in mano, ove è scritto quella parte del Credo che ciascheduno di loro fece; ed a piè una istorietta contenente con la pittura quel medesimo che è di sopra cou la scrittura significato. Appresso, nella facciata maggiore, sono tre storie di Santa Caterina martire, quando disputa col tiranno in un tem- pio; e nel mezzo, la passione di Cristo, con i ladroni in croce e le Marie da basso, che sostengono la Vergine Maria venutasi meno : le quali cose furono finite da lui con assai buona grazia e con bella maniera/ Fece ancora ' i Le piú antiche pitture della tribuna o coro dietro 1'altar maggiore del Duomo d'Orvieto non sono del Lorenzetti, ma di maestro Ugolino di Prete liario orvietano, allogategli il 30 di maggio, e finite verso il 1378, coll'aiuto di Pietro di Puccio, giá ricordato, di Antonio d'Andreuccio e di Francesco d'Antonio pit- tori d'Orvieto. ^ *Lo spedale de'SS. Gregorio e Niccoló in Sasso fu detto di Mona Agnese, perché fondato nel 1278 da Agnese d'Arezzo, figliuola di Aífrettato e moglie di un Orlando. L'alfresco di Ambrogio, che non esiste piú, non era propriamente in questo spedale, ma nella facciata d'una chiesetta contigua, dedicata a san Ber- nardino, oggi soppressa. Rappresentava alcuni fatti della vita della Madonna. La tavola della Presentazione al Templo, dipinta nel 1342, è oggi nella Gallería dell'Accademia delle Belle Arti di Firenze. * *Questa pittura, che Ambrogio fece in compagnia di Pietro suo fratello nel 1335, fu rovinata nel 1720. Vedi la nota 2, pag. 471, della Vita di Pietro Lo- reszetti ( Laurati ). ' *Nei diversi cambiamenti accaduti in quella chiesa andarono perdute. Nella volta d'un arco, in una stanza posta a destra del corridore che introduce nel Collegio Tolomei, si veggono in mezza figura un Cristo, san Lorenzo e santa Caterina martire; pitture che paiono avanzi di quelle fattevi da Ambrogio. AMBROGIO LORENZETTI 523 nel Palazzo delia Signoria di Siena, in una sala grande, la guerra d'Asinalunga,^ e la Pace appresso e gli acci- denti di quella;® dove figuro una cosmografia perfetta, secondo que' tempi ® : e nel medesimo palazzo fece otto sto- rie di verdeterra, inolto pulitamente.'^ Dicesi che mandó ancora a Volterra una tavola a tempera, che fu molto lodata in quella città; e a Massa, lavorando in compagnia d'altri una cappella in fresco ed una tavola a tempera, fece conoscere a coloro, quanto egli di giudizio e d'in- valesse ^ gegno nell'arte delia pittura ; ed in Orvieto di- pinse in fresco la cappella maggiore di Santa Maria. Dopo quest'opere, capitando a Fiorenza, fece in San Procolo una tavola, ed in una cappella le storie di San Mccolò in figure piccole, per soddisfare a certi amici suoi, de- • *Intendi la vittoria riportata dai Senesi sopra la Compagnia del Cappello nelFanno 1363. Essa è dipinta a chiaro-scuro sulla párete sinistra dell'antica sala del Gonsiglio, detta delle Balestre o del Mappamondo. É da dubitare se ve- raraente questa pittura sia di Ambrogio; perché sebbene qualche crónica lo dica, è difficile il persuadersi che a quel tempo fosse egli ancora vivo. ^ *A chi abbia qualche conoscenza delle opere d'arte che fan ricco il Pa- lazzo pubblico di Siena, bastera anche questo brevissimo e indistinto accenno che dá il Vasari, per intendere che egli ha qui voluto parlare delle pitture alie- goriche che sono nel Palazzo suddetto,in quella sala detta de'Nove della Pace. II breve spazio concesso a una nota non ci dá luogo a descrivere queste filosofi- che e morali invenzioni allegoriche : ma importando grandemente 11 conoscere quanta sapienza civile e política l'artista filosofo seppe racchiudere dentro quelle allégorie, abbiamo creduto opportune descriverle e dichiararle per mezzo d'un Commentario, ch'è quello posto dopo questa Vita. ® *Un avanzo di questa cosmografia, o mappamondo dipinto sulla tela, era, sui finiré del secóle scorso, appeso ad una delle pareti della sala delle Balestre sopra nominata. Ora, anche quell' avanzo è perduto. Racconta il Tizio che questo lavoro, che doveva essere assai singolare, fu fatto nel 1344. ' *Furono dipinte nel 1345, ma da gran tempo sono perdute. Poco avanti aveva dipinto per questo luogo una tavola dell'Annunziata, che stette già nella stanza del Donzelli; la quale, nel 1839, fu trasferita nella Gallería dell'Istituto di Belle Arti di Siena. Essa porta scritto il nome del pittore, e I'anno 1344. ® * Della tavola di Volterra non abbiamo notizia. Gli aifreschi di Massa sono perduti. 11 dottor Gaye, però, diceva esister tuttavia la tavola fatta per questa città, ed esser quella che si vede nella cancelleria; dov'è rappresentata una Nostra Donna col Figliuolo in braccio, seduta sur un trono sostenuto da due an- geli, con i santi Pietro, Paolo e Francesco, san Cerbone, vescovo e protettore di Massa, ed altri santi e angeli attorno. Nei gradini sottostanti ai piedi della Vergine stanno assise le tre virtú teologali, Fede, Speranza e Carita. 524 AMBROGIO LOKENZETTI siderosi di veder il modo deH'operar suo; ed in si breve tempo condusse, come pratico, questo lavoro, che gli ac- crebbe nome e riputazione infinita/ E questa opera, nella predella delia quale fece il suo ritratto, fu causa che, Tanno 1335, fu condotto a Cortona per ordine del ve- scovo degli übertini, allora signore di quella città;^ dove lavorò, nella chiesa di Santa Margherita, poco innanzi stata fabbricata ai Frati di San Francesco nella sommità del monte, alcune cose, e particolarmente la metà delle volte e le facciate, cosi bene, che ancora che oggi siano quasi consúmate dal tempo,^ si vede ad ogni modo nelle figure aífetti bellissimi, e si conosce che egli ne fu me-' ritamente commendato. Finita quesFopera, se ne tornò Ambruogio a Siena dove visse onoratamente il rimanente délia sua vita, non solo per essere eccellente maestro nella pittura, ma ancora perche, avendo dato opera nella sua giovanezza aile lettere, gli furono utile e dolce coin- pagnia nella pittura, e di tanto ornamento in tutta la sua vita, che lo renderono non meno amabile e grato, che il mestiero délia pittura si facesse. Laonde, non solo praticò sempre con letterati e virtuosi uomini, ma fu ancora, con suomolto onore ed utile, adoperato nehna- neggi délia sua repubblica/ Furono i costumi d'Ambruo- gio in tutte le parti lodevoli, e piuttosto di gentiluomo e di filosofo che di artefice: e, quelle che piii dimo- stra la prudenza degli nomini, ebbe sempre l'animo di- sposto a contentarsi di quelle che il mondo ed il tempo recava: onde sopportò con animo moderato e quieto il ' *Di queste opere oggi ignoriamo la sorte. Il Cinelli in una di esse, cioè in una tavola con Nostra Donna, lesse Ambrosiiis Laurentii de Senis 1332. ^ Chiamavasi Buoso, ed era vescovo d'Arezzo. Ma non è vero che in Cor- tona avesse signoria, giacchè fino dal 1325 papa Giovanni XXII avevala tolta al suo antecessore, Guido Tarlati. Ma è da notare che contemporáneo a Buoso fu vescovo di Cortona un Ranieri degli Ubertini, il quale ben potrebbe essere colui che chiamó il Lorenzetti a Cortona. ' Oggi non ne rimane piú nulla. ' Questo dai libri pubblici non apparisce. AMBROGIO LORENZEÏTI 525 bene ed il male die gli venne dalla fortuna. E veramente non si può dire quanto i costumi gentili e la modestia, con l'altre buone creanze, siano onorata compagnia a tutte Tarti, ma particolarmente a quelle che daU'in- telletto e da nobili ed elevati ingegni procedono: onde dovrebbe ciascuno rendersi non meno grato con i co- stumi, che con Teccellenza delbarte. Ambruogio, final- mente, neU'ultimo di sua vita fece con molta sua lode una tavela a Monte Oliveto di Chiusuri;* e poco poi, d'anni ottantatre, passò felicemente e cristianamente a miglior vita. Furono le opere sue nel 1340.^ Come s'ë dette, il ritratto di Ambruogio si vede di sua mano in San Procolo nella predella della sua tavela con un cappuccio in. capo. E quanto valesse nel disegno si vede nel nostre libro, dove sono alcune cose di sua mano assai buone. ' *La tavola di.Montoliveto probabilmente è perduta. Rispetto poi allaetá, in cui mori Ambrogio, pai'e a noi che, trovandosi il suo nome ricordato perla prima volta nel 1323, si debba pensare che egli sia nato o verso la fine del se- colo xm o sul principiare del seguente, e perciô supporre che morisse assai piú giovane di quel che non afferma il Vasari; perché arrimessi questi due dati: 1' uno del Vasari, che Ambrogio morisse di 83 anni; l'altro (che è nostro), che ció accadesse nel 1348; ne seguirebbe che Ambrogio fosse nato nel 1265. Ma oltre che queste cose è impossibiie che sieno provate, c'é Faltra diíñcoltá di saper conciliar i supposti tempi del suo nascere e della sua giovanezza colla maniera da lui seguita nella pittura: maniera, la quale sebbene senta assai di Duccio, e per conseguente arieggi i Bizantini, pure ci scopre in lui un maestro che già ha spinto più innanzi la Scuola, ed ha cercato di liberarla da quel vecchiume che pur qualche volta nei maestri senesi più tenaci della tradizione greca si manifesta. Quindi è che alla nascita di Ambrogio è da assegnare altro tempo, e più vicino che non sia il 1265. Che anzi, se il nome suo, come pittore, non apparisce prima del 1323, ragion vuole che a quel tempo .egli dovesse essere giovane, e forse andar di pari l'età col secolo. La peste del 1348 troncó precocemente il corso a moite nobili vite! ^ Nella prima edizione il Vasari termina la presente Vita con queste parole: « Et i suoi cittadini, per honore ch'egli nell'una et nell'altra scienza aveva fatto « alla patria, della morte di lui infinitamente et per molto tempo si dolsero, come « si vede per la iscrizione ch' essi gli fecero, cioè : Ambrosii interitum quis satis cloleat. Qui viros nobis longa aetate mortuos Restituebat arte et raagno ingenio ? Picturae decus, vivas astra desuper! COMMENTARIO 527 ALLA Vita di Ambrogio Lorenzetti Intorno allé piiture allegoriche della sala de'Nove nel Palazzo puhhlico di Siena Sulla fine del secolo xiii, e nel corso del secolo xiv, nniversalniente si rinnovo ed ebbe grandissimo crédito una maniera di pittura, la quale con allegoriche personificazioni e con appropriati simboli intese a porgere precetti salutari di morale e civile sapienza ; acciocche i magistrati aves- sero nelle pareti dipinte come il códice delle leggi abili a regolare I'am- ministrazione della giustizia, e il popolo quelli ammaestramenti più utili e più dicevoli ad educarlo a civilth, ed infondergli nel petto il santo amore della giustizia e della patria. Delle pitture allegoriche stanno in esempio quelle che Giotto fece nella cappella degli Scrovegni a Padova e nel Palazzo del Potesta di Firenze ; quelle attribuite a Simone di Martine senese ed a Taddeo Gaddi nel Capitolo detto il Cappellone degli Spa- gnuoli in Santa Maria Novella ; le poetiche invenzioni dello stesso Gaddi nel tribunale della Mercanzia vecchia ; e molte altre che per brevith non si ricordano. Tra i pittori di questo tempo che si esercitarono nelle rappresentazioni allegoriche, non dubitiamo di affermare che il più dotto, il più universale e il più eccellente, sia stato il nostro Ambrogio Lorenzetti; il quale nei freschi della Sala dei Nove o della Pace ( erróneamente detta delle Bale- stre), nel Palazzo pubblico di Siena, ci ha lasciato di questa maniera di pittura il più splendido ed insieme il più bene ordinate e il più copioso monumento ed esempio figurato di sapienza morale, civile e politica. Queste pitture tutte s'informano della dottrina aristotélica, salita in molto grido a quell'eta; della quale il Lorenzetti dovette aver fatto uno studio pro- 528 COMMENTARIO ALLA VITA fondo, ed arriccliitone la mente, quando gli fu commesso di adornare le pareti delia sala di quel Magistrate, che allora reggeva le cose del Co- mune Senese. II Lorenzetti s' ingegno di porgere agli sguardi ed allé menti dei suoi concittadini, per mezzo di visibili fonne e di sensibili immagini, quegl'insegnamenti di morale virtu che meglio valessero ad acquetare e correggere i loro animi, sempre conturbati dall'ira delle discordie e dallo spirito di parte, infondendo ne'loro cuori sentimenti di pace e di rettitu- dine. Correvano tempi ben tristi; e il Lorenzetti avea conosciuto quanto i suoi concittadini abbisognassero di simiglianti esempj ; e da buon artefice ch'egli era, e da letterato e filosofo insieme, seppe immaginare certe in- venzioni d'onde essi imparassero la scienza dell'ottimo governo, e come si avviasse alia prosperità un popolo, mantenendo in signoria la giustizia, dalla quale hanno origine la pace, la concordia, e tutti i benefici eífetti che da queste virtù conseguono. JSÍel 1337, eletto il Lorenzetti dalla Signoria dei Nove Governatori di Siena a dipingere la sala del loro uffizio, ' rappresentò in quelle pareti, per mezzo di tre grandi poetiche invenzioni, la Giustizia, e poi la Con- cordia e la Pace, unite allé altre Virtù che si appartengono all'ottimo governo; insieme cogli effetti che da esse virtù, dove hanno sede e regno, derivano; lo stato interno ed esterno di una citta soggetta a mala signoria, e i perniciosi effetti che da essa ne vengono ai popoli. Párete prima. — E primieramente, alla sinistra di chi guarda, si vede la figura délia Giustizia, cou attorno la scritta diligite justitiam qui judi- cATis TERKAM, tratta dal libro delia Sapienza;^ ed è donna incoronata e regalmente vestita, la quale con maestosa gravita siede sopra un trono dorato; e levando gli occhi, gli tien fisi nella Sapienza {Sapîentia) che sta sopra il capo di lei, con un libro nella sinistra, e colla destra sosté- nente il perno delle bilance; mentre la Giustizia, stendendo le braccia, ne ' DaU'anno 1338 al 1340, ne'libri cli Biccherna del Comune di Siena si trovano piú partite di pagamenti fatti ad Ambrogio Lorenzetti per le dipin- ture che ha fatte nel Palazzo de Signori Nove. Questi documenti, portante, mo- strano chiaro che in quell'intervalle, e non nel 1343 o nel 1348 il Lorenzetti dipingesse in questa Sala, come erróneamente suppose il Delia Valle (Lettere Senesi, II, 221).— Queste pitture, per la debolezza dell'intonaco, o per la poca cura che se ne ebbe, ebber presto bisogno d'essere restaúrate. Nel 1518, Giro- lame di Benvenuto diè mano a ridipingere un pezzo di faccia della Sala delia Pace. E nel 1521 toccô il medesimo incarico a Lorenzo di Francesco. Gosi Dante, ne! xviii del Paradiso, glorifica le anime de'Beati che am- ministrarono dirittamente la giustizia nel mondo ; le quali, volitando nel cielo di Giove, descrivevano co' loro corpi in piú figure le parole diligite justitiam ecc. ® Facciamo avvertito una volta per sempre, che le parole di corsivo fra pa- rentesi imí.icano le scritte che accompagnano queste pitture. DI AMBRODIO LORENZETTI 529 tien coi pollici pari i dischi. Dal destre disco delle bilance sorge un ge- nietto alato, il quale all'uno dei due uomini genuflessi dinanzi a lui pone in capo una corona, all'altro taglia colla spada la testa; e questo rap- presenta la Giustizia Distributiva {Distributiva). L'altro genietto cbe è nell'altro disco, sta in atto di dare una lancia e una spada a uno dei due inginocchiati ; e all' altro versa del denaro in un cofanetto. II cbe significa la Giustizia Commutativa {Commutativa). Sotto la figura della Giustizia siede una donna incoronata e riccamente vestita, sulle ginocchia della quale posa una pialla a due manichi, dov'è scritto CONCORDIA.' Questa donna tiene in mano le due corde che sono ap- piccate ai dischi delle bilance; le quali corde passano per mano di ven- tiquattro personaggi, posti a due a due sullo stesso ripiano della Concordia, i quali figurano i cittadini che sono bene affetti del Reggimento. Nella parté della párete a destra di chi osserva, e nel piano corrispon- dente a quelle della Giustizia, è un gran vecchio con bianca barba, tutto grave e severo in volto, maestosamente seduto in uno scanno più alto delle altre figure. Cinge il suo capo diadema di re, e le ampie spalle copre un manto nero, sotto il quale apparisce una veste bianca, tutta ricamata a oro e tutta ricca di pietre preziose e perle. Colla destra brandisce un lungo scettro, a cui vanno a riunirsi e legarsi i capi delle due corde pas- sate per le mani de'ventiquattro personaggi suddetti; e nella sinistra tiene uno scudetto rotondo, dov'è effigiata Nostra Donna col Divino Figliuolo in braccio, e due angioletti inginocchiati ai lati, che sorreggono due can- delabri; coll'epigrafe salvet virgo senam veterem quam signat amenam. Dal colore bianco enero delle sue vesti, ch'e quelle della Balzana, arme del Comune di Siena ; dalla rappresentazione ch' è in quelle scudetto, dove è la forma e la leggenda dell'antico sigillé della Repubblica; dalla lupa che allatta.i due putti, insegna di Siena, colonia romana; ed infine, dai monogrammi C. S. C. C. V. {Comune Senarum Cum Civilihus Virtutihus) scritti interne al capo di questa figura ; ben si ravvisa che il pittore voile sotto quelle sembianze personificare il Reggimento, ossia il Comune di Siena. ^ ' II Delia Valle, non osservando bene a quell'istrumento, lo prese per una cassetta, dalla quale questa figura par che distribuisca un non so che alla turba di genti ! ! ^ Intorno a questa figura sono state -dette le più belle cose del mondo. Il Faluschi stinàa essere la Giustizia ; il Della Valle {Lettere Senesi, tom. II, pag. 221 ), copiando il Pecci, nelle Iscrizioni senesi mss. dice che essa rappresenta quel Tofo Pichi padre di 148 figliuoli, come narra una favolosa leggenda di un ero- nista, o piuttosto una tradizione popolare. II Rio ( Poésie chrétienne dans ses formes), ii quale trovó per sé incomprensibili tutte le altre pitture allegoriche di questa sala, ravvisó chiaramente Garlo Magno, o taluno de'suoi successor!!!I VASARt, Opere. — Vol. I. 3i 530 COMMENTARIO ALLA VITA Sopra il capo del Reggimento di Siena sono le tre Virtù teologali^ delia Fede (Fides), Speranza (Spes), e Garita (Caritas). Nel medesimo ordine e ripiano dov'è il Reggimento, scguono sette- Virtù civili, con i loro appropriati emblemi ciascuna. La prima, a destra del Reggimento, è la Pace (Pax)-, giovane donna avvenentissima, vestita di blanca veste discinta; la quale stando col bellissimo corpo mollemente sed uta sopra un cuscino, che nasconde una corazza, fa del destro gomito sostegno al capo incoronato d' olivo ; « un ramo d' olivo porta nella sini- stra, calcando col pie un elmo e uno scudod Di costa a lei siede la Poxíqzt. z. (Fortitudo)-, donna incoronata, soste- nente una colonna nella destra, uno sendo nella sinistra. Segue la Prudenza (Prudentia), sotto le sembianze di donna attem- pata, con volto severo, col capo fasciato da un panno bianco, sopravi la corona; colla destra accenna un'iu'na, che tiene nella sinistra, dov'è scritto' PKETEKITDM ^ . PRESENS . FUTURDM. Alia sinistra del Reggimento stanno sedute altre tre Virtù. La prima è la Magnanimità (Magnanimitas)-, donna incoronata anch' essa, con tiara nella destra, e sulle ginocchia un bacile ripieno di moneta. Succédé la Temperanza (Temperantia)-, giovane donna, vestita d'un gran manto verde, la quale colla mano sinistra addita un oriuolo a pol- vere, che tiene nella destra. La terza Virtù è la Giustizia (Justitia), figura coronata; e una corona porta nella sinistra mano; con l'altra tiene impugnata la spada, e pendente un capo reciso. Questa è figurata per la giustizia punitrice, a differenza del- raltra che rappresenta la giustizia in genere, ed anche la giustizia civile^ Sotto queste tre Virtù, in corrispondenza a' ventiquattro personaggi che dalla Giustizia si muovono inverso il Reggimento di Siena, il Lorenzetti collocò i prigionieri di guerra, 1' offerta de'tributi, censi e signorie di terre; dove si vedono due inginocchiati a'pie del Reggimento fare 1'offerta d'un Castelló; poi alcuni malfattori, col cappuccio calato sugli occhi, e le ma,ui legate al dorso, üna fila di gente a cavallo, armata di lancia e vestita di II Rumohr lo designa col nome genérico di principe. — Ma questa era la rappre- sentazione consueta del Reggimento di Siena; imperciocchè, ancora nella coperta di un libro delle Gabelle de' Contratti del Comune da calende di luglio 1343 a ca- lende di gennajo 1344, si vede dipinto il Reggimento colle stesse vesti, col mede- simo scudetto, dov'è il suggello delle città sotto il patrocinio delia Vergine, e in- torno al capo i soliti monogrammi G. S. G. G. V. ' Da questa figura délia Pace, ch'è la meglio disegnata e dipinta di ogni altra, prese nome la Sala. ^ Prudenza fate che sia vostra guida — Che con tre occhi tre tempi go- ■verna. Gosi cantava Matteo Frescobaldi. DI AMBROGIO LORENZETTI 531 ferro, sta schierata ai latí del Eeggimento. Questi armati sono qui a si- gnificare che gli Stati si reggono non colla sola forza morale, che sono le Virtù, le quali al bene serven di guida e sostegno; ma ch'è necessària eziandio la forza materiale, che i male intenzionati distolga dal malefizio, i turbatori dell'ordine iDubblico punisea e costringa. Sotto questa prima istoria è scritto il nome del pittore, cosi: Ambrosios Laürentii hic pinxit utrinque. Un'altra scritta, poi, che serve a dichiarare il senso di questa pittura, si legge sotto la figura délia Concordia ; ed è la seguente ' : Questa santa Virtù là dove regge, Induce ad unità li animi molti; E questi a ciô ricolti Un ben comune per lor signor si panno ; Lo qual, per governar suo stato, elegge Dl non tener glà mai gli occhi rivolti Da lo sprendor de'volti Delle Virtù che torno a lui si danno. Per questo, con triunfo a lui si stanno Censi, tributi e signorie di terre; Fer questo, sanza guerre Seguita poi ogni civile effetto. Utile, necessario e di ^ diletto. Párete seconda. — Con le istorie dipinte in questa seconda faccia voile il pittore rappresentare la vita interna délia citth, le arti, i mestieri, i traffichi che in essa si esercitano; e le occupazioni, le faccende e le in- dustrie délia villa; ossia la vita cittadina e la vita rusticana, quali esse sono sotto i benefici effetti delia Pace e delia Concordia. Metà di questa párete, adunque, presenta la parte interna di una po- pelosa citta, la quale certamente è la pittoresca patria del nostro Ambregio; com' è chiaro dai grandi palazzi muniti di torri, da quelle case fatte di mattoni arrotati, e dal ritratto del Duomo, che resta nell'angelo della párete. Le botteghe sono piene di gente che attende alla propria arte o mestiere: nel mezzo è rappresentato un corteo o festa nuziale, dove si ^ Si questa come le altre iscrizioni delle due pareti seguenti sono scritte con lettere cosi dette gotiche, e tutt' andanti, senza disgiungere i versi. A meglio farle intendere, abbiamo diviso i versi, e sciolto le abbreviature delle parole. ^ Non dubitiamo che questa e tutte le altre iscrizioni poetiche che accom- pagnano le pitture di questa sala, sierio state composte dal Lorenzetti medesimo. Colui che in queste filosofiche invenzioni mostró tanta poesia, doveva similmente con forma poética descriverle e dichiararle. — Sprendor e torno, secondé la natia pronunzia, invece di splendor e attorno. 532 COMMENTARIO ALLA VITA vede la sposa novella snr nn cavallo bianco scorrere per la citta, ingbir- landata e vestita di rosso, accompagnata da cavalieri, paggi e giullari, parte a piè, parte a cavallo. Dietro alla comitiva, nove fanciulle, con leg- giadri atteggiamenti l'una tenendo l'altra j)er mano, si vedono in giro molto graziosamente bailare ; mentre una di loro, cbe sta nel mezzo, can- tando e sonando il cembalo, guida la danza. Nell'altra metà delia párete voile il pittore dar conto delia vita ru- sticana, figurando le faccende e" gli spassi delia villa, il coltivamento e il frutto de' campi. L'Lidietro délia camj)agna è sparso di case e di coltivate colline, dove cbi ara, chi semina, altri miete, altri raccoglie. Più innanzi un giovane, accompagnato dal suo falconiere, da altri familiari e da mute di bracclii, esce dalla città alla caccia. Più sotto, altra gente sta intenta, cbi con reti, cbi con balestre, a dar la caccia agli uccelli ed agli ani- mali salvatici. Per la via cbe conduce alla città, si veggono i contadini guidare innanzi a se, alla volta di quella, i lor giumenti caricbi di grano o di biade. Tutto questo a significare le industrie, i trafficbi, il commercio, della città; ma però il commercio terrestre. Per dar conto eziandio del com- mercio marittimo, nell'estrema parte di questa medesima istoria, sopra un promontorio cbe sporta sul mare, dipinse Talamone e il suo porto. ' Nell'alto di questa párete è una figura volante, la quale è la Sieurezza ( Securitas ), con una forca e un malvagio a quella impiccato ; e nella de- stra una cartella, dov'è scritto: Senza paura ogni uom franco cammini, E lavorando semini ciascuno, Mentre che tal comuno Manterrà questa donna in signoria , Ch'ella ha levata a'rei ogni balia. Nella parte inferiere è un'altra rimata leggenda, scritta per quanto è lunga la párete, la quale dice ; volgete gli occhi a rimirar costei, Voi che reggete, .ch' è qui figurata, E FER su'eccellenzia CORONATA ; La qual sempre a ciascvn suo dritto rende. Guárdate quanti ben vengon da lei. * Il Lorenzetti voile ritratto qui il porto di Talamone, perché i Senesi lun- gamente e vanamente sperarono di far di quel luogo un ricco e frequentato emporio; e Y avere sperato in Talamone, come dice l'Alighieri, costó a'Senesi innumerevole moneta, inútilmente spesa in rifarlo e mettervi abitatori. DI AMBROGIO LORENZETTI 533 e come è dolce vita e riposata quella de la città du'è servata QUESTa virtù che plú d'altra risprende. Ella guarda e difendb Chi lei onora, e lor nutrica et pasce; Da la suo' luce nasce El meritar color ch'operan bene, Et agl'iniqui dar debite pene. Párete terza. — Seno in questa terza ed ultima párete rappresentati gli effetti lagrimevoli e funesti della Tiranuia, ossia del mal governo, per contrapposto ai benefici effetti dell'ottimo governo, espressi nella párete innanzi descritta. Questa faccia presenta, nell'intiero, l'aspetto di una citta adorna di case e di torri. Fuori delle sue mura seggono sopra un elevato seggio sette figure, delle quali quella che tiene il mezzo, ed è la più grande, rappresenta la Tirannia {Tijrannia)-, figura di orribil sem- biante, cornuta, losca, e con due zanne sporgenti dalla bocca; ha il corpo coperto da un'armatura di ferro, e le spalle da un lungo manto color sanguigno; tiene nella destra un pugnale, e nella sinistra una tazza con bevanda avvelenata. A'suoi piedi giace un capro, col muso rivolto verso di lei. Sopra il capo della Tirannia stanno I'Avarizia (Avaritia), la Su- perbia (Supèrbia) e la Vanagloria ( Vanagloria). L'Avarizia, scarna e spa- ruta in volto, tiene nella destra un uncino o graffio, e nella sinistra stretto uno scrigno. La Supèrbia è alata, ed ha due corna rosse sui capo, con una benda bianca che le cinge la fronte; impugna colla destra una spada, col- r altra sostiene un giogo. Sotto il semblante di una fanciulla, tutta av- venente e graziosa, cinta la testa di ghirlanda, riccamente vestita, e tutta risplendente di gemme, è figurata la Vanagloria. Ha nella destra uno spec- chio, dove si place rimirarsi; nella sinistra una frécela. Le sel figure che pongono in mezzo la Tirannia, sono i Vizj personi- ficati, degni ministri di questo mostro. Il primo Vizio è la Crudelta (Crw- délitas)', nomo magro e ti'uce nel volto, ispido per lunga e ñera barba,' il quale, afferrato pel collo un bambino, gli mostra un serpente. Segue il Tradimento (Proditio)-, uomo sbarbato, di faccia benigna, e vestito di una lunga toga nera. Tiene sulle ginocchia un drago, coperto colla pelle di agnello. La Frode (Fraus) è rappresentata anch'essa con faccia umana; sennonchb dal fondo della lunga veste appariscono i piedi tutti pelosi e con artigli, corne pure ha gli artigli in luogo delle mani. Dietro le spalle porta l'aie di pipistrelle. Alla sinistra della Tirannia seggono questi altri Vizj : Il Furore (Furor), dipinto sotto le sembianze di un essere che ha la testa di cinghiale, il corpo umano, i piè di cavallo, la coda di lupo. Sono sae armi un sasso ed un coltello. Una figura sedente, che porta indosso 534 COMMENTARIO ALLA VITA una veste divisata; nella parte Manca ha scritto la parola S\, e nell'al- tra nera leggesi No, e sta a rappresentare la Divisione {Divisió). Questa figura è intenta a dividere con una sega un rocchio di legno. L'ultima di queste figure è la Guerra. Tutta chiusa nell'armi, col capo munito di un elmo, alza coU'una mano una spada; nelTaltra imbraccia uno scudo, intorno al quale sta scritto gveera. Ai piedi della Tirannia sta prostesa una donna coi capelli sciolti e scom- posti, le mani e i piedi nudi e legati, piangente e desolata. Questa donna è la Giustizia {Justifia), a cui i suoi nemici han tolto di mano le hilance, e rottele e disperse. Più oltre, due ribaldi che ruhano le vesti di dosso a una donna, e più innanzi un nomo morto da due malandrini. Questa storia occupa la metà della párete, dove il Lorenzetti voile rappresentare lo stato interno di una citta signoreggiata dalla Tirannia. In una cartella, ch'e presso alia povera Giustizia calpestata e schernita, è scritto: LÀ DOVE STA LEGATA LA IvSTIZIA, Nessuno al ben comun già mai s'accorda, NÈ tira a dritta corda. Però convien che Tirannia sormonti; La qual, per adempir la sua nequizia, Nvllo voler nè operar discorda Dalla natura lorda. De'Vizi che con lei son qui congionti. Questa caccia color che al ben son pronti, E chiama a sé ciascun che a male intende. Questa sempre difende Chi sporza, o robba, o chi od'íasse pace; Unde ogni terra sua inculta giace. L'altra metà di questa párete, nella quale era la pittura dello stato di fuori, e degli effetti della Tirannia, è quasi che interamente perduta; e con grande fatica si scorgono castella diroccate ed arse, gente d'arme che armata mano corre disertando e ardendo le campagne, e dappertutto scene luttuose 8 di sangue. In alto della párete e nel mezzo di essa, un'orrida e scarmigliata figura, mezza nuda, con una spada sguainata, sta in aria sospesa sopra le porte, a guardia della città. Essa è il Timoré ( Timor). In una cartella che ha in mano, ù scritto : Fer volere el ben proprio in questa terra, SoMMESS' È LA GlUSTIZIA A TiRANNIA ; Unde per questa via Non passa alcun senza dubbio di morte ; Chè fuor si robba e drento da le porte. A intendere poi tutto il significato della intera storia serve questa scritta ; la quale sehhene manchi in principio di un verso e mezzo, per esser ca- DI AMBROGIO LORENZETTI 535 ■duto rintonaco, pm-spiega bene quel cbe il pittore voile con questa al- legoria significare: . e per effetto ; Che dove è Tirannia è gran sospetto. Guerre, rapine, tradimenti e 'nganni Prendonsi signoria sopra di lei. e pongasi la mente e lo intelletto In tener sempre a Justizia suggetto clascun, per ischifar si scuri danni, Abbattendo e'tiranni; e chi turbar la vuol, sia, per suo merto, Discacciato e diserto, Insieme con qualunque s'ha seguace. Fortificando Lei per nostra pace. A compimento di queste storie, il pittore voile figúrate nello zoccolo o balza delle prime due -pareti (cioe in quella, dov'e personificato il Reg- gimento di Siena, e nell'altra che rappresenta gli effetti della Pace e della Concordia) le sette Arti liberali; ossia il Trivium e il Quadrivium, dove si racchiudeva, si pub dire, la scienza universale de'suoi tempi, Nella prima párete sono, dentro certe formelle dipinte a chiaroscuro, in altrettante pic- cole figurette, la Grammatica {Gramatica), la Dialettica {Dyalectica) e rAritmética (oggi perduta); poi la Geometria {Geometria), la Musica {Musica), l'Astrologia {Astrologia) e la Filosofia {PMlosophia). Per contrapposto allé sette Scienze, nella fascia che fa F imbasamento della terza párete, dov' è simboleggiata la Tirannide e i Vizj a lei con- giunti, dipinse gli esempj piii famosi di alcuni tiranni o di uomini crudeli, ponendo sotto a ciascuno il loro nome. Ma di tutti questi partimenti di- pinti non avanza che uno, dov'è scritto nero ; e un altro, del quale, es- sendo perduta la pittura, altro non resta che le lettere ant , che forse •dicevano antiocus. PIETEO CAVALLINI 537 PITTOKE ROMANO ( Nato ; morte nel 1364 ? ) Essendo già stata Roma molti secoli priva non sola- mente clelle buone lettere e delia gloria deU'armi, ma eziandio di tutte le scienze e buone arti * ; come Dio voile, nacque in essa Pietro Cavallini in que' tempi che Giotto ^ avendo, si può dire, tomato in vita la pittura, teneva. fra i pittori in Italia il principato. Costui, dunque, es- sendo stato discepolo di Giotto,^ ed avendo con esso lui lavorato nella nave di musaico in San Piero ; fu il prima che dopo lui illuminasse quest'arte, e che cominciasse a mostrar di non essere stato indegno discepolo di tanto maestro, quando dipinse in Araceli, sopra la porta della sa- crestia, alcune storie che oggi sono consúmate dal tempo, e in Santa Maria di Trastevere moltissime cose colorite per tutta la chiesa in fresco. Dopo, lavorando alia cap- pella maggiore di musaico e nella facciata dinanzi della ' Proposizione, a cui, dopo leñóte già fatte al principio specialmente delle Vite di Clmabue e del Tafi, non è bisogno d'altro temperamento. ^ Vorrebbe il Della Valle farlo discepolo de'Cosmati, anzichè di Giotto, á cui era poco minore d'età. Concedo, dice il Lanzi, che qualche cosa ei pote apprendere dai Cosmati : ma quello stile nuovo e giottesco, in cui cede appena al Gaddi, chi poté mostrarglielo se non Giotto? 538 PIETRO CAVALLINI cliiesa, mostró, nel principio di cotale lavoro, senza 1'aiuto di Giotto saper non meno esercitare e condurre a fine il musaico, che avesse fatto la pitturaG facendo ancora nella chiesa di San Grisogono moite storie a fresco,^ s'ingegnò farsi conoscer símilmente per ottimo discepolo di Giotto e per huono artefice. Parimente, pure in Trastevere, dipinse in Santa Cecilia quasi tutta la chiesa di sua mano ; e nella chiesa di San Francesco appresso Kipa, molte cose. In San Paolo poi fuor di Eoma fece la facciata che v' è di mu- saico;® e per la nave del mezzo, molte storie del Testa- mento vecchio. E lavorando nel capitolo del primo chio- stro a fresco alcune cose, vi mise tanta diligenza, che ne riportò dagli uomini di giudizio nome d'eccellentissimo maestro, e fu perciò dai prelati tanto favorito, che gli fecero dare a fare la facciata di San Piero di dentro fea le finestre; tra le quali fece, di grandezza straordinaria, rispetto alie figure che in quel tempo s'usavano, i quattro ' t I musaici délia tribuna di Santa Maria in Trastevere rappresentanti alcune storie délia vita di Maria Vergine furono condotti nel 1290 per commissione di Bartolo Stefaneschi, che è figurato in ginocchio e in atto di pregare dinanzi al busto di Maria tenente il putto in braccio, che è sotto il musaico dell'Adora- zione de' Magi. Dice il Cavalcaselle ( Storia délia Pittura in Italia. Firenze, 1875, vol. I, p. 165, nota 1) che i suddetti musaici, per il carattere e la maniera loro, parrebbero di tempi posteriori al 1290, specialmente 1'ultimo col ritratto dello Stefaneschi, che sente délia influenza giottesca; e che se essi sono, come vuole il Vasari, opera di Pietro Cavallini, proverebbero non solo che il Gavallini fu continuatore délia scuola de'Cosmati, ma ancora fin da quel tempo la sua abi- lità. E soggiunge che appunto ne'musaici di Santa Maria in Trastevere si puô vedere il passaggio dalla maniera de'Cosmati a quella del Cavallini. Il quale non si sa in che anno nascesse, ma è certo che apprese l'arte da'Cosmati, e lavorô con loro; e che andato Giotto a Roma, conoscendolo di molto superiore agli artefici romani, si servi di lui. Il Vasari lo fa lavorare in più luoghi d'Italia, ma senza prova. La più antica memoria che ne abbiamo è del 1308, nel quale anno era in Napoli ai servigi del re Roberto con lauto stipendio. In fine crede che il musaico delia facciata delia suddetta chiesa che vi si vede al presente non sia del Cavallini, ma di tempo anteriore. Il D'Agincourt, nella tav, cxxv delia Pittura, ha dato 1'intaglio di alcune cose del Cavallini, che a'suoi tempi si vedevano in Santa Maria in Trastevere, e in San Paolo fuori delle mura. ^ E questa pittura di San Grisogono, e quelle che si accennan qui appresso di Santa Cecilia, e quasi tutte 1'opere che il nostro artefice fece in Roma, sono peri te. ' Rimase assai danneggiata pel terribile incendio dei 15 luglio 1823. PIETUO CAVALLINI 539 Evangelisti lavorati a bonissimo fresco, e un San Piero 0 un San Paolo; e in una nave, buon numero dl figure, nelle quali, per inolto piacergli la maniera greca, la me- scolò sempre con quella di Giotto. E per dilettarsi di dare rilievo allé figure, si conosce che usó in ció tutto quelle sforzo che inaggiore puó immaginarsi da uomo. Ma la rnigliore opera che in quella citta facesse, fu nella detta chiesa d'Araceli sul Campidoglio; dove dipinse in fresco, nella volta delia tribuna maggiore, la Nostra Donna col Figiiuolo in braccio, circondata da un cerchio di sole; e a basso, Ottaviano imperadore, al quale la Sibilla Tibur- tina mostrando Gesù Cristo, egli l'adora: le quali figure in quest'opera, come si ë dette in altri luoghi, si sono consérvate molto meglio che l'altre, perche quelle che sono nelle volte, sono meno offese dalla polvere che quelle che nelle facciate si fanno. Venne, dopo quest'opere, Pie- tro in Toscana per veder 1' opere degli altri discepoli del suo maestro Giotto, e di lui stesso; e con questa occa- sione dipinse in San Marco di Firenze molte figure che oggi non si veggiono, essendo stata imbiancata la chiesa; eccetto la Nunziata, che sta coperta a canto alia porta principale delia chiesa.^ In San Basilio ancora, al canto alla Macine, fece in un muro un'altra Nunziata a fresco, tanto simile a quella che prima aveva fatta in San Marco * e a qualcun'altra che ë in Firenze, che alcuni eredono, e non senza qualche verosimile, che tutte siano di mano di questo Piero: e di vero non possono più somigliare r una r altra di quello che fanno. Fra le figure che fece in San Marco detto di Fiorenza, fu il ritratto di papa Urbano V, con le teste di San Piero e San Paolo, di naturale; dal qual ritratto ne ritrasse Fra Giovanni da ' La Nunziata fatta giá in San Marco esiste tuttora; ma è stata cosi ridi- pinta, che, tranne 11 volto delia Vergine, poco piú vi è restato d'originale. ^ La Nunziata di San Basilio debb'essere perita nel 1785, allorchè la chiesa fu disfatta. 540 PIETRO CAVALLINI Fiesole quello che è in una tavola in San Domenico pur diFiesole: e ciò fu non piccola ventura, perche il ritratto che era in San Marco, con moite altre figure che erano per la chiesa in fresco, furono, come s'è dette, coperte di bianco, quando quel convento fu tolto ai monaci che vi stavano prima* e dato ai Frati Predicatori, per im- biancare ogni cosa, con poca avvertenza e considerazione. Passando poi, nel tornarsene a Roma, per Ascesi, non solo per vedere quelle fabbriche e quelle cosi notabili opere fattevi dal suo maestro e da alcuni suoi condisce- poli, ma per lasciarvi qualche cosa di sua mano; dipinse a fresco nella chiesa di sotto di San Francesco, cioe nella creciera che è dalla banda delia sagrestia, una Crocifis- sione di Gesù Cristo,^ con uomini a cavallo armati in varie foggie, e con molta varietà d'abiti stravaganti, e di diverse nazioni straniere. In aria fece alcuni Angeli, che, fermati in su l'ali in diverse attitudini, piangono di- rottamente; e stringendosi alcuni le mani al petto, altri incrociandole e altri battendosi le palme, mostrano avere estremo dolore delia morte del figliuolo di Dio ; e tutti dal mezzo indietro, ovvero dal mezzo in giti, sono con- vertiti in aria. In quest' opera, che è bene condotta nel colorito, che è fresco e vivace,® e tanto bene nelle com- mettiture delia calcina, ch' ella pare tutta fatta, in un giorno, ho trovato l'arme di Gualtieri duca di Atene; ma, per non vi essere nè millesimo nè altra scrittura, non posso aífermare che ella fusse fatta fare da lui. Dico bene, che, oltre al tenersi per fermo da ognuno ch' ella ' I monaci Silvestrini. ^ Vedi a questo proposito, nella Vita di Pietro Laurati, a pag. 477 di questo volume, la nota 1, dove con più ragione questa pittura è restituita al maestro senese. II D'Agincourt ha dato un saggio di questa composizione, che egli tiene del Cavallini, nella tav. cxxv della Pittura. ^ Specialmente l'azzurro, che forma veramente (dice il Lanzi, parlando di questa pittura, ch'è tuttavia in buon grado) un cielo d'orientale zaffiro, come s' esprimono i nostri poeti. PIETRO CAVALLINI 541 sia di mano di Pietro, la maniera non potrebbe più di quello che ella fa, parer la medesima: senza che, si può credere, essendo state questo pittore nel tempo-che in Italia era il dnca Grualtieri, cosi che ella fusse fatta da ■ Piero,come per ordine del dette dnca. Pure, creda ognuno come vuele, l'opera come antica non è se non lodevole; e la maniera, oltre la pubblica voce, mostra ch' ella sia di mano di cestui. Lavorò a fresco il medesimo Piero nella chiesa di Santa Maria d' Orvieto, dove è la Santissima re- liquia del Corporale, alcune storie di Gresù Cristo e del corpo suo,' con molta diligenza: e ciò fece, per quanto si dice, per messer Benedetto di messer Buonconte Menai- deschi, signore in quel tempo, anzi tiranno di quella citta. Affermano similmente alcuni, che Piero fece alcune seul- ture, e che gli riuscirono, perché aveva ingegno in qualun- que cosa si metteva a fare, benissimo; e che è di sua mano il Crocifisso che è nella gran chiesa di San Paolo fuer di Eoma: ^ il quale, seconde che si dice e credere si dee, ë quello che parló a Santa Brígida l'anno 1370. Erano di mano del medesimo alcune altre cose di quella maniera, le quali andarono per terra quando fu rovinata la chiesa vecchia di San Pietro per rifar la nueva. Fu Pietro in tutte le sue cose diligente molto, e cercó con ogni stu- dio di farsi enere e acquistare fama nell'arte. Fu non pure buen cristiano, ma devotissimo e amicissimo de'po- veri, e per la bonta sua amato, non pure in Eoma sua patria, ma da tutti coloro che di lui ebbono cognizione ' t Queste pitture furono fatte, secondo i documenti riferiti dal Dalla Valle, « dal Luzi {II Duomo d' Orvieto. Firenze, LeMonnier, 1866; p. 363), nel 1356-64, da maestro Ugolino di Prete Ilario, da Fra Giovanni Leonardelli e da Domenico di Meo, pittori orvietani. II nome del Cavallini, nè in qualli nè in altri documenti, non si trova. Nell'occasione del restauro fatto di queste pitture alcuni anni sono, e riuscito infelicissimo, perché esse furono quasi tutte ridipinte, si scoperse la seguente iscrizione : Hanc cappellam depinxit TJgolimis pictor de Urbeveteri anno Domini mccclxiv die jovis, mensis Junii. ^ II Pistolesi ( Guida di Roma) vuole del Cavallini un Crocifisso di legno, esistente tuttora in questo luogo. 542 PIETEO CAVALLINI 0 deir opere sue. E si diede finalmente nell'ultima sua vecchiezza con tanto spirito alia religione, menando vita esemplare, che fu quasi tenuto santo. Laonde non ë da maravigliarsi, se non pure il dette Crocifisso di sua mano parló, come si ë dette, alla Santa, ma ancora se ha fatto e fa infiniti miracoli una Nostra Donna di sua mano; la quale per lo migliore non intendo di nominare, sehbene ë famosissima in tutta Italia; e sehbene son più certo e chiarissimo, per la maniera del dipignere, ch'ella ë di mano di Pietro,^ la cui lodatissima vita e pieta verso Dio fu degna di essere da tutti gli uomini imitata. Në creda nessuno, per ció che non ë quasi possibile, e la continua sperienza ce lo dimostra, che si possa senza il timer e grazia di Dio, e senza la bonta de'costumi, ad onorato grado pervenire. Fu discepolo di Pietro Cavallini Giovanni da Pistoia, che nella patria fece alcune cose di non molta importanza.® Morí, finalmente, in Roma d'età d'anni ottantacinque, di mal di fiance preso nel lavo- rare in muro, per l'umidita e per lo star continuo a tale esercizio. ' *Giascuno comprende che qui si allude alia immagine della SS. Annunziata che si venera nella chiesa de'Servi. Ma sebbene dai libri del convento consti che nella prima metà del secolo xiii essa era dipinta, e vuolsi da un maestro Bartolommeo, che operava nell'anno 1232; tuttavia chi si ponga a esaminare 1 volti della Vergine e dell'angelo quali oggi si vedono, non potra andar per- suaso ch'essi siano fattura di quel tempo; e dovrà creder piuttosto, che all'antica pittura, deperita, ne sia stata quasi sovrapposta un' altra. Questo rifacimento po- trebbe esser opera del Cavallini, come dice il Vasari: ma perché raramente si scopre al pubblico questa immagine, e perché 1'altra che é in San Marco, é molto rifatta, come abbiamo no tato ; restera, non potendo istituire confronti, sempre difficile il risolvere ogni quistione. Non é da tacere però che alcuni vi veggono la maniera di Angelo Gaddi, ed altri quella dell'Angélico. ^ t Questo Giovanni da Pistoja per noi non é dubbio che sia Giovanni di Bartolommeo Cristiani, del quale parlano il Ciampi, il Tolomei e il Tigri, ri- cordando alcune sue opere in patria e fuori. Nell' oratorio oggi de' Gherardi Pie- raccini, che fu già la pieve contigua alla rôcca di Montemurlo nel territorio pistoiese, é una sua tavola o trittico con Maria Vergine in trono, ed ai lati san Niccolò e san Giovanni Battista. In basso visi legge questa iscrizione; que- STA TAVOLA hanno FATTA FARE OHORSO ni GIUNTA e ANTONIO DI GIUNTA OPERARJ ANNO DOMINI MCccLXXxx MENsis SETTEMBRis {sîc). E più sotto : Senator et Mar- PIETRO CAVALLINI 543 Furono le sue pitture nel 1364.^ Fu sepolto in San Paolo fuor di Roma, onorevolmente e con questo epi- tafíio : Quantum Romance Petrus decus addidit Urhi Pictura, tantum dat decus ipse polo. II ritratto suo non si è mai trovato, per diligenza che fatta si sia: però non si mette. chía Philippus Nerlius restauravit anno Domini 1684. E da un lato ; johan- nes BARTHOLOMEi DE piSTORio fecit. Ebbo Glovanni un figliuolo di nome Bar- tolomeo, che seguitô Farte paterna, e mori nel 1448. Avendo noi compilato un alberetto di questa famigtia, colFajuto di autentiche scritture, crediamo di far cosa utile ai nostri lettori col pubblicarlo qui : Cristiano Bartolommeo sarto. Fa testamento nel 1348. Moglie Tessa di Testa di Puccio Francesco GIOVANNI Angelo pittore moglie nel 1366 I. Margherita di Bonaccorso di Vantino: 2. N. N. Jacopo Bartolommeo Margherita pittore n. 1395 pittore n. 1367 m. 1448 cieca nata seconda moglie Angiolina moglie nel 1382 di Gio. di Niccoló calzolajo I. Giovannadi Francesco d'Jacopo 2. Toscana di Domenico di Gio- vanni da Prato ' *Nella prima edizione dice che il Cavallini mori di 75 anni, e che le sue opere furono nel 1344. II Baldinucci ripete lo stesso. La diversitá delle note ero- nologiche tra Fuña e F altra edizione, che a quando a quando s'incontra nel Va- sari, è argomento della incertezza e non autenticità delle notizie, sopra le quali egli spesso dovea lavorare. La Vita del Cavallini, poi, è una di quelle, dove la mancanza d'ogni documento e d'ogni altra prova autorevole dà molto da dubi- tare della verità delle cose raccontate; e farebbe vana fatica chi si ponesse a dichiarare i dubbj e sciogliere le difíicoltà ch' essa presenta. 5i5 SIMONE MAETINI e LIPPO MEMMI PITTOEI SANESI (Nato nel 1285?; morto nel 1314 — nato .... ; morto nel 1357?) Felici veramente si possono dire quegli uomini che sono dalla natura inclinati a quell'arti che possono re- car loro non pure onore e utile grandissimo, ma, che ë più, fama e nome quasi perpetuo. Piti felici poi sono co- loro che si portano dalle fasce, oltre a cotale inclinazione, gentilezza e costumi cittadineschi, che gli rendono a tutti gli uomini gratissimi. Ma più felici di tutti, finalmente (parlando degli artefici), sono quelli che, oltre ail'aver da natura inclinazione al buono, e dalla medesima e dalla educazione costumi nobili, vivono al tempo di qualche famoso scrittore, da cui per un piccolo ritratto o altra cosí fatta cortesia delle cose dell'arte si riporta premio alcuna volta, mediante gli loro scritti, d'eterno onore e nome. La qual cosa si deve, fra coloro che attendono alie cose del disegno, particolarmente desiderare e cer- care dagli eccellenti pittori; poichë 1'opere loro, essendo in superficie e in campo di colore, non possono avere queir eternità che danno i getti di bronzo e le cose di marino alie sculture, o le fabbriche agli architetti. Fu dunque quella di Simone grandissima ventura, vivere al V asabi, Opere. — Vol. I. 35 546 SIMONE MARTINI E LIPPO MEMMI tempo di masser Francesco Petrarca, e abbattersi a tro- vare in Avignone alla corte qnesto amorosissimo poeta, desideroso di avere la imagine di Madonna Lanra di mano di maestro Simone; perciocchë, avutala bella come desi- derato avea, face di lui memoria in due sonetti, Tuna de' qnali ' comincia : Per mirar Policleto a prova fisc, Con gil altri cEe ebber fama di quelParte, e Taltro:^ Quando giunse a Simon Palto concetto Ch'a mió nome gli pose in man lo stile. E invero", questi sonetti, e Taverna fatto menzione in una dalle sue lettere famigliari, nal quinto libro, che co- mincia: Non sum nescius', lianno dato piíi fama alia po- vera vita di maestro Simona, che non hanno fatto ne faranno mai tutte Topare sue;® perché alieno hanno a venire, quando che sia, meno, dove gli scritti di tant'nomo viveranno eterni secoli. Fu dunqiie Simona Memmi,'^ sa- nese, eccellente dipintore, singolare ne'tempi snoi e molto stimato nella corte del papa: perciocchë, dopo la morte di Giotto maestro suo, il quale egli avea següitato a Roma quando face la nave di musaico e T altre ® cose : avendo, nel fare una Vergine Maria nel portico di San Piero, ed ' Parte I, Sonetto 49. - Parte I, Sonetto 50. ® *Certissima cosa è, i versi del Petrarca avere allargato d'assai la fama di Simone. Ma chi vorrebbe oggi, anche senza tener conto delle lodi del Poeta, non proclamar Simone uno dei principali artefici del suo secolo? 4 *Oggi è noto a ciascuno che Simone fu figliuolo di Martino, e cognato di Lippo di Memmo di Filippuccio. II qual Memmo fu medesimamente pittore. Ebbe Simone un fratello di nome Donato, che fece la stessaarte, e mori nell'agosto del 1347. — t Vedi l'albero genealógico posto in fine di questa Vita. " Quando Giotto fece in Roma la nave di musaico, cioè nel 1298, Simone (se il suo epitaffio, che poi vedremo, non mentisce) avea soli 14 anni, e non poteva essere cola a far lavori con lui * — Questa credenza che Simone sia seo- SIMONE MARTINI E LIPPO MEMMl 547 un San Piero e San Paulo a quel luogo vicino, dove è la pina di bronzo/ in un muro fra gli archi del portico dalla banda di fuori, contraffatto la maniera di Giotto; ne fu di maniera lodato, avendo massimamente in quest'opera ^ ritratto un sagrestano di San Piero, che accende alcune lampade a dette sue figure molto prontamente ; che Si- mone fu chiamato in Avignone alla corte del papa con grandissima istanza ® : dove lavorò tante pitture in fresco e in tavole, che fece corrispondere 1'opere al nome che di lui era state là oltre pórtate. Perché, tomato a Siena in gran crédito, e molto perciò favorito, gli fu dato a di- lare di Giotto, seguita anche dal Baldinucci, è priva di fondanaento. Chi sappia che non è da confondere la scuola florentina colla senese (la quale ebbe prin- cipj proprj e particolari, ed una esistenza indipendente ; e piuttosto che pren- dere dagli altri, diede e comunico altrui il suo; come Simone stesso a Napoli, e Taddeo Bartoli a Perugia e a Genova), non debbe cercare fuori di Siena un maestro al Martini: il quale, specialmente nelle sue prime opere, si mostra tanto seguace di Duccio e di Segna, da stimarlo scolare dell'uno, e condiscepolo de)- l'altro. Vero è che, allorquando egli fu uscito dalla patria, ed ebbe veduto le pratiche degli altri maestri, e massime quella di Giotto, si allontanô alcun che dalla maniera prima; ma non cosi da perderne la propria ed intrínseca sua qualità. ' La pina, di cui fa menzione anche Dante xî & W Inferno, e che era stata già, come si crede, sopra la mole d'Adriano e sulla cupola del Panteón, fu alflne trasferita in fondo al giardino Vaticano sotto la nicchia fatta da Bramante. ^ *11 san Pietro e il san Paolo sono periti. Circa poi alla Madonna, riferisce il Dionigi {Monumenta Cryptarum Basilicae Vœiîcœwœe ), che essa fu dal por- tico di San Pietro trasportata prima nell'ámbito, e poi nell'altare della cappella delia Confessione di san Pietro. Oggi esiste nelle Grotte seure, nella cappella della Madonna detta della hocciata. ® L'andata di Simone ad Avignone in compagnia di Donato suo fratello accadde nel febbrajo del 1339, come si rileva da un documento degli otto di quel mese ed anno, pubblicato nel vol. I, pag. 216 de'già citati Documenti per la storia delVArte senese. II Tizio vuole che Simone fosse condotto in Francia da un cardinale, che passando per Siena ebbe occasione di conoscerlo, e di farne grande stima. Delie pitture fatte da Simone nel portico della cattedrale d'Avi- gnone per commissione del cardinale Annibale Da Ceccano, non esiste piú la flgura di san Giorgio a cavallo che uccideva il drago, sotto la quale erano al- cuni versi latini, che si dicono stati composti dal Petrarca. Resta invece nel portico suddetto una lunetta con Maria Vergine seduta in trono, che tiene in braccio il suo divin Figliuolo. A' piedi del trono è in ginocchio una flgura, forse del Da Ceccano, sebbene non sia in abito cardinalizio, presentata alia Vergine da uno degli angeli che le sono allato. Simone ornó ancora con freschi la Sala del Concistoro nel Palazzo Papale, de'quali ora non avanzano che alcune flgure 518 SIMONE MARTINI E LIPPO MEMMI pignere dalla Signoria nel Palazzo loro, in una sala, a fresco una Vergine Maria, con molte figure attorno; la quale egli compië di tutta perfezione, con molta sua lode utilità/ E per mostrare che non meno sapeva fare in e tavola che in fresco, dipinse in detto Palazzo una tavola,® ' che fu cagione che poi ne fu fatto far due in Duomo ; e una Nostra Donna col Fanciullo in braccio in attitu- dine bellissima, sopra la porta dell'Opera del Duomo detto: nella qual pittura, certi Angeli che, sostenendo in aria un stendardo, volano e guardano airingiù alcuni di profeti e di sibille in uno spicchio della volta, essendo il resto stato imbian- cato, quando la sala fu destinata a dormentorio di soldati. Nel medesimo pa- iazzo due cappelle, I'una al plan terreno, chiamata del Papa, e l'altra sono quella della stessa forma, detta del Santo Uffizio. Nella precisamente sopra a e prima dipinse Simone alcune storie della vita di san Giovan Battista e di altri santi, e nella seconda i fatti, secondo le leggende, de'santi Marziale, Stefano, Pietro e Valeriano. Ebbe Simone in questo lavoro I'ajuto di Donato suo fratello di altri. Tutte queste pitture sono minutamente descritte dai signori Crowe e e Cavalcaselle nel vol. II, pag. 91 e seg. della piú volte citata loro opera. ' tica *Sebbene sia stato affermato da alcuni, che il grande afifresco dell'an Sala del Gonsiglio fosse dipinto nel 1289 da un maestro Mino; nondimeno noi lo teniamo sic..ramente per opera di Simone : come meglio sarà chiarito nel Commentario posto in fine di questa Vita. - * Questa tavola, fatta nel 1326 pel Palazzo del Gapitano del popolo, da gran è perduta. Forse era quella che stava sull' altare della tempo cappella di Palazzo, la quale fu tolta per porvi la Madonna detta di San Galisto, dipinta pel Duomo il dal Sodoma. — t Nella sala stessa del Palazzo Pubblico, ove dipinse Simone grande affresco di Maria Vergine con molti santi, face nel 1328 nella párete dirimpetto in un'altra pittura, che ancora esiste, la figura a cavallo di Guidoriccio da Fogliano, capitano di guerra de'Senesi all'assedio di Montemassi, e nel 1331 i castelli di Arcidosso e di Gastel del Piano : che oggi non vi si veggono più. ' *Delle due tayole per il Duomo, la prima, fatta nel 1331, stette per lungo tempo nella sagrestia di quella chiesa, poi fu fatta in pezzi; e il Della Valle rac- conta di averne veduti in Roma alcuni avanzi nel museo dell'avvocato Mariotti; dietro de'quali era scritto : « Opera di Simone da Siena, staccata da a uno quadro maggiore che esisteva in Siena nei Duomo, e regalata da m.onsi- un gnor Bandinelli a Gian Lodovico Bianconi, che l'offre al bel museo pittorico del sig. avv. Mariotti ». La seconda, che rappresenta l'Annunziata, fu dal Duomo levata, ed ad una párete della chiesa di Sant'Ansano in Gastelvecchio ; appesa donde fu tratta e mandata a Firenze, ed ora si trova nella Gallería degli Uffizj. • • me • pincxe- In • • . . de Senis essa è scritto ; Simon • Martini et Lippus Memmi non ha la sua runt {sic) • anno • domini • Mcccxxxiii. A questa tavola, che più forma primitiva, appartengono due altri pezzi colle figure di sant'Ansano e di santa Giulitta, le quali parimente si conservano nella detta Gallería. SIMONE MARTINI E LIPPO MEMMI 549 Santi che sono intorno alla Nostra Donna, fanno bellis- simo componimento e ornamento grande/ Ció fatto, fn Simone dal generale di SanCAgostino condotto in Fi- renze; dove lavorò il capitolo di Santo Spirito, mostrando invenzione e giudizio mirabile nelle figure e ne'cavalli fatti da lui : come in quel luogo ne fa fede la storia délia Passione di Cristo, nella quale si veggiono ingegnosa- mente tutte le cose essere state fatte da lui cou discre- zione e cou bellissima grazia. Veggonsi i ladroni in croce rendere il fiato, e T anima del bueno essere portata in cielo con allegrezza dagli Angeli, e quella del reo an- darne accompagnata da'diavoli, tutta rabbuffata, ai tor- menti dell' inferno. Mostro similmente invenzione e giu- dizio Simone nelle attitudini e nel piante amarissimo che fanno alcuni Angeli intorno al Crocifisso : ma quelle che sopra tutte le cose è dignissimo di considerazicne, è ve- der quegli spiriti che fendon l'aria con le spalle visibil- mente, perche quasi girando sostengono il moto del volar loro. Ma farebbe molto maggior fede dell'eccellenza di Simone quest' opera, se, oltre ail' averia consumata il tempo, non fusse stata, l'anno 1560, guasta da que'Pa- dri; che, per non potersi servire del Capitolo mal con- dette dall'umidità, nel far, dove era un palco intarlato, una volta, non avessero gettato in terra quel poco che restava delle pitture di quest'uomoC il quale, quasi in quel medesimo tempo, dipinse in una tavela una Nostra Donna ed un San Luca con altri Santi, a tempera, che oggi ë nella cappella de'Gondi in Santa Maria Novella col ® nome sue. Lavorò poi Simone tre facciate del Capi- * * Quest'aífresco non ei'a nella porta dell'Opera del Duomo, ma sibbene nella facciata del palazzo di Pandolfo Petrucci, che guarda la bella porta, la quale mette nella piazza del Duomo. Di esso, che fu fatto nel 1335, dá una descri- zione il Delia Valle. Cadde per il terremoto del 1798. ^ Vi fu poi fatto dipingere da A. D. Gabbiani. ' La tavola fu poi tolta di là per collocarvi un Crociflsso di legno intagliato del Brunellesco, e di cui si dirá al trove. O v'essa oggi si trovi, non si sa. 550 SIMONE MARTINI E LIPPO MEMMl tolo delia detta Santa Maria ISTovella molto felicemente.* Nella prima, che è sopra la porta donde vi si entra, fece la vita di San Domenico; e in qnella che segue verso la chiesa, figuró la Religione e Ordine del medesimo, coin- battente contro gli eretici, figurati per lupi che assal- gono alcune pecore, le quali da molti cani pezzati di bianco e di nero sono difese, e i lupi ributtati e morti. Sonovi ancora certi eretici, i quali, convinti nelle dispute, stracciano i libri, e pentiti si confessano; e cosi passano ranime alla porta del Paradise, nel quale sono moite figurine che fanno diverse cose. In cielo si vede, la gloria dei Santi, e Gresù Cristo; e nel mondo quaggiù riman- gono i piaceri e diletti vani, in figure umane, e massi- mámente di donne che ^ seggono : tra le quali è Madonna Laura del Petrarca, ritratta di naturale, vestita di verde, ^ con una piccola fiammetta di fuoco fra il petto e la gola. Evvi ancora la Chiesa di Cristo, ed alla guardia di quella * *Oggi chiamato il Gappellone degli Spagnuoli. Sono alcuni che dubitano se veramente queste pitture siano di Simone ; perché pensano che nel 1355, anno in cui il Guidalotti, che le ordinô, fece testamento, non erano ancora finite; il che farebbe loro tenere che Simone, già da undici anni morto, non potesse avere avuto parte in quelle. — t II Gavalcaselle non vi riconosce la maniera di Simone, ma la mano di due o tre artefici diversi, che mostrano di derivare piú dalla senese che dalla scuola fiorentina. Un' altra ragione che a noi pare calzantissima per escludere che queste pitture sieno di Simone, si cava dalla storia della edifica- zione del Gapitolo o Gappellone degli Spagnuoli. Esso, secondo i piú diligenti e meglio informati scrittori, fu cominciato nel 1350 dall' architetto domenicano Fra lacopo Talenti da Nipozzano. II cav. Aristide Nardini ueWAppendice seconda della già citata sua operetta II Sistema tricuspidale ecc., prova colle date alla mano delle diverse costruzioni delle parti che costituiscono la chiesa e il convento di Santa Maria Novella, che il Gapitolo non puô essere stato edificato che pa- recchi anni dopo il Ghiostro Verde cominciato nel 1334, il quale si appoggia a'rnuri occidentali della chiesa e della sagrestia, e fa parte necessària e intégrale con questi due edifizj che nel 1333 ancora non esistevano. ^ *Per farsi una idea dell' insieme e delle invenzioni dipinte in questa párete , puô vedersi la tav. xv dei monumenti della Storia del prof. Rosini. ® Noi teniamo che quella figura femminile vestita di verde, con una piccola fiammella di fuoco fra il petto e la gola, non sia il ritratto di madonna Laura, ma che il pittore abbia inteso di personificare la voluttà de'piaceri sensuali, to- gliendone l'esempio dai gentili, i quali con questo medesimo segno qualche volta rappresentarono Venere. SIMONE MAETINI E LIPPO MEMMI 551 il Papa, lo Imperaclore, i Ke, i Cardinali, i Vescovi e tutti i Principi cristiani; e tra essi, accanto a un cavalier di Rodi, messer Francesco Petrarca, ritratto pur di natu- raie: ' il che fece Simone per rinfrescar nelhopere sue la fama di celui che T aveva fatto immortale. Per la Chiesa universale fece la chiesa di Santa Maria del Fiore, non come ella sta oggi, ma come egli l'aveva ritratta dal modello e disegno che Arnolfo architettore aveva lasciati neir Opera, per norma di coloro che avevano a seguitar la fabbrica dopo lui: de'quali modelli, per poca cura degli opérai di Santa Maria del Fiore, come in altro luego s'è dettenon ci sarebbe memoria alcuna, se Simone non l'avesse lasciata dipinta in quest'opera. Nella terza facciata, che ë quella dell' altare, fece la Passione di Cristo, il quale uscendo di Grerusalemme con la crece su la spalla se ne va al monte Calvario, seguitato da un pópele gran- dissimo; dove giunto, si vede esser levato in crece nel mezzo de'ladroni, con l'altre appartenenze che cotale storia accompagnano. Tacerò l'esservi buen numero di cavalli, il gettarsi la serte dai famigli della corte sopra la veste di Cristo, lo spogliare il limbo dei Santi Padri, e tutte r altre considerate invenzioni, che seno non da maestro di quell'eth, ma da moderno eccellentissimo. * Conciossiachë, pigliando le facciate intere, con diligen- tissima osservazione fa in ciascuna diverse storie su per un monte; e non divide con ornamenti tra storia e storia, t Quella faccia di satir'o, dice il Cicognara, non è certamente il ritratto •del Petrarca. Gli stessi dubbj abbiamo circa a quelli che dal Vasari, in fine di questa Vita, si dicono di Cimabue, d'Arnolfo di Lapo, di Simone stesso, di Be- nedetto XI e del cardinale Niccolò daPrato, perché, provato che queste pitture sono di tempo posteriore a Simone, bisogna credere che il pittore che le fece vi avrebbe introdotto piú fácilmente que'personaggi che vivevano al suo tempo, ■che altri stati molti anni innanzi a lui, de'quali sarebbegli stato difficile "di poter riprodurre le sembianze. ^ *Cioè, in fine della Vita d'Arnolfo. (Vedi a pag. 287, nota 1 ). " Uno de'tanti luoghi che possono citarsi in risposta alie tante accuse d'in- g;iustizia, d'invidia, di spirüo municipale eçç,, date al Vusari, 552 SIMONE MARTINI E LIPPO MEMMI corne usarono di fare i vecchi e molti moderni, che fanno- la terra sopra l'aria quattro o cinque volte; come è la cappella maggiore di qiiesta medesima chiesa, e il Campo Santo di Pisa: dove^ dipignendo molte cose a fresco, gli fu forza far contra sua voglia cotali divisioni, avendo gli altri pittori che avevano in quel luego lavorato, come Giotto e Buonamico suo maestro,* cominciato a fare le storie loro con questo mal ordine. Seguitando, dunque, in quel Campo Santo, per meno errore, il modo tenuto dagli altri, fece Simone, sopra la porta principale di den- tro, una Nostra Donna in fresco, portata in cielo da un coro d'Angeli, che cantano e suonano tanto vivamente, che in loro si conoscono tutti que' varj effetti che i mu- sici cantando o sonando fare sogliono: come è porgere l'orecchio al sueno, aprir la bocea in diversi modi, alzar gli occhi al cielo, gonfiar le guanee, ingressar la gola^ ed insomma tutti gli altri atti e movimenti che si fauno nella musica.^ Sotto questa Assunta, in tre quadri, fece alcune storie della vita di San Eanieri pisano. Nella prima, quando giovanetto, sonando il salterio, fa bailare alcune fanciulle, bellissime per l'arie dei volti e per l'ornamento degli abiti ed acconciature di que'tempi;^ Vedesi poi lo stesso Ranieri, essendo state ripreso di cotale lascivia dal Beato Alberto remito, starsi col volto chino e lagrimoso,, e con gli occhi fatti rossi dal piante, tutto pentito del suO' peccato; mentre Dio, in aria, circondato da un celeste lume, fa semblante di perdonargli. Nel seconde quadro è ' * Se il Vasari con ció intese dire che Buonamico fosse maestro di Giotto,, ovvero di Simone, egli è in errore ugualmente. Si debbe creder piuttosto che inavvertitamente cadessegli dalla penna questa espressione che nella prima edi- zione non è. ^ * Questa pittura esiste tuttavia, ma non senza qualche ritocco. ' *Tutta la parte superiore, e grandissima della inferiere di questo quadro,, cioè tre figure, avverte il Rosini, fu ridipinta dai fratelli Melani ; e la superiore in modo, che piú nulla vi si riconosce di antico. — ti signori Crowe e Caval- caselle riconoscono in queste pitture la maniera senese, ma non le credono di Simone, e neppure di Lippo Memmi. SIMONE MARTINI E LIPPO MEMMI 553 qnanclo Eanieri, dispensando le sue faculta al poveri di Dio, per poi montare in barca, ha intorno una turba di po- veri, di storpiati, di donne e di putti, molto affettuosi nel farsi innanzi, nel chiedere e nel ringraziarlo. E nello stesso quadro ë ancora quando questo Santo, ricevuta nel tem- pió la schiavina da pellegrino, sta dinanzi a Nostra Donna, che, circondata da- molti angelí, gli mostra che si ripo- serà nel suo grembo in Pisa; le quali tutte figure hanno vivezza e bell'aria nelle teste/ Nella terza e dipinto da Simone, quando tornato, dopo sette anni, d'oltra mare,^ mostra aver fatto tre quarantane in Terra Santa; e che, standosi in coro a udire i divini uflizj, dove molti putti cantano/ ë tentato dal demonio: il quale si vede scac- ciato da un fermo proponimento che si scorge in Eanieri di non volere offendere Dio, aiutato da una figura fatta da Simone per la Costanza,* che fa partir Tantico avver- sario non solo tutto confuso, ma, con bella invenzione e capricciosa, tutto pauroso, tenendosi nel fuggire le inani al capo, e camminando con la fronte bassa e stretto nelle spalle a più potere, e dicendo, come si vede scritto uscire di bocea: ïo non passa più. E finalmente, in questo qua- dro ë ancora quando Eanieri in sul Monte Tabor, ingi- nocchiato, vede miracolosamente Cristo in aria con Moisë ed Ella. Le quah tutte cose di quest'opera, ed altre che si tacciono, mostrano che Simone fu molto capriccioso, ed intese il buon modo di comporre leggiacTramente le figure nella maniera di quel tempi/ Finite queste storie, ' In questa parte del quadro, dice pure il Rosini, nulla è ritoccato fdorcbè i panni di San Ranieri. Ma il campo ha molto sofferto e le tinte vanno giorno ogni più calcinandosi. ^ La scena veramente rappresentasi in Palestina. ® Altro errore di memoria del nostro Vasari : di ' putti non ávvene un solo. Nè di figure di feramine ávvene qui pur una. ® * Ardita opinione parve sempre quella da alcuni intelligenti a'giorni nostri manifestata, cioè che le storie di san Ranieri nel Campo Santo siano pisano non State dipinte da Simone senese. Ed a questa il opinione, oltre la maniera e carattere del dipinto, assai diversi dalle cose del nostro pittore, dava qualche 554 SIMONE MARTINI E LIPPO MEMMI fece due tavole a tempera nella medesima città, aiutato da Lippo Memmi suo fratello, il quale gdi aveva anche aiutato dipignere il Capitolo di Santa Maria Novella, ed altre opere. Cestui, sebbene non fu eccellente come Si- ma- mone, seguitò nondimeno quanto pote il più la sua niera; ed in sua compagnia fece moite cose a fresco in ' Santa Croce di Firenze; a'Frati Predicatori in Santa Caterina di Pisa, la tavela dell'altar maggiore;' ed in Yalore il silenzio del Ghiberti medesimo. Ora però, coi documenti dal prof. Bo- naini trovati pubblicati, viene a farsi certezza ció che fino ad ora non fu che e un dubbio di pochi ; cioè che il senese artefice non ebbe mano in quelle pitture. Difatti, da un documento daU'Archivio dell'Opera Pisana apparisce che nel 13 ot- tobre 1377 1' opéralo Lodovico Orselli sborsó 529 lire e 10 soldi al pittore mae- stro Andrea da Firenze <.< pro pictura storie Beati Ranerii, pro residuo dicte storie » ; la quale ragguardevole somma gli fu pagata secondo il contralto che Pietro Gambacorti aveva serillo di sua mano. Da un altro documento veniamo a sapero, che nel 1380 1'opéralo del Duomo di Pisa mandó a chiamare a Genova maestro Barnaba dipintore, perché venisse a Pisa a finiré la storia di San Ra- nieri « ut veniret ad complendum storiam Sancti Raynerii ». E corto che il primo non puó esser Andrea di Clone Orcagna, perché giá morto, come mo- streremo annotando la sua Vita; ma veramente un pittore sconosciuto, del quale tanto é piú importante la scoperta, in quanto che egli é degno di stai-e a pari < ^ ^ Î ,A. i-lli '■ -v. ' T/. <5^ ^'"'i — 1 -> . , ^/| ,vt; £=«. Ffíf'C'ïri "{Ui ¿1; ■' < < / ?í ^ ^ ^ ji"^ \ í^r*^ '■~í ■^'· ,-• if1 Py í» fe»'i- A ^ ^ ^-ííft^^ ' ^ ^ «íí •V« ?■ ^""r > i' Ah I^V 4;^V';''^ X¿-^^ 4-^?. ^ í í- ---•'i , rf* S#íi^ ^ ' .5; ■* <, íüpi^lil •^ïÎw'rV'iïi j>-r£Í'.: t ■ vi ■'i .'ÍW *'' " t' ■ FAMIGLIA dell' CIONE orafo ? ORCAGNA Naedo ANDREA Jacopo Matteo pittore t 1365 detto r ORCAGNA pittore scultore pittore, scultore e architetto n. 1308 ? t 1368 moglie Francesca di Bencino d'Azzuccio Vaj Romola Tessa Ci one pittore marito marito Nel 1421 ridipinge o Cristofano di Ristoro Andrea di Ruggero rinfresca la pittura di di Benedetto Maria V ergine posta nell'Udienza dei Ca- pitani del Bigallo ; ïorse era quell a pit- tura stata fatta da Angelo Gaddi nel 1380 ^ Ti>- ' V - . . ■^^m,7^z·t^>^«-:^;f2'^4»:'4t·"í:íl:Ím •j »» >- - -C - v'.v-^^r. -, í - —-.-, fië-Sîïï-fefei--5i--ï-tî;-V^;i'/.^ ^"-í _ .3#, 'i .-'4' ¥ ; r y f ^ Âji ï-'v^ * í, í j %i"' J's. c "v 'y "* ^ AifiÍ^- i» ^ /s. TP ^ > ' s .. s i s.s?5,.^ f f » * ^ 4^: ■•^ f>^f i- \v fe'^'íT "$■ ^ ;^m -_ _ r ^ -s / L — ty í'y·tv yvf^ ^ ^ f^ SS-'v . - - AfÚ^Jr ^ "^V- ji-7;w.|«î>|!- ^ i ^ ^ ,í'^ AtàS:..sV;-vC:';:3Î " . _ J( V íj >• iJv. ^ f ^í^strfí <■>. (Bonaini, Me- morie inedite ecc., p. 63). Sennonchè il Del Migliore vuole invece cb'egli fosse un Tommaso di Domenico, del popolo di Santa Maria Novella: « Tomas pictor filius Dominici populi Sánete Marie Novelle emit bona etc. anno 1334 », come trovasi ne'documenti. Ció non ostante, noi siam fermi nel credere che il vero nome sia Giotto di Stefano, anche perché esso ci spiega bene il soprannome di Giottino dato a questo pittore. t Queste, che trent'anni indietro potevano essere buone e ragionevoli con- getture, considerate le cognizioni d'allora, cadono oggi in gran parte, per la testimonianza di nuovi documenti, e mediante un più diligente esame de'già co- nosciuti : dai quali ci pare che sia levata via parte délia incredibile confusione che è in questa Vita. Per noi è chiaro adesso che il Vasari di due pittori diversi e de'loro nomi distinti ne abbia composto un artefice e un nome solo; formando di Maso e di Giotto un pittore, che egli chiama Tommaso detto Giottino. Questa confusione non è al certo in Filippo Villani e nel Ghiberti, i quali parlando di un Maso (che cosi ebbe nome, e non Tommaso), discepolo di Giotto, l'uno lo dice gentilissimo, e l'altro nobilissimo pittore, registrandone le principali opere. Ora ricercando le antiche memorie, noi troviamo che in Firenze fu un pittore, di nome Maso figliuolo di Banco, matricolato all'arte innanzi al 1343 ed ascritto alia Compagnia di San Luca nel 1350; e che dopo quest'anno non si hanno di lui altri ricordi. E troviamo altresi quasi contemporáneo di Maso un altro pit- tore chiamato Giotto di maestro Stefano, cioé figliuolo di quello Stefano pittore, di cui si legge la Vita nel presente volume. Di questo Giotto che fu detto Giot- tino, o per diíferenziarlo dal suo celebre omonimo, o perché fu di poca persona, le memorie che abbiamo non passano il 1369. Egli ebbe un figliuolo di nome Ste- fano che fece Parte paterna, e mori nel 1404. II Vasari, avendo fatto di due ar- teñci un solo, attribuisce senza discernimento al suo Tommaso detto Giottino le opere che il Ghiberti assegna a Maso, e quelle che sappiamo essere di Giotto di maestro Stefano. Un terzo artefice, anch'esso distinto dai sopraddetti, ma che il Vasari confonde con loro, é Tommaso di Stefano, matricolato all'arte de'maestri di pietra 11 20 dicembre 1385, 11 quale puó essere che abbia scolplto una statua pel campanile di Giotto, attribuita dal Ghiberti a Maso, dal Vasarl al suo Tommaso detto Giottino, TOMMASO DETTO GIOTTINO 623 moîti, e per la maniera e per lo nome, i quail però fu- roño in grandissimo errore, che fusse figliuolo di Giotto; ma in vero non ë cosi, essendo cosa certa, o per dir meglio credenza (non potendosi cosi fatte cose affer- mare da ognuno), che fu figliuolo di Stefano pittore fiorentino. Fu, dunque, costui nella pittura si diligente e di quella tanto amorevole, che sebbene molte opere di lui non si ritrovano, quelle nondimeno che tróvate si sono, erano buone e di bella maniera; perciocchë i panni, i capelli, le barbe e ogni altro suo lavoro furono fatti e uniti con tanta morbidezza e diligenza, che si vede ch'egli aggiunse senza dubbio runione a quest'arte, e Tebbe molto più perfetta che Giotto suo maestro e Stefano suo padre avuta non aveano. Dipinse Giottino nella sua giovinezza, in Santo Stefano al Ponte Yecchio di Firenze, una cap- pella allato alla porta del fianço, che sebbene ë oggi molto guasta dalla umidità, in quel poco che ë rimase si vede la destrezza e Tingegno dell'artefice.^ Fece poi al Canto alla Macine, ne'Frati Ermini, i SS. Cosimo e Damiano, che, spenti dal tempo ancor essi, oggi poco si veggono.^ E lavorò in fresco una cappella nel vecchio San Spirito di detta citta, che poi nell'incendio di quel templo rovinò; ed in fresco, sopra la porta principale ' Il Vasari sembra qui accennare a piWure in fresco; il Cinelli dice invece ch'era una tavela. Checchè si fosse, la pittura è da gran tempo perita. t Questa cappella allato alia porta del flanco apparteneva ai Gucci To- lomei. Nella Vita deU'Orcagna abbiamo mostrato che almeno la tavola fu dipinta da Mariette di Nardo e da Francesco Arrighetti nel 1412. (V. a p. 610, nota 3). ^ Pittura anch'essa perita colla chiesa, o assai prima della chiesa, ove trovavasi. — i L'autore anónimo magliabechiano giá, citato, che fa distinzione fra le pit- ture di Maso, e quelle di Giotto di maestro Stefano, dá a questo la pittura del Canto alia Macine, il tabernacolo sulla piazza di San Spirito, i tre archetti nel primo chiostro del dette convento, le pitture d'Ognissanti, e la Pietà nel mo- nastero di San Gallo. A Maso poi, seguendo il Ghiberti, assegna un altro taber- nácelo nella detta piazza, le storie nella cappella di San Silvestre e Costantino in Santa Crece e la pittura del Duca d'Atene e de'suoi complici nella facciata del Palazzo del Potestá. 624 TOMMASO DETTO GIOTTINO delia cliiesa, la storia delia missione dello Spirito Santo/ e su la piazza dl detta chiesa, per ire al Canto alia Cu- culia, sui cantone del convento, quel tabernacolo che an- cora vi si vede, con la ííostra Donna e altri Santi d'at- torno, che tirano e nelle teste e nell'altre parti forte alla maniera ' moderna, perché cercó variare e cangiare le carnagioni, ed accompagnare nella varietà de'colori e ne'panni, con grazia e giudizio, tutte le figure.^ Co- stui medesimamente lavorò in Santa Croce, nella cap- pella di San Silvestre, historie di Costantino con molta diligenza, avendo bellissime considerazioni nei gesti delle figure; e poi, dietro a un ornamento di marmo fatto per la sepoltura di messer Bettino de' Bardi, nomo state in quel tempo in onorati gradi di milizia, fece esse mes- ser Bettino di naturale armato, che esce d'un sepolcro ginocchioni, chiamato col sueno delle trombe del Gin- dizio da due Angeli, che in aria accompagnano un Cristo nelle nuvole, molto ben fattoh II medesimo in San Pan- crazio fece, all'entrar delia porta a man ritta, un Cristo che porta la croce, ed alcuni Santi appresso, che hanno espressamente la maniera di Giottoh Era in San Gallo ' Storia che fu poi imbiancata. ^ n tabernacolo fu ridipinto, e poi demolito. ® *Le storie di san Silvestro, e T altra di messer Bettino de'Bardi che ri- sorge per presentarsi al giudizio finale, esistono tuttavia sufficientemente con- serrate. II Vasari non consideró la bella Deposizione di Croce ch'è accanto al mo- numento di messer Bettino, opera certamente dello stesso pittore. t Un messer Bettino o Ubertino de'Bardi non visse a'tempi del pittore, mentre è certo che un Ubertino, único di questo nome in quella casata, mori il 21 di giugno 1443. Perció il monumento di Santa Croce non appartiene a lui, nè egli fece fare quelle pitture; ma l'equivoco del Vasari si chiarisce fácilmente, se si pensa che nell'inventario di quella chiesa fatto nel 1440, descrivendosi la cappella di San Silvestro, fu notato che il monumento era di Ubertino de'Bai'di, non perché vi si conservassero le sue ossa, ma perché apparteneva a lui, come discendente di quel ramo. Invece contenerá il corpo di messer Andrea, uomo il- lustre délia famiglia, morto nel 1367. E di questo sempre più ci persuadiamo, vedendo in uno degli stipiti del monumento l'immagine dipinta di sant'Andrea. '' Pittura perita assai prima, forse, che la chiesa ove trovavasi, fosse adat- tata all'uopo délia R. Lotteria. TOMMASO DETTO GIOTTINO 625 (il qual convento era fuor delia porta che si chiama dal suo nome, e fu rovinato per l'assedio) in un chiostro, dipinta a fresco una Pietà, delia quale iP è copia in San Pancrazio già detto, in un pilastro accanto alia cap- pella maggiore. Lavorò a fresco in Santa Maria Novella, alia cappella di San Lorenzo de' Griuochi, entrando in cliiesa per la porta a man destra, nella facciata dinanzi un San Cosimo e San Damiano;^ ed in Ognissanti, un San Cristofano e un San Giorgio, che dalla malignità del tempo furono guasti e rifatti da altri pittori, per igno- ranza d'un proposto, poco di tal mestiere intendente. Nella detta chiesa, ë di mano di Tommaso, rimaso salvo l'arco che ë sopra la porta della sagrestia, nel quale ë a fresco una Nostra Donna col Figliuolo in braccio; che ë cosa buona, per averia egli lavorata con diligenza.^ Mediante queste opere avendosi acquistato tanto buon nome Giottino, imitando nel disegno e nelle invenzioni, come si ë detto, il suo maestro, che si diceva essere in lui lo spirito d'esso Giotto, per la vivezza de'colori e per la pratica del disegno; I'anno 1343, a'di 2 di luglio,'' quando dal popolo fu cacciato il duca d'Atene, e che egli ebbe con giuramento renunziata e renduta la signoria e la liberta ai Fiorentini, fu forzato dai dodici Piforma- tori dello Stato, e particolármente da'preghi di mes- ser Agnolo Acciajuoli, allora grandissime cittadino,'^ che * Non ne rimane piú vestigio. ® Le pitture dell'arco sopra la porta della sagrestia sono anch'esse peri te, come quelle fatte presso la porta destra della chiesa. ' *La cacciata del Duca d'Atene avvenne propriamente il 26 di luglio del 1343, giorno di Sant'Anna. i Nel Libro delle Provvisioni del Comune di Firenze del 1344, di n.° 214, carte 37, si legge quanto segue: Item eisdem religiosis viris (fratribus Bartho- lomeo et Christofano camerariis Camere armorum palatii populi florentini) pro faciendo pingi ducem actenarum dominum Cerriterium de Vicedominis, do- minum Ranerium Giottide sancto Giminiano et fralres et fílios, et dominum Guillelmum Ciucci de Assisio et filios et alios proditores populi et Comunis Florentie, in facie palatii more domini potestatis et in aliis locis, flor, auri XX. * *E vescovo di Firenze. VASAnr, Opere. — Vol. I. 40 626 TOMMASO DETTO GIOTTINO molto poteva dispone di lui, dipignere per dispregio nella torre del Palagio del potestà il dette duca ed i suoi se- guaci : che furono messer Ceritieri Visdomini, messer Ma- ladiasse,* il suo Conservatore, e messer Eanieri da San Gi- mignano, tutti con le mitere di giustizia in capo vitupero- sámente. Interno alia testa del duca erano molti animali rapaci e d'altre sorti, significanti la natura e qualità di lui; ed uno di que' suoi consiglieri aveva in mano il Palagio de'Priori delia città, e come disleale e traditore delia patria glie lo porgeva: e tutti avevano sotto l'arme e l'insegne delle famiglie loro, ed alcune scritte, che oggi si possono malamente leggere per essere consúmate dal tempo.® Nella quale opera, per disegno e per essere stata condotta con molta diligenza, piacque umversalmente a ognuno la maniera dell'artefice. Dopo, fece allé Campera, luego de'monaci Neri fuer delia porta a San Piero Gat- tolini, un San Cosimo e San Damiano, che furono guasti neir imhiancare la chiesa. Ed al ponte a'Romiti, in Val- darno, il tahernacolo ch'è in sui mezzo múrate, dipinse a fresco, con bella maniera, di sua mano.® Trovasi per ricordo di molti che ne scrissero, che Tommaso attese alia scultura, e lavorò una figura di marino nel campanile di Santa Maria del Fiore di Firenze, di braccia quattro, verso dove oggi sono i Pupilli.'^ In Roma similmente con- dusse a buen fine, in San Giovanni Laterano, una storia, dove figuró il papa in più gradi, la quale oggi ancora si vede consúmala e rosa dal tempo; edin casa degli Orsini, una sala piena di uomini famosi ; ed in un pilastre d'Ara- celi, un San Lodovico molto bello, accanto all'altar mag- * *11 suo vero nome è Meliadusse. - Seconde Gio. Villani (lib. xii, cap. 34), quest'opera (delia quale non ri- mangono che alcuni graffi indeterminati) fu fatta nel 1344. Il Baldinucci riferisce oltre i nomi di quelli che vi eran dipinti, i versi scritti sotto ciascun di loro. ' La pittura peri col tahernacolo, sui principio del secolo scorso. ' t Vedi quel che abbiamo detto a pag. 621-22, nota 1, intorno a questa statua e al suo probabile autore. TOMMASO DETTO GIOTTINO 627 giore a man ritta2 In Ascesi ancora, nella chiesa di sotto di San Francesco, dipinse sopra il pergamo, non vi es- sendo altro luogo che non fusse dipinto, in un arco, la Coronazione di Nostra Donna con molti Angeli intorno, tanto graziosi e con bel! arie nei volti, ed in modo dolci e delicati, che mostrano con la sólita unione de'colori (il che era proprio di questo pittore), lui avere tutti gli altri tnsin' allora stati paragonato ^ ; e intorno a questo arco fece alcune storie di San Niccolò. Parimente, nel monastero di Santa Chiara della medesima città, a mezzo la chiesa, dipinse una storia in fresco, nella quale è Santa Chiara sostenuta in aria da due Angeli che paiono veri, la quale resuscita un fanciullo che era morto; men- tre le stanno intorno, tutte piene di maraviglia, molte feminine belle nel viso, nell'acconciature de'capi, e negli abiti che hanno in dosso di que'tempi, molto graziosi. Nella medesima citta d'Ascesi fece, sopra la porta della cittk che va al Duomo, cioe in un arco dalla parte di dentro, una Nostra Donna col Figliuolo in collo, con tanta diligenza che pare viva; ed un San Francesco ed un altro Santo bellissimi: le quali due opere, sebbene la storia di Santa Chiara non e finita, per essersene Tom- maso tornato a Firenze annnalato, sono perfette e d'ogni lode dignissime.® Dicesi che Tommaso fu persona ma- linconica e molfco solitaria, ma dell'arte amorevole e stu- diosissimo; come apertamente si vede in Fiorenza nella chiesa di San Romeo, per una tavola lavorata da lui a tempra con tanta diligenza ed amere, che di suo non si ' Tutte queste pitture fatte in Roma sembran perite. i È da notare che il Vasari assegna a Masolino da Panicale le pitture della sala nella casa vecchia degli Orsini. ^ II Fea ( Descrizione della Basilica Assisiate ) dice che 1' Incoronazione è opera del 1347, di un Frate Martine, ch'egli crede scolare di Simone da Siena, t II Fea fece il Proemio. II resto- è del Ranghiaschi. ® Durano tuttavia alcune delle pitture da lui fatte in Assisi (quelle per esempio della cappella di San Niccolò nella chiesa di sotto di san Francesco ), e son ve- ramente perfette pel loro tempo, e degnissime di lode. 628 TOMMASO DETTO GIOTTINO è mai veduto in legno cosa meglio fatta. In questa ta- vola, che è posta nel tramezzo di detta chiesa a man destra, è nn Cristo morto cou le Marie interno e Nice- demo, accompagnati da altre figure, che con amaritu- dine ed atti dolcissimi ed affettuosi piangono qnella morte, torcendosi con diversi gesti di mani, e hattendosi di ma- niera, che nell'aria de'visi si dimostra assai chiaramente r aspro dolore del costar tanto i peccati nostri. Ed ^ cosa maravigliosa a considerare, non che egli penetrasse con ringegno a si alta imaginazione, ma che la potesse tanto bene esprimere col pennello. Laoncle ë quest' opera som- inclínente degna di lode, non tanto per lo soggetto e per l'invenzione, qnanto per avere in essa mostrato 1'artefice in alcnne teste che piangono, che ancora che il lineamento si storca nelle ciglia, negli occhi, nel naso e nella bocea di chi piagne, non guasta però në altera una certa bel- lezza, che suele molto patire nel piante, quando altri non sa bene valersi dei bnon modi iiell' arted Ma non ë gran fatto che Griottino conducesse questa tavela con tanti av- vertimenti, essendo state nelle sue fatiche desideroso sem- pre più di fama e di gloria, che d'altro premio o ingor- digia del gnadagno, che fa meno diligenti e bnoni i maestri del tempe nostre.^ E come non procacció cestui d' avere gran ricchezze, cosí non andó anche molto dietro ai comodi della vita; anzi, vivendo poveramente, cercó di sodisfar piii altri che se stesso: perchë, governandosi male e durando fatica, si mori di tisico d'eta d'anni tren- ' *Questa tavola, opera veramente stupenda, si conserva nella R. Gallería degli IJffizj. ^ t Negli Spogli di Garlo Strozzi (cod. 591 della classe xxv nella Magliabe- chiana) si ha la memoria tratta dalle Ricordanze di Benedetto Albizzi d'un'altra opera di Maso, che da gran tempo è perduta. Essa dice cosi: 1392. Ricardo che io Benedetto di Banco degli Albizi feci compiere et racconciare la storia di Christo disposto della croce sopra la porta del Cimiteró di San Fiero Mag- giore; e fecela fare di prima la Brea figliuola d'Albizzo del Riccho degli Albizi, et dipinsela Maso dipintore, grande maestro. Quindi si legge: Niccoló di Fiero Gerini dipintore per racconciare detta figura. TOMMASO DETTO GIOTTINO 629 taclue, e da'parenti ebbe sepoltura fuor di Santa Maria Novella, alia porta del Martello, allato al sepolcro di Buontura/ Furono discepoli di Giottino, il quale lasciò più fama che facultà, Giovauui Toscaui^ d'Arezzo, Micheliuo, Giovauui dal Poute, e Lippo,'' i quali furouo assai ra- giouevoli maestri di quest' arte : ma più di tufcti Giovauui Toscaui,® il quale fece dopo Tommaso, di quella stessa maniera di lui, moite opere per tutta Toscaua; e par- ticolarmeute, uella Pieve d'Arezzo, la cappella di Sauta Maria Maddaleua de' Tuccerelli; ® e uella Pieve del ca- stel d'Empoli, iu uu pilastre, uu Saut'Iacopo. Nel Duomo ' t De'due artefici, cioè Maso di Banco e Giotto di maestro Stefano, de'quali sotto 11 nome di Tommaso detto Giottino il Vasari lia composto questa Vita, colui che mori di tísico a trentadue anni crediamo che sia stato Maso. Nella prima edizione si leggono questi due versi scritti per la sua morte, ma che pajono più moderni ; Heu mortem , infandam mortem, quae cúspide acuta Corda homiuum laceras dum venis ante diem ! ^ i Nella edizione del 1568 diceva Tossicani per errore di stampa, conser- vato in tutte le posteriori. Noi l'abbiamo corre.tto in Toscani. Se fosse veramente d'Arezzo, come dice il Vasari, è dubbio. Le memorie che abbiamo di lui lo fa- rebbero credere florentino. ® *De'molti pittori che col nome di Michele si trovano, circa a questo tempo, nel vecchio libro delia Compagnia di San Luca, chi saprebbe dire quale sia il Mi- chele o Michelino citato dal Vasari? — t Forse fu Michele di Maso di Michelozzo matricolato all'arte nel 1358 e ascritto alia Compagnia de'Pittori sotto l'anno 1373, il quale fu sotterrato in Santa Maria Novella nella sepoltura della sua famiglia, che era presso a quella di Buontura Dati da Lucca. '' *Di questi due arteflci si leggono piú sotto le Vite. ' Nel vecchio libro della Compagnia de' Pittori il suo nome si trova regi- strato cosí: Giovanni di Francescho dipintore Toschani mccocxxuii. t Mori a'2 di maggio 1403 e fu sepolto in Santa Maria del Flore. Dalla sua portata al cataste del 1427 e da quelle di monna Niccolosa sua moglie, del 1430 e 1433 (Quartiere San Giovanni, Gonfalone Drago), si conoscono alcune sue opere, che non ricorda il Vasari, cioè che egli piglió a compiere le pitture della cappella Ardinghelli in Santa Trinita, dal Biógrafo attribuite a don Lorenzo Monaco, lasciate non flnite da un frate Domenico; che per Simone Buondelmonti cominció una Nunziata, a cui dopo la sua morte diede compimento Giuliano d'Arrigo detto Pesello, e finalmente che lavoró una tavola per il conte d'Urbino. Il Vasari lo fa discepolo di Giottino, il che non è inverosimiie, quando s'intenda di Giotto di maestro Stefano. ® * Pitture péri te. 630 TOMMASO DETTO GIOTTINO di Pisa ancora lavorò alcune tavole, che poi sono state levate per dar luogo alie moderne. L' ultima opera che cestui fece, fu, in una cappella del vescovado d'Arezzo, per la contessa Griovanna moglie di Tarlato da Pietra- mala, una Nunziata bellissima, e San lacopo e San Fi- lippo. La quale opera, per essere la parte di dietro del muro volta a tramontana, era poco meno che guasta af- fatto dairumidita, quando rifece la Nunziata maestro Agnolo di Lorenzo d'Arezzo,^ e poco poi Giorgio Vasari, ancora giovanetto, i Santi lacopo e Filippo, con suo grand'utile; avendo molto imparato ahora, che non aveva comedo d'altri maestri, in considerare il modo di fare di Giovanni, e l'ombre e i colori di quell'opera, cesi guasta com' era.^ In questa cappella si leggono an- cora, in memoria delia contessa che la fece fare e dipin- gere, in uno epitafíio di marino, queste parole: Anno Domini mcccxxxv de mense Angustí hanc capellam construí fecit nobilis domina comüissa Joanna de Sancta Flora uxor nohilis militis domini Tarlati de Petramala ad honorem Beatae Mariae Virginis.^- Dell'opere degli altri discepoli di Giottino non si fa menzione, perché furono cose ordinarie, e poco somi- glianti a quelle del maestro, e di Giovanni Toscani loro condiscepolo. Disegnò Tommaso benissimo, come in al- cune carte di sua mano, disegnate con molta diligenza, si può nel nostro Libro vedere. ' Di Agnolo di Lorenzo parla il Vasari nella Vita di Don Bartolommeo della Gatta. La Nunziata da lui rifatta nella cappella della contessa Giovanna (oggi cappella del Battistero ) è perita. ^ I santi Jacopo e Filippo rifatti dal Vasari sono ancora in essere. ' i II 1335 segna il tempo della costruzione della cappella, ma non del le pitture del Toscani, che dovevano esser posteriori di molti anni, se veramente erano di lui. Questa Vita mostra vie più le contradizioni e le incertezze, in cui spesso il Vasari era costretto a inciampare, tra per la mancanza de'documenti, tra per la povertâ della sua critica storica. GIOVANNI DAL PONTE 631 PITTORE FIORENTINO { Nato nel 1307 ; morte nel 1365 ) Sebbene non ë vero il proverbio antico, në da fidar- sene inolto, che a goditore non manca mai roba; ma si bene in contrario ë verissimo, che chi non vive ordina- tamente nel grado suo, in ulthno stentando vive, e miiore miseramente ; si vede nondimeno che la fortuna aiuta al- cuna volta piuttosto coloro che gettano senza ritegno, che coloro che sono in tutte le cose assegnati e ratte- nuti. E quando manca il favore délia fortuna, supplisce moite volte al difetto di lei e del mal governo degli uomini la morte, sopravvenendo quando appunto comincereb- bono cotali uomini, con infinita noia, a conoscere quanto sia misera cosa avere sguazzato da giovane e stentare in vecchiezza, poveramente vivendo e faticando: come sa- rebbe avvenuto a Giovanni da San Stefano a Ponte di Fiorenza,^ se, dopo avere consúmate il patrimonio, molti guadagni che gli fece venire nelle mani piuttosto la for- ' i Come nella Vita precedente abbiamo mostrato, che il Vasari di due pit- tori diversi ne ha formato un solo, al quale assegna le opere che in parte sono dell' uno, e in parte dell' altro ; cosi vedremo nella presente che egli dà ad un solo Giovanni, vissuto nel secolo xiv, alcune pitture fatte da due e forse più artefici del medesimo nome, ma di età e di maniera differenti. Ed è quasi impos- 632 GIOVANNI DAL PONTE tuna che i nieriti, e alcune eredita che gli vennero da non pensato luego, non avesse finito in un inedesimo tempo il corso delia vita e tutte le faculta. Cestui dunque, che fu discepolo di Buonainico Buffahnacco,^ e T imitó piü nel- l'attendere alie como dita del mondo, che nel cercare di farsi valente pittore, essendo nato Tanno 1807, e giova- nette state discepolo di Buffalmacco; fece le sue prime opere nella pieve d'Einpoli, a fresco, nella cappella di San Lorenzo, dipignendovi molte storie della vita d'esso Santo con tanta diligenza, che, sperandosi dopo tanto principio miglior mezzo, fu condotto T anno ISM in Arezzo; dove, in San Francesco, lavorò in una cappella r Assunta di Nostra Donna. E poco poi, essendo in qual- che crédito in quella città per carestia d'altri pittori, dipinse nella Pieve la cappella di Sant' Onofrio e quella di Sant'Antonio, che oggi dalla umidità ë guasta." Fece ancora alcune altre pitture che erano in Santa Giustina ed in San Matteo, che con le dette chiese furono man- date per terra, nel far fortificare il duca Cosimo quella citta; quando, in quel luogo appunto, fu trovato a pië della coscia d'un ponte antico, dove alíate a detta Santa Giustina entrava il fiume nella città, una testa d'Appio Cieco ed una del fighuolo, di marmo, bellissime, con un epitaíño antico e similmente bellissime, che oggi sono in guardaroba di detto signer duca.® Essendo poi tórnate sibile lo scoprire di quale de'molti Giovanni pittori fiorentini di quelsecolo, che sono registrati nel Ruolo della Compagnia di San Lúea, abbia inteso di parlare il Vasari: forse di un Giovanni di Lotto del popolo di Santo Stefano a Ponte e abi- tatore in Prato, il quale è presente al testamento fatto in Prato agli 11 di mag- gio 1348 da Andrea di messer Andrea degli Strozzi. (Arcb. di Stato in Firenze, sez. del Diplomático, pergaraene Strozzi-Uguccioni ). ' *Nella Vita di Giottino è detto suo scolare; ma stando alie date degli anni, sarebbe piú probabile che fosse di Buffalmacco. ^ *Le Guide d'Arezzo oggi non ricordano piú le pitture fatte in quella cittá da Giovanni dal Ponte. Probabilmente esse sono perdute. ® Ove sian oggi, nessuno sa dirlo. Chi sa che non si trovino un giorno in qualche villa o giardino reale; come una scultura di Michelangiolo, da lungo tempo smarrita, si è trovata recentemente in una nicchia del teatro di Boboli. GIOVANNI DAL PONTE 633 Giovanni a Firenze in qiiel tempo che si fini di serrare r arco di mezzo del Ponte a Santa Trinita, dipinse in nna cappella fatta sopra una pila, e intitolata a San Miche- lagnolo, dentro e fuori molte figure, e particolarmente tutta la facciata dinanzi; la qual cappella, insieme col ponte, dal diluvio dell'anno 1557 fu portata via. Mediante le quali opere, vogliono alcuni, oltre a quelle che si ë dette di lui nel principio, che fusse poi sempre chiamato Giovanni dal Ponte.^ In Pisa ancora, l'anno 1855, fece in San Paolo a Kipa d'Arno alcune storie a fresco, nella cappellamaggiore dietro ail'altare; oggi tutte guaste dal- l'umido e dal tempo. E parimente opera di Giovanni in Santa Trinita di Firenze la cappella degli Scali, e un'altra che ë allato a quella; ed una delle storie di San Paolo accanto alla cappella maggiore, dov'ë il sepolcro di mae- stro Paolo strolago.^ In Santo Stefano al Ponte Vecchio fece una tavela,® ed altre pitture a tempera e in fresco 1 t Si noti che piü indietro il Vasari dice che Giovanni fu detto dal Ponte, perché abitó o fece bottega presso Santo Stefano al Ponte Vecchio. ^ t La cappella degli Scali in Santa Trinita fu dipinta nel 1434 da Giovanni di Marco e da Smeraldo di Giovanni, che erano compagni ail' arte. I quali di- pinsero ancora per commissione de'Capitani d'Or San Michèle nel 1429 e 1430 l'altra che era allato a quella e la cappella di maestro Paolo Dagomari detto dell'Abaco, morto nel 1366, e sepolto in detta chiesa. Questo Giovanni di Marco che faceva bottega presso Santo Stefano a Ponte nacque nel 1385 e mod nel 1437. Abbiamo notizia che egli, oltre i sopraddetti lavori, dipinse nel 1422 per 45 fio- rini d'oro un pajo di forzieri ad Ilarione de'Bardi, per donare alla Costanza sua figliuola, quando fu mai'itata con Bartolommeo d'Ugo degli Alessandri; e che nel 1433 aveva lavorato altri forzieri per Paolo e Giovannozzo Biliotti e per Zanobi Cortigiani, e dipinto una cappella ad uno de'Quaratesi, soprannominato il Serpe. Di Smeraldo di Giovanni non si ha memoria di altre opere, e solamente sappiamo che mori di settantanove anni il 26 d'agosto 1444. ® t Annotando la Vita d'Andrea Orcagna, abbiamo detto che Mariotto di Nardo dipinse nel 1412 una tavola per la cappella Tolomei in Santo Stefano a Ponte. Ora non sará fuori di luogo l'aggiungere che in quella chiesa erano tre tavole di Ambrogio di Báldese, pittore fiorentino molto reputato a'suoi giorni, che nacque nel 1352 e mori a'30 d'ottobre 1429. Delle quali tre tavole, la prima, che era nell'altare della cappella dedicata a san Filippo e sant'Jacopo e fon- data coi danari lasciati da Jacopo Bartolucci da San Casciano, gli fu allogata nel 1389 dallo spedalingo di Santa Maria Nuova; e furongli commesse le altre due nel 1409 e 1412 dai Gapitani d'Or San Michele, l'una per la cappella di 634 GIOVANNI DAL PONTE per Fiorenza e fuori, che gli diedero crédito assai/ Con- tentó costni gli amici snoi, ma pin nei piaceri che nelle opere; e fn amico delle persone letterate, e particolar- mente di tutti quelli che per venire eccellenti nella sua professione frequentavano gli stndj di quella: e sebbene non aveva cercato d'avere in së quello che desiderava in altrni, non restava però di confortare gli altri a vir- tnosamente operare. Essendo finalmente Giovanni vivnto cinquantanove anni, di mal di petto in pochi giorni usci di questa vita; nella quale poco più che dimorato fusse, averebbe patito molti incommodi, essendogli appena ri- maso tanto in casa, che bastasse a dargli onesta sepol- tura in Santo Stefano dal Ponte Vecchio." Furono 1'opere sue intorno al 1365.® N"el nostro Libro de'disegni di diversi antichi e mo- derni ë un disegno d'acquerello di mano di Giovanni, dov'ë un San Giorgio a cavallo che uccide il serpente, e un' ossatura di Morte, che fauno fede del modo e ma- niera che aveva cestui nel disegnare.'' madonna Cecea de'Lupicini, dedicata a santa Caterina, e l'altra per quella di messer Alamanno de'Gherardini. Delia tavola dipinta, a detto del Vasari, da Gio- vanni, non sappiamo dir niente. ' Di tutte queste pitture fatte per Firenze non pare che resti piú nulla. Poco forse resta di quelle fatte per fuori. ^ Nella prima edizione delle Vite si legge di lui quest'epitaffio : Deditus illecebris, et prodigas usque bonorum: Quae linquit moi'iens mi pater, ipse fui. Ai'tibus insignes dilexi semper bonestis, Pictura poteram claras et esse volens. ^ Singolare questo porre, che fa il Vasari, intorno all'anno delia morte le pitture d'ogni artefice anche di chi, essendo morto vecchio, operó tant! anni innanzi. ' Maggiori notizie si cercherehbero indarno nel Baldinucci, che copia, si puô dire, senz'altro aggiugnervi, questa Vita scritta dall'antecessore. AGNOLO GADDI 635 PITTORE FIOKENTINO { Nato ; morte nel 1396 ) Di quanto onore e utile sia Tessere eccellente in un'arte nobile, manifestamente si vide nella virtu e nel governo di Taddeo Gaddi; il quale, essendosi procacciato con la industria e fatiche sue, oltre al nome, bonissime facultà, lasciò in modo accomodate le cose delia famiglia sua quando passò all'altra vita, che agevolmente potettono Agnolo e Giovanni suoi figliuoli dar poi principio a gran- dissime ricchezze e all'esaltazione di casa Gaddi, oggi in Firenze nobilissima e in tutta la Cristianita molto repu- tata/ E di vero ë ben state ragionevole, avendo ornato Gaddo, Taddeo, Agnolo e Giovanni colle virtù e con Tarte loro moite onorate chiese, che siano poi stati i loro suc- cessori dalla Santa Chiesa Romana e da' Sommi Pontefici di quella ornati delle maggiori dignità ecclesiastiche. ^ ' Questa celebratissima famiglia, notava il Bottari, è spenta, benchè se ne serbi il nome, che fu preso da quella de'Pitti sua erede. Molto debbono ad essa l'arti e le lettere. I! suo palazzo fu giá un gran museo, pieno d'eccellenti quadri, di marmi scolpiti e scritti, di medaglie, di testi a penna eco., ond'oggi s'arrio- chiscono gallerie e biblioteche famose. ^ Sono celebri, diceva pure il Bottari, i cardinal! Niccoló e Taddeo, i cui sepolcri si veggono nella cappella di lor famiglia, edificata, col disegno del Dosio, in Santa Maria Novella. 636 AGNOLO GADDI Taddeo, dunqiie, del quale averno di sopra scritto la Vita, lasciò Agnolo e Giovanni snoi figlinoli in coinpagnia di molti snoi discepoli, sperando che particolarmente Agnolo dovesse nella pittura eccellentissimo divenire: ma egli, che nella sua giovanezza mostro volere di gran lunga su- perare il padre, non riusci altramente secondo l'openione che già era stata di lui conceputa; perciocchè, essendo nato e allevato negli agi che sono moite volte d' impedimento agli studj, fu dato più a'traíñchi ed alie mercanzie, che air arte d ella pittura. II che non ci dee në nueva në strana cosa parere, attraversandosi quasi sempre l'avarizia a molti ingegni che ascenderehbono al colmo delle virtù, se il desiderio del guadagno negli anni primi e migliori non impedisse loro il viaggio. Lavorò Agnolo nella sua gio/anezza in Fiorenza, in San lacopo tra'Fossi, di figure poco più d'un braccio, un'istorietta di Cristo quando re- suscitó Lazzaro quatriduano; dove, immaginatosi la cor- ruzione di quel corpo state morte tre di, fece le fasce che lo tenevano legato macchiate dal fracido della carne, e interno agli occhi certi lividi e giallicci della carne tra la viva e la morta, molto consideratamente; non senza stupore degli Apostoli e d'altre figure, i quali con atti- tudini varie e belle, e con i panni al naso, per non sentiré il puzzo di quel corpo corrotto, mostrano non meno ti- more e spavento per cotale maravigliosa novita, che al- legrezza e contento Maria e Marta, che si veggono tor- nare la vita nel corpo morto del fratello. La quale opera di tanta bontk fu giudicata, che molti stimarono la virtù d'Agnolo dovere trapassare tutti i discepoli di Taddeo, e ancora lui stesso.' Ma il fatto passò altramente, perchë, come la volontà nella giovanezza vince ogni difBculth per acquistar fama, cosi moite volte una certa straccuratag- gine che seco portano gli anni, fa che in cambio di an- ' Oggi non se ne ha più vestigio. AGNOLO GADDI 637 dare innanzi si torna indietro, come fece Agnolo. Al quale, per cosí gran saggio delia virtù sua, essendo poi stato al- logato dalla famiglia de' Soderini, sperandone gran cose, la cappella maggiore del Carmine, egli vi dipinse dentro tutta la vita di Nostra Donna, tanto men bene che non aveva fatto la resurrezione di Lazzaro, che a ognuno fece conoscere avere poca voglia di attendere con tutto lo stu- dio air arte della pittura: perciocchë in tutta quella cosi grand'opera non è altro di buono che una storia, dove intorno alia Nostra Donna in una stanza sono moite fan- cinlle, che, come hanno diversi gli abiti e 1'acconciature del capo, secondo che era diverso l'uso di que'tempi, cosi fauno diversi esercizj; questa fila, quella cuce, quel- r altra incanna, una tesse, e altre altri lavori, assai bene da Agnolo considerati e condotti/ Nel dipignere símilmente, per la famiglia nobile degli Alberti, la cappella maggiore della chiesa di Santa Croce a fresco, facendo in essa tutto quello che avvenne nel ritrovamento della Croce, condusse quel lavoro con molta pratica, ma con non molto disegno, perche solamente il colorito fu assai bello e ragionevole.^ Nel dipignere, poi, nella cappella del Bardi, pure in fresco e nella medesima chiesa, alcune storie di San Lodovico, si portó molto me- glio.® E perché cestui lavorava a capricci, e quando con più studio e quando con meno, in Santo Spirito pure di Firenze, dentro alia porta che di piazza va in convento, fece sopra un'altra porta una Nostra Donna col Bam- bino in collo, e Sant'Agostino e San Niccolò, tanto bene ' Per l'incendio della chiesa accaduto nel secolo passato queste pitture an- darono perdute. ^ * Queste pitture si conservano tuttavia: e sebbene la gran moltitudine delle figure, non sempre considerataraente disposte, generi una certa confusione, tut- tavia esse sono ammirabili, non solamente per il bel colorito, come dice il Va- sari, ma anche pel sentimento, per afifetto e per gli altri pregi che costituiscouo la grandezza dell' arte di quei tempi. ^ Alie quali fu poi dato di bianco. 638 AGNOLO GADDI a fresco, che dette figure paiono fatte pur ieri.' E perché era in certo modo rimaso a Agnolo per eredità il se- greto di lavorare il musaico,' e aveva in casa gfi istru- menti e tutte le cose che in ció aveva adoperato Glad do suo avolo; egli, pur per passar tempo, e per quella co- modita che per altro, lavorava quando bene gli veniva qualche cosa di musaico. Laonde, essendo stati dal tempo consumati molti di que' marmi che cuoprono T otto facce del tetto di San Giovanni, e perciò avendo rmnido che penetrava dentro guasto assai del musaico che Andrea Tail aveva già in quel tempo lavorato; deliberarono i consoli dell'arte de'mercatanti, acció non si guastasse il resto, di rifare la maggior parte di quella coperta di marmi, e fare similmente racconciare il musaico. Per- che dato di tutto ordine e commissione a Agnolo, egli, Tanno 1346, fece ricoprirlo di marmi nuovi, e soprapporre con nuova diligenza i pezzi nelle commettiture due dita Tuno airaltro, intaccando la metà di ciascuna pietra in- sino a mezzo.® Poi, commettendole insieme con stucco fatto di mastrice e cera fondute insieme, raccomodó con tanta diligenza, che da quel tempo in poi non ha ne il tetto në le volte alcun danno dall'acque ricevuto. Avendo poi Agnolo racconcio il musaico, fu cagione, mediante il consiglio suo e disegno molto hen considerato, che si ri- fece in quel modo che sta ora, intorno al detto tempio, tutta la cornice di sopra di marmo sotto il tetto ; la quale ' "Questa lunetta in fresco non è perduta, ma si vede tuttavia nei luogo precisamente indicate dal Vasari, e mostra ancora quella freschezza di colorito che egli dice. Sennonchè scambia il san Pietro con san Niccoló. Il prof. Rosin i ne ha dato un piccolo intaglio a pag. 66 del tom. II delia sua Storia. ^ Segreto che già avean posseduto Giotto, Simone ecc., e a'giorni d'Agnolo possedevano altri non pochi, siccome ci è attestato dalla magnifica facciata del Duomo d'Orvieto. ' Cioè, fino alla metà delia grossezza delia lastra di marmo. t Negli Spogli fatti dallo Strozzi dei libri dell'Arte de'Mercanti o di Ca- limala, Agnolo Gaddi non è nominate nè pei lavori delia nueva copertura delia chiesa, nè per il restauro de'musaici. AGNOLO GADDI 639 era molto minore che non è e molto ordinaria. Per or- dine del niedesimo furono fatte ancora nel Palagio del Podestà le volte delia sala, che prima era a tetto; ac- ciocchè, oltre airornamento, il fuoco come molto tempo innanzi fatto avea,,non potesse altra volta farle danno. Appresso questo, per consiglio di Agnolo furono fatti in- torno al detto Palazzo i merli che oggi vi sono, i quali prima ^ non vi erano di niuna sorte. Mentre che queste cose si lavoravano, non lasciando del tutto la pittura, di- pinse nella tavola che egli fece delí'altar maggiore di San Brancazio, a tempera la Nostra Donna, San Giovan Batista ed il Vangelista, e appresso San Nereo, Achilleo e Pancrazio, fratelli, con altri Santi. Ma il meglio di quel- l'opera, anzi quanto vi si vede di buono, è la predella sola, la quale è tutta piena di figure piccole, divise in otto storie délia Madonna e di Santa Reparata.^ Nella tavola, poi, deir altar grande di Santa Maria Maggiore, pur di Frrenze, fece, per Barone Cappelli nel 1348, in- torno a una Coronazione di Nostra Donna un ballo d'An- geli ragionevole. ® Poco poi, nella Pieve délia terra di ' t Le volte del Palazzo del Potestà furono incominciate dopo che 1' incendio del 1332 ebbe distrutto il tetto del vecchio edifizio, e Panno dipoi ne erano giá fatte alcune. Ma a questo lavoro si attese con piú alacrità nel 1340, nel quale anno ebbe il carico di quella costruzione Neri Fioravanti, architetto da noi nominato altrove. Perció non ha fondamento nessuno quel che dice il Vasari rispetto ad Angelo Gaddi, il quale, oltrechè non è credibile che fosse preposto ad un lavoro architettonico che non era sua arte, è anche da considerare che egli era giovanissimo al tempo di que'lavori. (Vedi, nelle Curiosità storico- artistiche citate « II Palazzo Pretorio » ). ^ *Questa tavola oggi si conserva nella Galleria delle Belle Arti. Chi in- tenda come nelle istoriette de' gradini e nelle altre parti minori delle tavole le imperfezioni dell'arte appariscono minori; e come, fuor délia tradizionale e per lo più uniforme rappresentazione e collocazione delle principali figure délia Madonna e de' santi, il campo fosse agli artisti piú libero ; non troverà facil- mente quella differenza che, tra la parte principale e la predella, il Vasari voile ravvisare in questa veramente bella e grandiosa tavola. — Delle sette storiette del gradino, oggi ne manca una. ' *Di questa tavola ignoriamo la sorte. — t Grediamo che l'anno 1348 si debba riferire alla costruzione délia cappella maggiore di quella chiesa, ma non alla pittura délia tavola; perché Agnolo in quel tempo doveva essere poco più che fanciullo. 640 AGNOLO GADDI Prato, stata riedificata con ordine di Giovanni Pisano l'anno 1312, come si è detto di sopra/ dipinse Agnolo nella cappella a fresco, dove era riposta la Cintola di Nostra Donna, moite storie delia vita di lei;' e in altre ciñese di quella terra, piena di monasteri e conventi ono- ratissimi, altri lavori assai. In Fiorenza, poi, dipinse l'arco sopra la porta di San Romeo e lavorò a tempera in Orto San Michele una disputa di Dottori con Cristo nel tempio.* E nel medesimo tempo, essendo state rovinate ' *Vedi nella Vita di Niccola e Giovanni pisani, pag. 279, nota 1. ^ *La piú grande opera, e veramente stupenda, che di lui resti. Sono tre- dici storie. I. San Giovacchino scacciato dal tempio, e poi confortato dall'Angelo che gli annunzia vicina la proie. II. San Giovacchino che dà la fausta novella alla raoglie. III. La Nascita delia Madonna. IV. La Presentazione di Maria al tempio. V. Lo Sposalizio delia Madonna. VI. L'Annunziazione. VIL La Nascita di Cristo. VIII e IX. La Madonna deposta nel sepolcro ( della quale però è tagliata una parte), e l'Assunzione al cielo e I'Incoronazione di lei. X. San Tommaso apostolo che riceve il sacro Cingolo dalla Madonna. XI. Viaggio di Michele de'Dagomari, pratese, da Terra Santa in Italia, portando seco il sacro Cingolo. XII. Michele ritorna in patria e in seno alia sua famiglia. XIII. Venuto amorte, Michele añida al proposto Uberto la sacra reliquia; il quale Uberto la trasferisce alia chiesa, in mezzo a'sacerdoti, accoliti ed altri fedeli, cantando lodi a Dio e alia Vergine per il prezioso acquisto. Nella volta maggiore, poi, sono i quattro Evangelisti; nella minore, avanti alia cappella, i quattro Dottori della Chiesa. Negli archi dell'entrata, la navicella di sanPietro, e Cristo disputante nel tem- pió. Queste pitture furono ristaurate dal valente signor Antonio Marini di Prato, nell'anno 1831 ; e in quella occasione 1'egregio signor canónico Ferdinando Bal- danzi (morto poi arcivescovo di Siena) stampó una illustrazione, dalla quale noi abbiamo cavato questa sommaria descrizione. — t Alia cappella della Cintola si diede principio nel 1365. Si puô credere che le pitture del Gaddi fossero finite nel 1395, perché il 4 d'aprile di quest'anno avvenne la solenne dedicazione della cappella. ® Pittura perita. ' Pittura a' giorni del Bottari ancor bene conservata. Fu rimossa in occa- sione di porre sotto l'organo quel tamburlano che vi si vede a uso di sagrestia; né alcuno sa dire ov'essa oggi si trovi. t Dai libri della Compagnia d'Or San Michele non si rileva che Agnolo dipingesse in quell'oratorio. Ricordano in vece i lavori che vi fecero Niccolò di Piero Gerini e Ambrogio di Báldese. Dipinse Agnolo, tra il 1394 e il 1396 una tavola per la chiesa di San Miniato al Monte. Vuolsi che sia quella che oggi è accanto all'alfresco di san Miniato tra la porta della sagrestia e quella del chio- stro. Vi è nel mezzo rappresentato il detto santo, con alcune storiette della sua vita ai lati. Pare che in antico stesse sull'altare dedicate a quel santo, nella chiesetta sotterranea o Confessione. ( V. Cenni storico-artistici di San Miniato al Monte dell'avv. Gio. Felice Berti . Firenze, 1850; in-8). AGNOLO GADDI 641 moite case per allargaré, la piazza de'Signori, e in par- ticolare la chiesa di San Romolo, ella fn rifatta col di- segno d'Agnolo: del quale si veggiono in detta citta, per le chiese, molte tavole di sua mano; e similmente nel dominio si riconoscono molte delle sue opere, le quali furono lavprate da lui con molto suo utile, sebbene la- vorava piti per fare come i suoi maggiori fatto avevano, che per voglia che ne avesse, avendo egli indiritto Tanimo alia mercanzia,^ che gli era di migliore utile : come si vede quando i figliuoli, non volendo pih vivero da dipintori, si diedero del tutto alia mercatura, tenendo perciò casa aporta in Venezia insieme col padre, che da un corto tempo in là non lavorò se non per suo placero, e in un corto modo per passar tempo. In questa guisa, dunque, mediante i traífici e mediante Tarto sua, avendo Agnolo acquistato grandissime faculta, mori Taimo sessanta- treesimo di sua vita,^ oppresso da una febbre maligna che in pochi giorni lo fini. Furono suoi discepoli mae- stro Antonio da Ferrara,® che fece in San Francesco a Urbino ed a Città di Castelló molte belT opere ; e Ste- ' t Noi credlamo che Agnolo attendesse per tutta la sua vita all'arte, e che solamente i figliuoli si rivolgessero alia mercatura, nella quale accumularono grandi ricchezze. ^ Tre provvisioni degli anni 1349, 1351, 1356 appellano alia riedificazione della chiesa di San Romolo in altro sito; e sono citate in estratto dal Gaye, Carteggio inédito ecc., tom. I, pag. 499, 502, 508. i Come gli abbiamo negato il lavoro delle volte del Palazzo del Potestá, cosí neghiamo ch'egli abbia dato il disegno della nuova chiesa di San Romeo. ® *11 Baldinucci pone la morte di Agnolo Gaddi all'anno 1387. Ma da una deliberazione degli Opérai di Santa Reparata, ch' egli stesso cita nella Vita di Paolo Uccello, si ritrae che Agnolo era vivo anche nel 1390; imperciocchè in quell'anno è allogato a disegnare a Angelo di Taddeo Gaddi e Giuliano d'Ar- rigo pittori, per prezzo di fiorini 30, la sepoltura da farsi di messer Piero da Farnese. — t Nei Registri de'Morti di Firenze tenuti dagli Ufficiali della Grascia, si legge, circa la morte del Gaddi, questa memoria: «1396. die x\q « mensis ottobi'. Angelus Tadey taddi {sic, invece di Gaddi) pictor de populo « Sancti Petri magioris (sec) Quarterio Santi Johannis, seppultus in ecclesia « Sante Grucis. Retulit Dopninus Fortiori becchamortus ; banditus fuit ». ' Antonio Alberti, contemporáneo di Galasso Galassi, da cui comincia (poco dopo il 1400) la scuola pittorica ferrarese. Vasabi 41 — , Opere. Vol. I. 642 AGNOLO GADDI fano da Verona/ il quale dipinse in fresco perfettissi- mámente, come si vede in Verona sua patria in pin Ino- ghi, ed in Mantoa ancora in molte sue opere. Cestui, fra r altre cose, fu eccellente nel fare con bellissime arie i volti de'putti, delle feminine e de'vecchi; come si può vedere nelf opere sne, le qnali fnrono imitate e ritratte tntte da quel Pietro da Perugia miniatore, che minió tutti i libri che sono a Siena in Duomo nella hbreria di papa Pío , e che colorí in fresco praticamente.^ Fu an- che discepolo d'Agnolo Michele da Milano,^ e Giovanni ' Scrivendo di Timoteo della Vite, nato in Urbino da Calliope figlia di maestro Antonio, aggiunge il Vasari che questi era « assai buon pittore del tempo suo, secondochè le sue opere in Urbino e altrove ne dimostrano ». Nulla di certo, dice il Lanzi, rimane ora di lui in Urbino, se non forse nella sagrestia di San Bar- tolommeo una tavola con piccole figui-e di quel Santo e del Battista; opere molto somiglianti a quelle d'Agnolo Gaddi, e di colore anche più vivo e piú morbido. In Ferralla nulla se ne vede oggidi, atterrate le camere del palazzo d'Alberto d'Esté; in una delle quali verso il 1438 avea dipinto i principali personaggi intervenuti al Concilio per la riunione de'Greci; in altra, la gloria de'Beati, onde il pa- lazzo, cangiato poi in pubblico studio, fu detto del Paradiso. Ma il Padre Pun- gileoni assicura che esiste tuttavia, nella chiesa di San Bernardino, fuori d'Ur- bino, un [quadro bislungo colla Madonna in trono e Gesù Bambino dormiente sul suo grembo, coll'iscrizione Antonius de Ferraria 1439; e che nella sagre- stia di detta chiesa sussistono altri tredici quadretti dello stesso pittore, i quali facevano parte del detto quadro, e rappresentano in figura intera i santi Pietro, Paolo, Lodovico di Tolosa, Giovan Battista e Girolamo; e in mezze figure, i santi Caterina, Antonio da Padova, Lodovico e Chiara, un frate ed un vescovo. - *Di questo Stefano da Zevio (che non va confuso con Altichieri o Aldi- ghieri da Zevio, come han voluto alcuni) il Vasari ci dà maggiori notizie nella Vita di Vittore Scarpaccia o meglio Carpaccio. ® *Questo miniatore fu da alcuni confuso col Vannucci, da altri con un Pietro 0 Péri no Cesarei, pittore perugino che operava sul finiré del secolo xvi. La bar- bara dispersione dell' archivio Piccolomineo ci toglie il modo di stabilire il vero intorno alla sua persona, conosciuta a noi pel solo nome. È però da supporre che i libri miniati da lui per Pió II, o meglio per Pió III, fossero quelli stessi che qualche scrittore afferma essere stati portati in Spagna dal cardinale di Bur- gos, stato governatore in Siena per Cario V nel 1556. E qui pare opportune di avvertire, che la ricca raccolta dei libri corali che ora si veggono nella Librería del Duomo, i quali furono fatti scrivere e miniare a spese dell'Opera, non fu- roño posti in quel luego se non sul cominciare dello scorso secolo ; ossia aller- quando dalla casa Piccolomini passé al Duomo la proprietá di quella Librería. — t Tra i miniatori che lavorarono ne' libri di papa Pie II non se ne trova nes- suno chiamato Pietro. Vedi il Giornale d'erudizione artística^ Perugia, 1877, vol. VI, pag. 129 e seg., dove sono regístrate le spese fatte da quel pontefice AGNOLO GADDI 643 Gaddi suo fratello; il quale iiel chiostro di Santo Spirito, dove sono gli archetti di Gaddo e di Taddeo, fece la di- sputa di Cristo nel tempio con i Dottori, la Purificazione delia Vergine, la Tentazione di Cristo nel deserto, ed il Battesimo di Giovanni;' e finalmente, essendo in espetta- zione grandissima, si mori.^ Imparò dal medesimo Agnolo la pittura Cennino di Drea Cennini® da Colle di Val- delsa: il quale, come aífezionatissimo dell'arte, scrisse in dal 1460 al 1464. Nel Ruolo de'Miniatori Perugini, posto dopo gli Statuti di quell'Arte in Perugia, pubblicato nel vol. II del citato giornale a p. 309 e 310, si leggono i nomi d'un Pietro Paolo della Monna e di un Pietro di maestro Meo, i quali vivevano appunto ai tempi di papa Pio II, uno de'quali potrebbe essere il Pietro da Perugia nominato dal Vasari, se non paresse piú giusta la opinione che quel maestro Pietro lavorasse per conto di Francesco Piccolomini suo ñipóte e successore nel pontificato col nome di Pio III; il quale fece costruire ed ornare la Librería Piccolominea del Duomo di Siena per mettervi i libri di papa Pio II ed i suoi, e che tra i miniatori da lui adoperati per ornarli fosse quel maestro Pietro da Perugia. Di un miniatore di questo nome e patria vedemmo, alcuni anni sono, in un UíRziolo delia Madonna, un bellissimo lavoro rappresentante Cristo in croce con san Giovanni Evangelista e la Vergine, firmato col nome di Pietro Perugino, condotto intieramente nella maniera del celebre Pietro Perugino. ' *11 prof. Rosini, con certe parole del Lomazzo, confuta il Lanzi, il quale pone questo Michelino dopo il 1441, mentre in quell'anno doveva esser morto. Dubita poi che il credere di alcuni (seguendo il Lanzi) che i Michelini fossero due, sia un equivoco; e sospetta, in fine, che quel Michèle di Ronco milanese, che operava nel 1375, scoperto dal conte Tassi nelle notizie dateci di due pittori per cognome De Nova, che dipinsero nel Duomo di Bergamo, sia il Michelino discepolo de'Giotteschi. [Storia della Pittura ecc., II, 205-206). ^ t Di un lavoro d'Angelo Gaddi non ricordato dagli scrittori si ha memoria ne'libri dello Spedale del Bigallo, cioè che egli vi dipinse per 10 fiorini d'oro una Nunziata, a'piedi della quale era in ginocchio la figura di Giovanni di Buc- chero detto Giovanni Rosso, che ave va lasciato erede il detto Spedale. ' *Queste pitture sono perite; ma in compenso abbiamo di Giovanni un af- fresco nella chiesa inferiere d'Assisi, rappresentante Cristo in croce, con María Vergine e san Giovanni ; opera per lo innanzi affatto ignota, scoperta dall' av- vocato Fea nel 1789. Alio stesso scrittore debbesi la notizia di un altro Gaddi per nome Giacomo, ignoto a tutti, e che egli indica come autore di alcuni afire- schi esistenti nella medesima chiesa inferiere d'Assisi; tra'quali, la Strage de- gl'Innocenti. (Vedi la sua Descrizione della Basilica d'Assisi, pag. 11 e 12). t A proposito di queste pitture nella chiesa inferiere d'Assisi i signori Crowe e Cavalcaselle (op. cit., vol. I, pag. 475) dicono che nessuna presenta il carat- tere del tempo e della maniera di Angelo Gaddi; e che il fresco della Strage de- gl'Innocenti attribuito dal Fea ad un Giacomo Gaddi è uno di quelli dati dal Rumohr a Giovanni da Milano, e che essi hanno restituito a Giotto. 644 AGNOLO GADDI "Ull libro di sua uiauo^ i uiodi del lavorare a fresco, a tempera, a colla ed a gomma, ed iiioltre come si miuia e come iu tutti i modi si mette d'oro; il qual libro è uelle maui di Giuliauo orefice sauese,® eccelleute mae- stro e amico di quest'arti. E uel priucipio di questo suo libro trattò delia uatura de'colori, cosi miuerali come di cave, seconde che imparò da Aguóle suo maestro; ve- leudo, poichè forse iioii gli riusci imparare a perfetta- meute dipiguere, sapere almeno le maniere de'colori, delle tempere, delle colle e dello iugessare, e da quali colori dovemo guardarci come dauuosi uel mescolargli; ed iusomma molti altri avvertimeuti, de' quali uou fa bi- soguo ragiouare, esseudo oggi uotissime tutte quelle cose che cestui ebbe per gran segreti e rarissime iu que'tempi, Non lascerò già di dire che uou fa meuzioue, e forse uou dovevauo essere iu uso, d'alcuui colori di cave; come terre rosse, seure, il ciuabrese, e certi verdi iu vetro. Si souo similmeute ritrovate poi la terra d'ombra, che ë di cava; il giallo saute, gli smalti a fresco ed iu olio, ed alcuui verdi e gialli iu vetro, de'quali maiicarouo i pittori di quell'età. Trattò finalmente de'musaici, del maciuare i colori a olio per far campi rossi, azzurri, verdi e d'altre maniere,^ e de'mordeuti per mettere d'oro, ma uou già * t II Trattato delia Pittura di Cennino fu starapato con belle ed erudite note la prima volta in Roma nel 1821 dal cav. Giuseppe Tambroni, sopra un códice Ottoboniano, copiato nel secolo passato da un forestiero, e poi ripubblicato in Firenze, nel 1859, dal Le Monnier, per cura de'fratelli Gaetano e Cario Miianesi molto piú corretto e accresciuto di alcuni capitoli inediti. Essi si servirono per la loro edizione di un códice Laurenziano del secolo xv, e di uno Riccardiano del seguente. Quanto alia persona di Cennino, raccolsero in una prefazione quel piú e meglio che poterono, congetturando che il Cennini nel 1396, dopo la morte d'Agnolo Gaddi, si partisse da Firenze, e andato a Padova fosse a'servigi di Francesco da Carrara, e stabilirono che egli dettasse il suo libro ne'primi anni del secolo xv in Padova, dove si accasô con una madonna Ricca da Cittadella, e dove probabilmente mori, e che l'esemplare Laurenziano del suo Trattato fosse stato copiato nel 1437 da uno che in quel tempo si trovava nelle Stinche di Firenze. ^ *Di questo Giuliano si parlera nella Vita di Domenico Beccafumi. ® Si è creduto di trovar queste parole del Vasari in contradizione cou che quel dice, come poi vedremo, nella Vita d'Antonello da Messina, intorno al ri- agnolo gaddl 645 per figure. Oltre T opere che costui lavorò in Fiorenza col suo maestro, è di sua mano, sotto la loggia dello Spedale di Bonifazio Lupi, una Nostra Donna con certi Santi, di maniera si colorita, ch'ella si è insino a oggi molto ben conservata.^ Questo Cennino, nel primo capi- tolo di detto suo libro, parlando di se stesso, dice queste proprie parole: « Cennino di Drea Cennini da Colle di « Valdelsa, fui informato in nella detta arte dodici anni « da Agnolo di Taddeo da Firenze mió maestro, il quale « imparò la detta arte da Taddeo suo padre, el quale fu « battezzato da Griotto,^ e fu suo discepolo anni venti- « quattro, el quale Griotto rimutò Tarte del dipignere di «greco in latino, e ridusse al moderno, e Tebbe certo « più compiuta che avesse mai nessuno ». Queste sono le proprie parole di Cennino; al quale parve, siccome fauno grandissimo benefizio quelli che di greco traducono in latino alcuna cosa, a coloro che il greco non intendono, che cosí facesse Griotto, in riducendo Tarte delia pittura d' una maniera non intesa në conosciuta da nessuno ( se non se forse per goífissima) a bella, facile e piacevolis- sima maniera, intesa e conosciuta per buona da cbi ba trovamento délia pittura ad olio. Il Lanzi, giovandosi delle osservazioni del Morelli, concilia ciô che può sembrare contradittorio ; come a suo luogo pur si vedrà. ' *Fondato da Bonifazio Lupi, de'marchesi di Soragna, podestà di Firenze e capitano del popolo. Vedi Gaye, tom. I, pag. 528 e 529, ove al 23 di dicembre del 1376 è riferita la supplica del Lupi per costruire lo Spedale di San Giovanni Battista. Costó 24,000 fiorini d' oro. — 4 La pittura del Cennini, quando si rifece il loggiato dello Spedale di Bonifazio nel 1787, fu per ordine del granduca Pie- tro Leopoldo spiccata dal muro e trasportata sur una tela per opera di un tal Santi Pacini e poi data in deposito all'Accademia delle Belle Arti. Passò in ul- timo nella guardaroba dello Spedale di Santa Maria Nuova, ma cosi sfigurata dai mali ritoccbi cbe non è possibile riconoscere quel cbe essa fosse in antico. Sup- pongono i signori Crowe e Cavalcaselle (op. cit., vol. 1, p. 478) cbe Cennino da Colle sia una medesima persona con quel Cenni florentino cbe nel 1410 di-* pinse in Volterra l'Oratorio delia Compagnia delia Croce; ma questa loro sup- posizione cade fácilmente, quando si ricordi cbe Cennino fu da Colle, e non da Firenze, e nacque da un Andrea, e il pittore Cenni fu flgliuolo di Francesco, e cbe Cenni è nome diverso da Cennino, e Tuno non potere scambiarsi con l'altro. ^ Tenuto al fonte battesimale. 646 AGNOLO GADDl giudizio e punto del ragionevole/ I qiiali tutti discepoli d'Agnolo gli fecero onore grandissime; ed egli fu dai figliuoli suoi; ai quali (si dice) lasciò il valore di cin- quantamila fiorini o più; seppellito in Santa Maria No- vella nella sepoltura che egli medesimo aveva fatto per së e per i discendenti, l'anno di nostra salute 1387.^ 11 ritratto d'Agnolo, fatto da lui medesimo, si vede nella cappella degliAlberti in Santa Croce, nella storia dove Eraclio imperatore porta la croce, allato a una porta, dipinto in profilo, con un poco di barbetta e con un cap- puccio rosato in capo, seconde l'use di que'tempi. Non fu eccellente nel disegno, per quelle che mostrano alcune carte che di sua mano sono nel nostre Libro. ^ Il Vasari non dá nel segno. Rimutò V nrte del dipingere di greco in la- tino, vuol dire che spogliò la pittura delia rozzezza bizantina, e la vesti della gentilezza latina, ossia italiana, prendando la parola latino nel senso piú lato. ^ *Qui il Vasari sbaglia. La sepoltura de'Gaddi in Santa Maria Novella non fu fatta da Angiolo di Taddeo, ma da Angiolo di Zanobi, suo ñipóte; come attesta la iscrizione che anch'oggi si vede in un marmo tondo, nel pavimento di quella chiesa, accanto al sepolcro della Beata Villana, che dice; S. Angelí Zendbii Taddei de Gaddis et suorum. La cappella gli fu donata nel 1446. (Fi-' neschi, Memorie delVantico cimitero di Santa Maria Novella, pag. 91 ). — Nella prima edizione delle Vite si legge questo epitafño: Angelo Taddei f. Gaddio, ingenii et picturae gloria, lionorihus, probitatisque existimatione vere magno, filii moestiss. posuere. B E E ]Sr A 647 PITTORE SANESE (Nato ; morto nel 13S1 ?) Se a coloro che si aífaticano per venire eccellenti in qualche virtii, non troncasse bene spesso la morte nei migliori anni il filo delia vita, non ha dubbio che inolti ingegni perverrebbono a quel grado che da essi e dal mondo più si desidera. Ma il corto vivero degli uoinini, e Tacerbità de'varj accidenti che da tntte le parti ne soprastano, ce li toglie alcnna fiata troppo per tempo: come aporto si potette conoscere nel poveretto Berna sánese;^ il quale, ancora che giovane morisse, lasciò nondimeno tante opere che egli appare di Inngbissima vita; e lasciolle tali e si fatte, che ben si può credere da qnesta mostra, che egli sarebbe venuto eccellente e raro, se non fusse morto si tosto. Veggonsi di sno in Siena, in due cappelle in SanfiAgostino, alcune storiette di figure ' *Berna è accorciativo di Bernardo, o Bernardino; e nel contado sánese è ancora in uso. II Baldinucci e il barone di Rumolir vorrebbero che Berna fosse lo stesso che Barna, accorciativo di Barnaba; ma sono, al parer nostro, in errore. Noi però stiamo col Ghiberti, sostenendo che il vero nome del pittore fosse Barna. Nè un Bernardino nè un Berna si trova fra i pittori senesi di quel tempo, ma si fra i giurati alla mercanzia di Siena, nel 1340, un maestro Barna Bertini dipintore del popolo di San Pellegrino, il quale è molto probabiie che sia quel- l'artefice detto Barna dal Ghiberti, ed erróneamente Berna dal Vasari. 648 BERNA in fresco; ^ e nella chiesa era, in una faccia (oggi per farvi cappelle stata rovinata), una storia d'un giovane inenato alia giustizia, cosi ben fatta quanto sia possibile iinina- ginarsi, vedenclosi in quelle espressa la pallidezza e il ti- more délia morte in modo somiglianti al vero, che mérito perciò somma lode. Era accanto al giovane detto un Erate che lo confortava, molto bene atteggiato e condotto; ed, in somma, ogni cosa di quell' opera cosi vivamente lavo- rata, che ben parve che in quest'opera il Berna s'im- maginasse quel caso orribilissimo come dee essere, e pieno di acerbissimo e crudo spavento, poichë lo ritrasse cosi bene col pennello, che la cosa stessa apparente in atto non moverebbe maggiore affetto. Nella citth di Cortona ancora dipinse,-oltre a molte altre cose sparse in più luoghi di quella citth, la maggior parte delle volte e delle facciate della chiesa di Santa Margherita, dove oggi stanno Frati Zoccolanti.^ Da Cortona andato a Arezzo I'anno 1369, quando appunto i Tarlati, già stati signori di Pietramala, avevano in quella citta fatto finiré il con- vento e il corpo della chiesa di Sant'Agostino da Moccio scultore ed architetto sánese,' nelle minori navate, delle quali avevano molti cittadini fatto fare cappelle e sepol- ture per le famiglie loro, il Berna vi dipinse a fresco, nella cappella di San lacopo, alcune storiette della vita di quel Santo ; e sopra tutto molto vivamente la storia di Marino barattiere, il quale avendo per cupidigia di da- nari dato, e fattone scritta di propria mano, l'anima al diavolo, si raccomanda a San lacopo, perche lo liberi da quella promessa, mentre un diavolo col mostrargli lo scritto gli fa la maggior calca del mondo.'^ Nelle quali * Pitture perite, come quella che si descrive subito dopo. ^ Anche queste pitture sono perite. ' *Di questo artefice si parla nella Vita di Duccio, ed in quella di Niccolô d'Arezzo. ^ * Nel rifarsi la chiesa, queste pitture ehbero la sorte dell'altare, di cui si è detto più sopra. BERNA 649 tutte figure espresse il Berna con molta vivacità gil af- fetti deiranimo, e particolarmente nel viso di Marino, da un canto la paura e dall' altro la fede e sicurezza che gli fa sperare da San lacopo la sua liberazione, sebbene si vede incontro il diavolo, brutto a maraviglia, che pron- tamente dice e mostra le sue ragioni al Santo; che, dopo avere indotto in Marino estremo pentimento del peccato e promessa fatta, lo libera e tórnale a Dio. Questa mede- sima storia, dice Lorenzo Gbiberti, era di mano del me- desimo in San Spirito di Firenze innanzi cb'egli ardesse, in una cappella de' Capponi intitolata in San Mccolò. Dopo quest'opera, dunque, dipinse il Berna nel Yescovado di Arezzo, per messer Guccio di Yanni Tarlati di Pietramala, in una cappella un Crocifisso grande, e a pie della crece una Nostra Donna, San Giovanni Evangelista e San Fran- cesco in atto mestissimo, e un San Micbelagnolo, con tanta diligenza cbe mérita non piccola Iode ; e massimamente per essersi cosï ben mantenuto, cbe par fatto pur ieri. Più di sotte è ritratto il dette Guccio, ginoccbioni e ar- mate, a pië della crece.' Nella Pieve della medesima città, lavorò alla cappella de'Paganelli moite storie di Nostra Donna, e vi ritrasse di naturale il Beato Rinieri, uomo santo e profeta di quell a casata, cbe porge lime- sine a molti poveri cbe gli sono interne.® In San Barto- lommeo ancora dipinse alcune storie del Testamento vec- cbio, e la storia de'Magi, e nella cbiesa dello Spirito Santo fece alcune storie di San Giovanni Evangelista,® ed in ai- cune figure il ritratto di së e di molti amici suoi, nobili di quella città. Ritornato, dope queste opere, alla patria sua, fece in legno moite pitture e piccole e grandi; ma ' *Questo affresco, ritoccato non sono molti anni, esiste tuttavia nel Duomo Aretino, nel terzo altare a destra. ^ Di questa'storia non riraane più nulla. ® Nè di queste pure di San Bartolommeo e dello Spirito Santo è rimasto vestigio. 650 BERNA non vi fece lunga diinora, perche, conclotto a Firenze, dipinse in Santo Spirito la cappella di San Mccolò, di cni averno di sopra fatto menzione, che fu inolto lodata, ed altre cose che furono consúmate d al miserabile incendio di quella chiesa. In San Grimignano di Valdelsa lavorò a fresco, nella Pieve, alcune storie del Testamento nuovo,^ le quali avendo già assai presse alla fine condotte, stra- ñámente dal ponte a terra cadendo, si pestò di maniera dentro e si sconciamente s'infranse, che in spazio di due giorni, con maggior danno delFarte che suo, che ami- glior luego se iTandò, passò di questa vita. " E nella Pieve predetta i Sangimignanesi, enerandolo molto nel- l'essequie, diedero al corpo suo onorata sepoltura, tenen- dolo in quella stessa reputazione morte, che vivo tenuto Tavevano, e non cessando per molti mesi d'appiccare interno al sepolcro suo epitafli latini e volgari, per es- sere naturalmente gli uomini di quel paese dediti alie buone lettere. Cosi dunque all'oneste fatiche del Berna resero premio conveniente, celebrando con i loro inchio- stri chi gli aveva onorati con le sue pitture. Giovanni d'Asciano,® che fu create del Berna, con- dusse a perfezione il rimanente di quell'opera e fece ' *Queste pitture, che ancora si vedono nella párete della navata destra chi per entra, sono state ritoccate, per non dire guaste, in naolta ^ parte. *Questo accadde, seconde il Baldinucci, interno al 1.380. — t II che se fosse provato, ed insieme che il Berna del Vasari non è diversa persona da Barna di Bertino nominate di sopra, il quale operava nel 1340, farebbe credere che il maestro senese non morisse ancor giovane, come dice il Vasari, ma per lo meno dell'etá di sessant'anni. — *11 Vasari riferisce nella prima edizione questo epi- taffio, che certamente è moderno: Bernardo Sénensipictori in prlmis illustri; qui dum naturam diligenlius imitatur, quam vitae suae- consulit, de tabúlalo concidens, diem suum ohiit-^ Geminianenses homines de se optime meriti vicem dolentes pos. Sarebbe oggi quasi impossibile di aggiungere qualche cosa alie no- tizie date dal Vasari interno la persona e le opere del Berna. Le scritture senesi contemporánea ne tacciono. II che è accaduto per aver egli manato la breve vita quasi sempre lungi dalla patria. ' * Castalio a sedici miglia da Siena. Dobbiamo al Vasari se è giunta fino a noi la notizia di questo artefice, che in Siena è, si può dire, quasi s'conosciuto. * *Sebbene tra le pitture di San Geminiano sopra ricordate ve ne siano al- cune, nelle quali scorgesi una differenza di maniera, nondimeno sarebbe cosa dif- BERNA 651 in Siena, nello spedale della Scala, alcnne pitture;^ e COSI in Fiorenza, nelle case vecchie de' Medici, alcun'altre, che g'li diedero neme assai.^ Furono 1'opere del Berna sánese nel 1381. E perché, oltre a quelle che si ë dette, disegnò il Berna assai cómodamente, e fu il primo che cominciasse a ritrarre h ene gli animali, come fa fede una carta di sua mano che è nel nostre Libro, tutta piena di here di diverse ragioni; egli mérita d'essere somma- mente lodato, e che il suo nome sia onorato dagli artefici. Fu anche suo discepolo Luca di Tomé sánese,® il quale dipinse in Siena e per tutta Toscana molte opere, e par- ticolarmente la tavela e la cappella che ë in San Dome- nice d'Arezzo della famiglia de'Dragomanni ;la quale cappella, che ë d'architettura tedesca, fu molto bene or- nata, mediante detta tavela e il lavoro che vi ë in fresco, dalle mani e dal giudizio e ingegno di Luca sánese.® ficile il voler additare con cei'tezza quello che a ciascuno de'due pittori si appar- tiene. Gosi noi non crediamo troppo al Della Valle, il quale voile distinguere le opere del maestro da quelle dello scolare. 1 * Oggi in questo luogo non esiste nessuna pittura che possa dirsi di Gio- vanni; nè conosciamo nessuna memoria che ci attest! aver egli ivi lavorato. ^ Saranno state distrutte, quando nel luogo di quella casa Cosimo il Vecchio innalzò il palazzo, passato poi ai Riccardi. ® *Di Luca di Tomé, il piú antico ricordo è del 1357 ; nel qual anno. Cristo- foro di Stefano, acconciò la Madonna dipinta da Pietro Lorenzetti nel 1333 sopra la porta maggiore del Duomo. Questa data porterebbe a credere Luca, piutto- stoché del Berna, scolare di Simone. Era ai Cappuccini, fuori del castello di San Quirico (oggi nella Galleiña Senese), una tavola, ora divisa in piú pezzi, nella cui parte di mezzo, è la Madonna col Figliuolo in braccio; seduta in grembo di Sant'Anna; concetto raro nei maestri di quel tempo. Sotto la Madonna è scritto: Lucas Thome • • • de senis • pinsit • hoc • opus m ccc lxvii . E nell'oratorio • • di Monasterino delle Tolfe, fuori da Siena, è una tavoletta (molto guasta) dove in mezze figure sono la Vergine e due Santi e sotto il suo nome. Nell'Accademia di Belle Arti di Pisa è un' altra tavola col Crocifisso, la Madonna e san Giovanni ai lati, il Padre Eterno. In basso è scritto: Lucas Tome . de senis . e sopra pinsit • hoc a • s • mccclxvi. "Seconde altri è de'Dragon!, o de'Lancia-Serzagli, famiglie aretine estinte. ® *L'ultima Guida di Arezzo dice che rimane ancora una parte di quest! affreschi. La tavola pare perduta da gran tempo. DUCCIO 653 pittoke sanese ( La prima memoria è de' 1282 ; F ultima, del 1339 ) Senza dubbio coloro che sono inventori d' alcuna cosa notabile, hanno grandissima parte nelle penne di chi scrive ristorie; e ció avviene, perché sono più osservate e con maggiore maraviglia tenute le prime invenzioni per lo diletto che seco porta la novità delia cosa, che quanti miglioramenti si fanno poi da qualunque si sia nelle cose che si riducono all' ultima perfezione. Atteso- che, se mai a niuna cosa non si desse principio, non ere- scerebbono di miglioramento le parti di mezzo, e non verrebbe il fine ottimo e di bellezza maravigliosa. Mérito, dunque, Duccio,' pittore sánese e molto stimato, portare ' i La piü antica memoria clie si abbia in Siena di Duccio, il quale fu figliuolo di Buoninsegna, è del 1282. Nel Museo di Nancy è una tavola segnata del nome del pittore e deU'anno 1278 in questo modo: Duccio me faciéb. anno S. mcclxxviii. Questa scritta è stata dichiarata falsa, e veramente la forma sua lo farebbe credere. Maestro Segna di Buonaventura, che il Tizio nelle sue Historiae Se- nenses mss. fa maestro di Duccio, dall' esame delle sue pitture e del tempo loro, che è fra il 1305 e il 1326, apparisce, al contrario, suo scolare. Di questo mae- stro Segna di Buonaventura non si conosce di certo che F avanzo di una tavola che fu già nella chiesa delia Badia di San Salvadore delia Berardenga, ed ora è nella Gallería di Siena, dove scrisse Segna me fecit. Esso fu dato inciso per la prima volta dal prof. Rosini nella s,\x& Storia della Pittura italiana, tom. II, pag. 28. Dal 1305 al 1306 dipinse una tavola per la Biccherna ; della quale opera due avanzi colle figure di sanCAnsano e san Galgano furono trasportati dal Pa. 654 DUCCIO il vanto di quelli che dopo lui sono stati molti aiini, avendo nei pavimenti del Duomo di Siena dato principio di marino ai rimessi delle figure di chiaro e scuro/ nelle quali oggi i moderni artefici hanno fatto le maraviglie che in essi si veggono.^ Attese cestui alla imitazione delia maniera vecchia,® e con giudizio sanissimo diede oneste forme aile figure, le quali espresse eccellentissimameute nelle diificultk di tal'arte. Egli di sua mano, imitando le pitture di chiaroscuro, ordinò e disegnò i principj del dette pavimento; e nel Duomo fece una tavela, che fu allora messa ail'altare maggiore, e poi levatane per met- tervi il tahernacolo del corpo di Cristo, che al presente lazzo del Gomune nella raccolta delle Belle Arti, nella occasione che nel 1842 noi facemmo il riordinamento delle antiche tavole di quella Galleria. Nella chiesa di Castiglion Fiorentino è una tavola con Maria Vergine in trono circondata da varj angeli. In basso sono ritratte quattro piccole figure inginocchiate di chi fece fare questa pittura, la quale è nella medesima forma della Madonna di Cimabue nella cappella de'Rucellai e della Galleria del Louvre. Sotto vi si legge: Hoc opus jiinxit Segna Senensis. Nel 1317 dipinse per 1'altare maggiore della chiesa del convento di Lecceto, a cinque m.iglia da Siena, una Madonna seduta in trono, e il Bambino Gesú in braccio. Essa si vede ora nel coro della prossima chiesa di San Lionardo : ma i laterali si vede bene che non le appartengono, essendo di mano e di tempo posteriori. ' *Questo non pare si possa credere; perche dello spazzo di marmo del Duomo senese non si trova parola prima del 1359. Che se una deliberazione fatta dai Signori Nove nel 1310 ordina la continuazione del musaico della chiesa cat- tedrale, egli è da intendere di quello della facciata; il quale appare che nel 1358, allorchè si abbandonô il Duomo nuovo e fu ripreso il vecchio, fosse tirato avanti da maestro Michèle di ser Memmo orafo, pittore e scultore senese. t E certo che anche innanzi a' tempi di Duccio questi lavori di commesso erano in uso. Un esempio antico l'abbiamo nell' atrio del Duomo di Lucca, dove dentro certe formelle è un ornamento di marmi bianchi rossi e neri con figure d'uomini e d'animali in alcune parti graffiti. Quest'opera di commesso o di mu- saico di marmo fu fatta nel 1233, corne si rileva da una scritta presso il lato sinistro della porta maggiore che dice hoc opus cepit fieri a belenato et aldibrando operaiis a. d. mccxxxiii. - Vere maraviglie, che il Cicognara chiama smisurati nielli, e paragona ai più preziosi musaici della Grecia e di Roma. ' *Duccio può tenersi il gran padre della Scuola Senese. Innanzi a lui nes- suno pare che proseguisse ed accrescesse quella tradizione artística che Guido aveva lasciata col suo maraviglioso quadro del 1221. L'arte non si spense in Siena, perché è facile trovare nomi di pittori nel secolo xiii, anche avanti di Duccio, ma non di alcuno che a lui possa pareggiarsi. Talchè sembra egli più DUCCIO 655 vi si vede. In questa tavela, seconde che scrive Lorenzo di Bartolo Ghiberti, era nna Incoronazione di Nostra Donna lavorata quasi colla maniera greca, ma mescolata assai con la moderna; e perche era cosi dipinta dalla parte di dietro come dinanzi, essendo il dette altar mag- giore spiccato interno interno, dalla detta parte di dietro erano con molta diligenza state fatte da Duccio tntte le principali storie del Testamento nuevo, in figure piccole molto belle. Ho cercato sapere dove oggi questa tavela si trovi, ma non ho mai, per molta diligenza che io ci ahbia usato, potuto rinvenirla,^ o sapere quelle che Fran- cesco di Giorgio scultore ne facesse, quando rifece di coll'ingegno proprio, che per fatto di ammaestramenti o di esempj, averia spinta ad un Dotabiie grado. Vero è, che nelle sue pitture si attenne alquanto alia ma- niera bizantina, ma la migliorô d'assai, e le diede più forma e più natura ita- liana. I pittori che vennero dopo, come Segna, Ugolino ed i Lorenzetti, vi ag- giunsero qualcosa, massime nel colorito, nell'aria delle teste: ma non si che non conservassero délia maniera di Duccio tanto da mostrare che la Scuola Senese non risentisse in niente delF azione Giottesca. Simone e Lippo furono i primi che alcun che prendessero dal maestro fiorentino ; e dopo di essi il Barna e Luca di Tommè e qualche altro se ne fecero, chi piú chi meno, imitatori. i Oggi per via di ragioni ed argomenti desunti dalla storia e dalla critica si tiene altra opinione circa all'età di Guido da Siena e al tempo delia sua ce- lebre tavola, provandosi che egU visse ed operó negli ultimi cinquanta anni del secolo xiii, che dipinse quella tavola nel 1281, e non come è state creduto per lungo tempo nel 1221 ; e finalmente che da lui cominci la bella e lieta Scuola Senese. ( V. Delia vera età di Guido pittore senese e délia celebre sua tavola in San Domenico di Siena, negli Scritti varj ecc. di G. Milanesi; Siena, 1873, in-8). ^ * Questa tavola, allegata a Duccie nel 9 di ettebre del 1308, fu da lui finita nel 1311. Parve agli uemini del sue tempe, e pare anche a nei, epera di tanta maraviglia, che dalla casa dell'artefice, pesta nella centrada del Laterine, fu nel 9 di giugne di quell' anne pertata al Dueme cen grandissima selennità. Gestó, seconde gli annali latini inediti attribuiti a Francesco Piccolemini, pel Pio III, 2000 fiorini d'ore; e seconde altre memerie, 3000; nen tante pel pagamente dell'artefice, quante per l'ere e l'eltremare che vi sene prefusi. Allorchè 1' altar maggiefe, che era sotte la cupola, fu nel 1506 collocate dove eggi si vede, que- sta tavela, dipinta dinanzi e di dietre su due assi riunite insieme, fu telta e-pesta in una stanza della canónica; dove stette fine a che nel secóle seguente, dope averie cen cattive censiglie telte egni ornamente, e guasta la forma primitiva, non fu divisa, appendendo alla párete latérale dell'altare di sant'Ansano il dinanzi, che rappresenta la Madonna circendata da varj santi ed angelí (e nón la Ince- renaziene, come per errore scrisse il Ghiberti e ripetè il Vasari), ed il di dietro, ove in 27 maravigliesissime storie é espressa la Vita di Gesú Cristo, a quella 656 DUCCIO bronzo il detto tabernacolo, e quegli ornamenti di marmo che vi sono/ Fece similmente per Siena moite tavole in campo d'oro, ed una in Fiorenza in Ssinta Trinita, dove è una Isinnziata/ Dipinse poi moltissime cose in Pisa, in Lucca ed in Pistoia per diverse chiese, che tntte furono sommamente lodate, e gli acquistarono nome e utile grandissime/Finalmente, non si sa dove questo Duccio deir altare del Sacramento. Le figure delle piramidi, e le storie délia predella si veggono nella sagrestia. Sotto il dinanzi délia tavela Duccio scrisse questa af- fettuosa preghiera: mater, sancta dei — sis causa senis requiei — sis ducio vita te quia DEPINXIT ita. ' *11 tabernáculo di bronzo, fatto nel 1472 per la chiesa dello Spedale da Lorenzo di Pietro, detto il Vecchietta, fu traspórtate al Duomo nel 1506, e poste suir altar maggiore. Francesco di Giorgio gettò nel 1497 due de'quattro angeli di bronzo che sono nel detto altare, gli altri sono di Giovanni di Stefano. Ma i lavori di marmo sono posteriori, perché furono eseguiti nel 1532 da varj aite- fici, seconde il disegno di Baldassarre Peruzzi. ^ ^Di Duccio ora non resta di certo che la maravigliosa tavela del Duomo di Siena. Nella Gallería dell' Istituto senese di Belle Arti si vede qualche antica pittura che ricorda la maniera di questo artefice. — t In una cappella a destra di chi entra delia chiesa dello Spedale di S. Maria délia Scala di Siena, è una tavela, che hail carattere delle cose di Duccio. Nella cornice in lettere moderne è scritto : Bel tempo di Matteo di Giovanni. Delia falsità tante manifesta di questa iscrizione non accade parlare. Matteo di Giovanni pittore senese mori nel 1495. — *La tavela délia Nunziata in Santa Trinita e quella che (come si ha da un prezioso documente esistente nell'Archivio Diplomático di Firenze, e pub- blicato nel vol. I, pag. 158 de' ciiati Documenti per la storia dell'arte senese) fece nel 1285 per la fraternita di Santa Maria, che aveva una cappella in Santa Maria Novella, sono perdute. Pare che la stessa sorte abbiano avuto un quadro di Madonna, ed una predella che nel 1302 dipinse per faltare delia cappella del Palazzo Pubblico di Siena. Di un'altra opera preziosissima, che, sebbene non firmata, è cortamente di questo pittore, erano possessori i figliuoli di Giovanni Metzger in Firenze, il quale 1'aveva comprata in Siena molti anni sono. Essa nel 1845 ando venduta per grossa somma al principe Alberto d'Inghilterra. È un trittico dell'altezza di un braccio circa. Nel mezzo è Cristo in crece, con la Madonna e san Giovanni ai lati; e in alto due angeli piangenti. Nel destre sportello in alto l'Annunziazione délia Vergine, e sotto la Madonna seduta col divine Infante, adorata da angeli che stanno dietro il trono. Nello sportello sini- stro, la Madonna con Cristo seduti, con angeli attorno; e in alto, san Francesco che riceve le stimate. Opera conservatissima, di tanta bellezza e finezza, chë mag- giore non si puó aggiungere. La provenienza di essa, e piü la maniera cosi carat- teristica, non ci fanno stare in dubbio che essa non sia opera del nostre Duccio. ® *Delle sue opere in Pisa, in Lucca ed in Pistoia, nulla possiamo dire, per- chè nulla rimane. Né gli si possono attribuire quelle due tavole che il Tolomei ( Guida di Pistoia ecc. ) indicó come esistenti nello Spedale del Ceppo di essa città e in chiesa; le quali non solo non son di Duccio, ma neppure délia Scuola Senese. DUCCIO 657 morisse, në che parent!, discepoli^ o facultà lasciasse: basta che per aver egli lasciato erede Tarte delia inven- zione delia pittura nel marmo di chiaro e scuro, mérita per tale benefizio nelTarte commendazione e lode infinita, e che sicuramente si piiò annoverarlo fra i benefattori che alio esercizio nostro aggiungono grado ed ornamento; con- siderato che coloro, i qual i vanno investigando le difiS- culta delle rare invenzioni, hanno eglino ancora la me- moria che lasciano tra T altre cose maravigilóse. Dicono a Siena che Duccio diede. Taimo 1348, il di- segno delia cappella che ë in piazza nella facciata del Palazzo principale ; e si legge che visse ne' tempi suoi e fu delia medesima patria Moccio,® scultore ed archi- tetto ragionevole, il quale fece moite opere per tutta ^ *Le prime notizie delle opere di Duccio cadono, come abbiamo detto, nel 1285; ond'è a credere ch'egli sia nato nel 1260 incirca. Ora, se la morte sua fosse accaduta nel 1350, come vogliono alcuni, bisognerebbe far pervenire l'artefice senese quasi alla età di 90 anni: cosa, se non rara, almeno nel caso no- stro improbabile, vedendo che fin dal 1339 ci abbandona ogni memoria dell'esser suo. Talchè non anderemmo lungi dal vero, se poco dopo a questo tempo lo dicessimo morto. Ebbe egli due figliuoli di nome Qalgano ed Ambrogio, il primo de'quali segui l'arte paterna. Gli scolari suoi possono essere Segna, il Martini i due Lorenzetti, e forse Ugolino. Basta vedere le opere loro, e specialmente le più antiche, per persuadersi di questo. ^ *La cappella di Piazza, ordinata per voto fatto nella peste del 1348, ebbe principio nel 1352; ma non riuscendo di soddisfazione dell'universale, fu per ben quattro volte demolita; finché nel 1376 rimase compiuta. Non pare che il primo disegno possa essere stato di Duccio; non tanto perché egli nel 1352, fácilmente, da qualche anno era morto ; quanto ancora perché essendo quell' oratorio stato fabbricato a spese dell'Opera del Duomo, ragionevole cosa é che ella si servisse del disegno e della direzione del suo capomaestro : il quale nel 1352 era un maestro Domenico d'Agostino, e nel 1376, ed anche innanzi, un maestro Gio- vanni di Ceceo. ' *Ecco un artefice, la memoria del quale, se non era il Vasari, forse sa- rebbe perduta; perché noi crediamo che per quanta diligenza ed industria si usasse, non verrebbe fatto di aggiungere notizie maggiori dell' esser suo. In Siena appena due o tre volte comparisce egli come maestro muratore; arte che a quei tempi, ed anche dopo, raramente si discompagnava da quella di architetto. Sap- piamo che nel 1340 lavorava all'accrescimento del Duomo senese; e che nel 1345 ave va preso a rischio, o a cottimo, la muraglia della torre di Piazza. Ma cosa notabile é che in ambedue queste memorie egli é detto da Perugia. Vogliono alcuni che nel 1326 fosse architetto della Porta o Torrione di San Viene, o deí Pispini. Vasíri Opere. — , Vol. I. 42 658 DUCCIO Toscana, e particolarmente in Arezzo' nella chiesa dí San Domenico una sepoltura di marino per uno de'Cer- chi. La quale sepoltura fa sostegno e ornamento alf or- gano di detta chiesa; e se a qualcuno paresse che ella non fusse molto eccellente opera, se si considera che^ egli la fece essendo giovinetto Tanno 1356, ella non sarà se non ragionevole. ^ Servi cestui nelf Opera di Santa Maria del Fiore per sotto architetto e per scultore,® lavorando di marino alcune cose per quella fabbrica;, ed in Arezzo rifece la chiesa di SanFAgostino,^ che era piccola, nella maniera che ell'ë oggi; e la, spesa fecero gli eredi di Piero Saccone de'Tarlati, seconde che aveva egli ordinate prima che morisse in Bibbiena, terra del Casentino. E perche Moccio con dusse questa chiesa senza volte, e caricò il tetto sopra gli archi delle colonne, egli si mise a un gran pericolo, e fu veramente di troppo animo. Il medesimo fece la chiesa e convento di SanFAn- tonio, che innanzi alPassedio di Firenze era alia porta, a Faenza, e che oggi ë del tutto rovinato; e di scultura, la porta di SanFAgostino in Ancona, con molte figure ed ornamenti simili a quelh che sono alla porta di San Fran- cesco de lia citFa medesima. Nella qual chiesa di SanFAgo- stino fece anco la sepoltura di Fra Zenone Vigilanti, ve- scovo e generale dell' Ordine di detto SanFAgostino ' ; e finalmente, la loggia de'mercatanti di quella citta, che ^ Questa sepoltura piü non si vede. ^ t Di questo non è memoria nessuna ne' libri dell' Opera del Duomo di F¡- renze. Sospettiamo che il Vasari abbia confuso maestro Moccio col maestro Tino di Camaino scultore senese, il quale era in Firenze, nel 1322, a'servigi dell'Opera, di San Giovanni, e scolpi, come abbiamo detto, il sepolcro del vescovo Antonio- d'Orso che è nel Duomo. ® Poi rifatta di nuovo circa la metà del secolo scorso. Era, dopo il Duomo, la piü larga chiesa delia città. ** t La chiesa e il convento di Sant'Antonio di Vienna furono edificati nel 1358^ da fra Giovanni Guidotti di Pistoja. ' t II monumento del vescovo Simone, e non Zenone Vigilanti, che è nella chiesa di San Francesco della Scala e non in Sant'Agostino d'Ancona, non fu scolpito da Moccio, ma da un maestro Andrea da Firenze, come appariva dalla DUCCIO 659 dopo ha ricevuti, quando per una cagione e quando per un'altra, molti miglioramenti alia moderna ed or- iiamenti di varie sorti/ Le quali tutte cose, comecchë siano a questi tempi molto meno che ragionevoli, furono allora, seconde il sapero di quegli uomini, assai lodate. Ma tornando al nostro Duccio, furono 1' opere sue interno agli anni di nostra salute 1350.® iscrizione posta sul coperchio del sep clero che diceva; Andreas de Florentia qui etiam sepulcrum regis Ladislai excudit. Ora questa iscrizione non vi si vede piü, perché nel trasportare il dette sepolcro dalla vecchia chiesa di San Francesco nella nueva, la parte sua, ov'era la iscrizione, fu guasta e dispersa. ( Cata- lani Luigi, Discorso sui rnonumenti patrii. Napoli, 1842, a p. 22). Di questo scultore florentino che operó ne'primi anni del secóle xv, é in San Giovanni a Carbonara di Napoli il monumento di Ferdinando Sanseverino principe di Bi- signano. Evvi intagliato il nome dello scultore cosí: opus andree (sic) de feo- rentia. (Vedi Napoli e sue vicinanze- Napoli, 1845 ; vol. I, pag. 280). Pari- mente che non sieno di Moccio gli ornamenti delia porta di SanC Agostino, ne abbiamo un argumento nel Bernabei, cronista contemporáneo, il quale dice che la porta di questa chiesa fu cominciata da maestro Giorgio da Sebenico. Sen- nonché si potrebbe supporre che Moccio conducesse a fine il lavoro giá incomin- ciato da questo scultore. La porta di San Francesco della stessa cittá è opera del dette maestro Giorgio. (Ricci, Mem. artist, della Marca d'Ancona). ' Fu poi rifatta di pianta, e dipinta da Pellegrino Tibaldi. ^ *Dopo quel che abbiamo dette di sopra, non accade di notare l'errore del Vasari di assegnare questo tempe alie opere di Duccio. ANTONIO VINIZIANO 661 PITTORE ( Nato ; fiorito nella seéonda metà del secció xiv ) Molti che si starebbono nolle patrie loro, dove son nati, essendo trafitti dai morsi dell' invidia e oppressi dalla ti- rannia de'snoi cittadini, se ne partono; e que'luoghi dove trovano essere la virtù loro conoscinta e premiata, eleg- gendosi per patria, in quella fanno 1' opere loro ; e sfor- zandosi d'essere eccellentissimi per fare in un corto modo inginria a coloro da chi sono stati oltraggiati, divengono bene spesso grand'noinini : dove nella patria standosi quietamente, sarebbono per avventura poco piii che me- diocri neir arti loro rinsciti. Antonio Viniziano, il quale si condusse a Fir ^ enze dietro a Agnolo Gaddi per hnpa- * *11 Baldinucci asserisce che questo pittore era florentino, col riscontro di certi manoscritti e spogli Strozzani; e che fosse ,detto Veneziano ed anche da Siena, per aver dimorato molto tempo in quelle città. Ma nei documenti delle pitture di quest'arteflce fatte nel Campo Santo di Pisa, riferiti dal Ciampi, è detto chiaramente Antonius Francisci de Yenetiis ; e noi nei libri dell' Opera del Duomo senese abbiam trovato che, nel 1369 e 1370, Antonio di Francesco da Yenezia lavorô alcune cose per quella chiesa. La opinione del Vasari, pertanto, è la più sicura e la piü accettabile. t Antonio di Francesco da Venezia fu matricolato all'Arte dei Medici e Speziali, della quale facevano parte i Pittori, il 20 settembre 1374. Fu ne'me- desimi tempi del maestro veneziano un pittore florentino chiamato Antonio di Francesco Vanni che si matricolò a' 7 di febbraio 1382. Non sarebbe impossibile che il Vasari, come ha fatto altre volte, abbia assegnato al veneziano alcune opere che appartenevano al florentino. * 662 ANTONIO VENEZIANO rare la pittura, apprese di maniera il buon modo di fare che non solamente fu stimato e amato da'Fiorentini, ma carezzato ancora grandemente per questa virtù e per r altre buone qualitk sue. Laonde, venutogli voglia di farsi vedere nella sua citta per godere qualche frntto delle fatiche da lui durate, si torno a Vinegia. Dove es- sendosi fatto conoscere per molte cose fatte a fresco e a tempra, gli fn dato dalla Signoria a dipignere una delle facciate della sala del Consiglio / la quale egli condusse si eccellentemente e con tanta maestà, che seconde me- ritava n' avrebbe conseguito onorato premio ; ma la emu- lazione o piuttosto invidia degli artefici, ed il favore che ad altri pittori forestieri fecero alcuni gentiluomini, fu cagione che altramente ando la bisogna. Onde il pove- relld Antonio, trovandosi cosi percosso ed abbattuto, per miglior partito se ne ritornò a Fiorenza, con proposito di non volere mai più a Yinegia ritornare, deliberate del tutto che sua patria fusse Firenze. Standosi dunque in quella citta, dipinse nel chiostro di Santo Spirito, in un archetto, Cristo che chiama Pietro ed Andrea dalle reti, e Zebedeo e i figliuoli.^ E sotto i tre archetti di Stefano dipinse la storia del miracolo di Cristo ne'pañi e ne'pèsci; nella quale infinita diligenza ed amere dimostró, come apertamente si vede nella figura d'esso Cristo, che nel- r aria del viso e nell' aspetto mostra la compassione che egli ha delle turbe, e l'ardore della carita, con la quale fa dispensare il pane. Vedesi medesimamente in gesto bellissimo l'affezione d'une Apostelo, che dispensando con una cesta il pane grandemente s'aífatica. Nel che ' Del maggior Consiglio, probabilmente; ora Biblioteca. II silenzio del Quadri ne'suoi Otto Giorni in Venezia ci fa pensare, cbe le pitture d'Antonio piú non vi si veggano. t Esse perirono pell'incendio del Palazzo Ducale accaduto nel 1573. ^ *Nella Vita di Stefano e Ugolino dá a Stefano questa medesima istoria della Vocazione di San Pietro. E notisi come l'autore dice che essa era giudicata la piú bella delle tre da quell' artefice dipinte in quegli archetti ! " ANTONIO VENEZIANO 663 s'impara da clii ë dell'arte a dipignere sempre le figure in maniera che paia ch'elle favellino, perché altrimenti non sono pregiate. Dimostró questo medesimo ^ Antonio nel frontespizio di fuora, in una storietta piccola della Maima, con tanta diligenza lavorata e con si buona gra- zia finita, che si può veramente chiamare eccellente.® Dopo, fece in San Stefano al Ponte Yecchio, nella pre- della deir altar maggiore, alcune storie di San Stefano con tanto amore, che non si può vedere në le più gra- ziose në le più belle figure, quand' anche fussero di miniod A Sant'Antonio ancora al Ponte alla Carraia/ dipinse l'arco sopra la porta; che a'nostri di fu fatto insieme con tutta la chiesa gettare in terra da monsignor Ri- easoli vescovo di Pistoia, perchë toglieva la veduta aile sue case: benchë, quando eglinon avesse ció fatto, a ogni modo saremmo oggi privi di quell'opera, avendo il pros- simo diluvio del 1557 (come altra volta si ë detto) da quella banda portato via due archi e la coscia del ponte, -sopra la quale era posta la detta piccola chiesa di Sant'An- tonio. Essendo, dopo quest'opera, Antonio condotto a Pisa dallo opéralo di Campo Santo, seguitó di fare in esse le storie del Beato Ranieri, nomo santo di quella citta, già cominciate da Simone sánese,^ pur coH'ordine di lui. Nella prima parte della quale opera fatta da An- tonio si vede, in compagnia del detto Ranieri, quando imbarca per tornare a Pisa, buon numero di figure la- vorate con diligenza; fra le quali ë il ritratto del conte Gaddo, morto dieci anni innanzi; e di Neri suo zio, stato signor di Pisa.® Fra le dette figure ë ancor molto nota- ' *Cioè il pregio di dar vita alie figure. ^ Come le pitture di Stefano, cosi son perite quelle d'Antonio. ® Rifacendosi faltare e la chiesa, fu la predelia traspórtala chi sa dove. ' *Oratorio fabbricato nel 1350 da Gheri di Michele. (Vedi Gaye , 1,501). ' *Fu mostrato altrove che Simone non dipinse in Campo Santo le storie di San Ranieri. ° *Gaddo, o Gherardo, fu figliuolo di Bonifazio il vecchio della Gherardesca, . Jesu Christi anni Domini mccclxxvii, die xv mensis martii. II Vasari, dunque, sbaglia I'anno e il mese. Anche queste picture sono perite. " Le pitture della cappella sono ancora in essere ; non cosi quelle della facciata. SPINELLO ARETINO 687 desime storie, e molte più delia vita pur di Sant'Antonio? sono di mano di Spinello similinente nella chiesa di San Giustino, nella cappella di Sant'Antonio/ Nella chiesa di San Lorenzo fece da una banda alcune storie delia Madonna, e fuor delia chiesa la dipinse a sedere, lavo- raudo a fresco inolto graziosamente. In uno spedaletto dirimpetto alie monache di San Spirito, vicino alia porta che va a Roma, dipinse un portico tutto di sua mano; mostrando in un Cristo morto in grembo alie Marie tanto ingegno e giudizio nella pittura, che si conosce avere pa- ragonato Giotto nel disegno, e avanzatolo di gran lunga nel colorito. Figuró ancora nel medesimo luogo Cristo a sedere, con significato teológico, molto ingegnosamente; avendo in guisa situato la Trinità dentro a un sole, che si vede da ciascuna delle tre figure uscire i medesimi raggi ed il medesimo splendore. Ma di quest'opera, con gran danno veramente degli amatori di quest'arte, è av- venuto il medesimo che di molte altre, essendo stata but- tata in terra per fortificare la città. Alla Compagnia délia Trinità si vede un tabernacolo, fuor délia chiesa, da Spi- nello benissimo lavorato a fresco; dentrovi la Trinità, San Fiero, e San Cosimo e San Damiano, vestiti con quella sorte d'abiti che usavano di portare i medici in que' tempi. ^ Mentre che quest'opere si facevano, fu fatto don lacopo d'Arezzo generale della congregazione di Monte Oliveto, diciannove anni poi che aveva fatto lavorare, come s'è detto di sopra, molte cose a Firenze ed in Arezzo da esso Spinello: perché, standosi, seconde la consuetudine loro, a Monte Oliveto maggiore di Chiusuri in quel di Siena, come nel più onorato luogo di quella religione, gli venue desiderio di far fare una bellissima tavela in quel luogo. Onde, mandato per Spinello, dal quale altra volta si tro- ' E queste pitture di San Giustino, e le seguenti, che qui si lodano, di San Lorenzo e dello Spedaletto, sono perite. Pitture che ancor sussistono, ma restaúrate dal Franchini di Siena. 688 SPINELLO ABETINO vava essere state benissimo servito, gli fece fare la tavola della cappella maggiore a tempera; nella quale fece Spi- nello in campo d'oro un numero infinito di figure, fra piccole e grandi, con molto giudizio: fattole poi fare in- torno un ornamento di mezzo rilievo intagliato da Simone Cini fiorentino, in alcuni luogbi con gesso a colla un poco sodo, ovvero gelato, le fece un altro ornamento, che riusci molto bello; che poi da G-abriello Saracini fu messo d'oro ogni cosa. II quale Gabriello a pie di detta tavola scrisse questi tre nomi : Simone Cini fiorentino fece V intaglio, Ga- hriello Saracini la messe d'oro e Spinello di Luca d'Arezzo la dipinse V anno 1385.^ Finita quest'opera, Spinello se ne tornó a Arezzo, avendo da quel generale e dagli altri monaci, oltre al pagamento, ricevuto molte carezze. Ma non vi stette molto, perche, essendo Arezzo travagliata dalle parti * *Di questa ricchissima *tavola, della quale piû non avevasi contezza, noi neiranno 1840 ritrovammo in Rapolano, terra del Senese,i due pezzi laterali, i quali,moUo tempo innanzi alia soppressione dei conventi, erano stati traspor- tati in una cappelletta prossima a questa terra; dove, convertita poscia in un fienile, stettero per molti anni yergognosamente abbandonati. Due anni dopo furono comprati dal fu signor Gio. Antonio Ramboux di Treviri, disegnatore valentissimo, ed ispettore della Gallería di Colonia. Questi laterali, riuniti insieme, formano una tavola alta quattro braccia e larga tre, con ricchissimi intagli e ornati, tutti messi a oro. Nella parte destra sono espressi i santi Nemesio e Giovan Battista ; nella sinistra, san Bernardos santa Lucilla;.e sopra, in due compassi o formelle, i profeti Daniele e Isaia, dal mezzo in su ed in piccola proporzione. In basso evvi lo zoccolo diviso in quattro scompartimenti, in ciascuno dei quali è dipinto un fatto della vita dei santi sopra ñgurati, cioè:il Martirio di san Nemesio, il Banchetto di Erodiade, la Morte di san Bernardo, e il Martirio di santa Lucilla; tutti condotti in modo degno veramente di un grande e pratico maestro. Queste storie sono l'una dal- r altra divise da pilastretti, sui quali sono parimente dipinte al trottante piccole figure di santi ritte in pié. Sopra il gradino a letters di pastiglia rilevate e do- rate, si legge: magister • simón - cini • de • florentia • intaliavit • gabriellvs • SARACENi . DE • SENis • AVRAVIT • McccLxxx II rssto del millssimo non è ben cbiaro, ma pare che vi fosse non un v, ma piuttosto un m o un iiii. La iscrizione che diceva il nome del pittore Spinello, manca, perché è perduta la parte di mezzo, dove al corto era figurata una Nostra Donna. Resta però la parte di mezzo del gradino con il transito della Vergine, circondata da Cristo e dagli Apostoli ; il qual frammento bellissimo venne nella pubblica Gallería di Siena, dove oggi si conserva, dal convento di Monte Oliveto Maggiore, nell'anno 1810. SPINELLO ABETINO 689 guelfe e ghibelline, e stata in que'giorni saccheggiata / si conclusse cou la fainiglia, e Parri suo figliuolo, il quale attendeva alla pittura, a Fiorenza, dove aveva ainici e parenti assai. Laddove dipinse, quasi per passatempo, fuor délia porta a San Piero Gattolini in sulla strada Komana, dove si volta per anclare a Pozzolatico, in un tabernacolo che oggi ë mezzo guasto, una Nunziata, e in un altro tabernacolo dov'ë l'osteria ciel Galluzzo, altre pitture. Essendo poi chiamato a Pisa a finiré in Campo Santo, sotto le storie di San Eanieri, il resto che mancava d'al- tre storie in un vano che era riinaso non dipinto, per congiugnerle insieme con quelle che aveva fatto Giotto, Simon sánese e Antonio viniziano; fece in quel luogo a fresco, sei storie di San Petite e Sant'Epiro." Nella prima è quando egli, giovanetto, ë preséntate dalla madre a Diocleziano imperatore; e quando ë fatto generale degli eserciti che dovevano andaré centro ai Cristiani; e cosi quando, cavalcando, gli apparve Cristo, che, mostrandogli una crece bianca, gli comanda che non lo perseguiti. In — t Questa tavola fu allegata in Lucca da don Niccoló da Pisa, priore del convento di Santa Maiña Nuova di Roma dell'Ordine di Montoliveto, con stru- mentq del 17 aprile 1884 rogato da ser Pietro Zimatori notaio lucchese. In esso strumento si dice che Simone di Cino da Firenze maestro di legname promette da una parte di lavorare dentro sei mesi e pel prezzo di 50 fiorini d'oro a Spinello pittore di Arezzo, e a Gabbriello di Saracino pittore da Siena, dimoranti allora in Lucca, una tavola di legname nelia medesima forma e con gli stessi ornamenti intagliati che è quella del monastère di San Ponziano di Lucca, fatta da poco tempo. Dairaltra maestro Gabbriello suddetto si obbliga pel prezzo di 100 fiorini d'oro d'ingessare, rilevare, granare e mettere d'oro fine la detta tavola; e finalmente Spinello promette di dipingerla dentro otto mesi con colori buoni, e per la somma di 100 fiorini d'oro. Par dunque che il Vasari abbia ragione assegnando a questa tavola 1' anno 1385. ' *Questo saccheggio avvenne l'anno 1384; la qual data avvalora la con- gettura emessa da noi nella nota precedente, dove dubitammo che 1'anno scritto nella tavola di Monte Oliveto non potesse essere 1'85, come pone il Vasari. ^ De'santi Efeso e Potito, correggono il Delia Valle ed- altri. De'santi Efi- sio e Potito, legge il Ciampi. Delle pitture qui nominate non rimangono che le sei inferiori, e assai scolorite. t Spinello fu chiamato a Pisa nel 1391 da Pai'asone Grassi operaio della Primaziale. Vasabi , Opere. — Vol. I. 44 690 SPINELLO ARETmO un'altra storia si vede 1'Angelo del Signore dare a quel Santo, mentre cavalca, la bandiera delia fede, con la croce blanca in campo rosso; che è poi stata sempre l'arme de'Pisani, per aver Sant'Epiro pregato Dio che gli desse un segno da portare incontro agli nimici. Si vede appresso questa un'altra storia, dove, appiccata fra il Santo e i pagani una fiera battaglia, molti Angeli armati combattono per la vittoria di lui; nella quale Spinello fece moite cose da considerare, in que'tempi che l'arte non aveva ancora ne forza në alcun bnon modo d' esprimere con i colorí vivamente i concetti del- r animo : e ció furono, tra le molte altre cose che vi sono ^ due soldati, i quali, essendosi con una delle mani presi nelle barbe, tentano con gli stocchi nudi, che hanno nel- raltra, torsi l'uno all'altro la vita; mostrando nel volto e in tutti i movimenti delle membra il desiderio che ha ciascuno di rimanere vittorioso, e con fierezza d'animo essere senza paura, e quanto più si può pensare, corag- giosi. E COSI, ancora fra quegli che combattono a cavallo, ë molto ben fatto un cavaliere che con la lancia conficca in terra la testa del nimico, traboccato rovescio del ca- vallo tutto spaventato/ Mostra un'altra storia il mede- simo Santo quando ë presentato a Diocleziano imperatore, che lo esamina della fede, e poi lo fa dare ai tormenti, e metterlo in una fornace, dalla quale egli rimane libero, ed in sua vece abbruciati i ministri, che quivi sono molto pronti da tutte le bande; e insomma, tutte l'altre azioni di quel Santo fino alia decollazione, dopo la quale ë por- tata l'anima in cielo: e in ultimo,' quando sono pórtate d'Alessandria' a Pisa l'ossa e le reliquie di San Petite. * Quegli che conficca in terra la testa del nimico eco., osserva 11 Rosi ni, è un fante;e non egli, ma piuttosto il traboccato da cavallo, mérita la Iode di ben fatto. Vedi per tutte le particolaritá di queste pitture la sua Bescrizione del Campo Santo, e le Lettere, giá altre volte cítate, di lui e del De Rossi. ^ Da un luogo presso Gagliari in Sardegna, ove i due san ti ebbero il mar- tirio, dice il Della Valle. SPINELLO ARETINO 691 La quale tutta opera, per colorito e per invenzione, è la più bella, la più finita e la meglio condotta che fa- cesse Spinello : la qual cosa da questo si può conoscere, che, essendosi benissimo conservata, fa oggi la sua fre- schezza maravigliare chiunque la vede. Finita quesF opera in Campo Santo, dipinse in una cappella in San France- SCO, che è la seconda allato alia inaggiore, molte storie di San Bartolomeo, di SanF Andrea, di San lacopo e di San Giovanni ApostoliC e forse sarebbe stato più lun- gainente a lavorare in Pisa, perche in quella città erano le sue opere conosciute e guiderdonate; ma vedendo la città tutta sollevata e sottosopra, per essere stato dai Lanfranchi, cittadini pisani, morto messer Pietro Gam- bacorti,® di nuovo cou tutta la famiglia, essendo già vec- chio, se ne ritornò a Fiorenza: dove, in un anno che vi stette e non più, fece in Santa Croce, alla cappella dei Machiavelli intitolata a San Filippo e lacopo, molte storie d'essi Santi, e délia vita e morte loro; e la tavola délia detta cappella, perche era desideroso di tornarsene in Arezzo sua patria, o per dir meglio da esso tenuta per pa- tria, lavorò in Arezzo, e di là la mandò finita l'anno 1400.^ ^ Ebbero la sorte di tant'altre pitture di quella chiesa soppressa. ^ *L'uccisione del Gambacorti avvenne nell'anno 1392. Dell'anno avanti esiste in Lucca, presso il signer prof. Tomei, una tavola con Nostra Donna e quattro santi ai lati, nelia quale è questo avanzo d'iscrizione; s . pinxit . SPINELLVS . LYCE .... ARITIO A . 1391, CÍoè ; HOC • OPUS • PINXIT . SPINELLUS • LqCE DE ARITIO . IN • A . 1391. ^ Fin da'giorni del Biscioni ( vedi le sue Note al Riposo àe\ Borghini) que- ste pitture in Santa Croce più non si vedeano. La tavola potrebb' essersi con- servata, ma non si sa ove sia.' — *È nella Gallería delle Belle Arti di B'irenze una tavola coll'Incoronazione di Nostra Donna e varj santi, fatta nel 1401; la quale, come sappiamo dai documenti, da Lorenza de'Mozzi, abbadessa del mo- nastero di Santa Felicita, fu data a fare a Spinello Aretino, in compagnia di Niccolò di Pietro Gerini, pittore noto solamente da pochi anni alla storia del- I'arte, e di Lorenzo di Niccolò, pittore scoperto da noi, e del quale parleremo annotando la Vita di Fra Giovanni Angélico. Di questa tavola si può vedere 1' in- taglio, e la illustrazione dettata da uno di noi, nell'opera che ha per titolo: Gallería delia 1. e R. Accademia di Belle Arti, pubblicata per cura di una Società diretta dal prof. Antonio Perfetti. 692 SPINELLO ARETIFO Tornatosene, dimque, là di età di anni settantasette o più, fu dai parenti e amici ricevuto amorevolmente, e poi sempre carezzato e onorato insino alia fine di sua vita, che fu l'anno novantadue di sua età. E sebbene era molto vecchio quando tornó in Arezzo, avendo buone facultà, avrebbe potuto fare senza lavorare: ma, non sa- pendo egli, come quelle che a lavorare sempre era av- vezzo, starsi in riposo, prese a fare, alia Compagnia di Sanfi Agnolo in quella città, alcune storie di San Michele; le quali in su lo intonacato del muro disegnate di ros- saccio COS! alia grossa, come gli artefici vecchi usavano di fare il più delle volte, in un cantone per mostra ne lavorò e colorí interamente una storia sola, che piacque assai. Convenutosi poi del prezzo con chi ne aveva la cura, fini tutta la facciata dell'altar maggiore; nella quale figuró Lucífero porre la sedia sua in Aquilone, e vi fece la rovina degli Angelí, quali in diavoli si tramu- taño piovendo in terra; dove si vede in aria un San Mi- chele che combatte con V antico serpente di sette teste e di dieci corna; e da basso, nel centro, un Lucífero già mutato in bestia bruttissinia.^ E si coinpiacque tanto Spi- nello di farlo orribile e contraffatto, che si dice (tanto puó alcuna fiata V immaginazione ) che la detta figura da lui dipinta gli apparve in sogno, demandándolo dove egli Lavesse veduta si brutta, e perche fattole taie scorno con i suoi pennelli; e che egli svegliatosi dal sonno, per la paura non potendo gridare, con tremito grandissime si scosse di maniera, che la inoglie destatasi le soccorse: ma niente di manco fu perció a rischio, stringendogli il cuore, di morirsi per cotale accidente súbitamente; ben- chë, ad ogni modo, spiritaticcio e con occhi tondi, poco tempo vivendo poi, si condusse alla morte, lasciando di ' Pitture tuttavia consérvate. La caduta degli angeli rlbeili fu incisa nel 1821 da Carlo Lasinio ; e forma la tavola xxvi delle pitture a fresco pubblicate da Niccolô Pagni in Firenze. SPINELLO ABETINO 693 se gran desiderio agli amici, ed al mondo dnefiglinoli: Tuno fu Forzore orefice, che in Fiorenza mirabilmente lavorò di niello;^ e I'altro Parri, che, imitando il padre, di continuo attese alla pittura, e nel disegno di grau lunga lo trapassò.® Dolse molto agli Aretini cosi sinistro caso, con tutto che Spinello fusse |vecchio, rimanendo privati d'una virtù e d'una hontà quale era la sua. Mori d'età d'anni novantadue,^ e in SanFAgostino d'Arezzo gli fu dato sepoltura; dove ancora oggi si vede una la- pida con un'arme fatta a suo capriccio, dentrovi uno spi- lioso.* E seppe molto meglio disegnare Spinello che met- tere in opera; come si può vedere nel nostro Libro dei disegni di diversi pittori antichi, in due Yangelisti di chiaroscuro, ed un San Lodovico, disegnati di sua mano, molto belli. E il ritratto del medesimo, che di sopra si vede fn ricavato da me da uno che n'era nel Duomo ' t Come è dimostrato dall'Alberetto posto in fine di questa Vita, Spinello ebbe due figliuoli, cioè Parri nato nel 1387 e Baldassarre nel 1405, del quale non sappiamo che arte facesse. Forzore che fu orefice, nacque da Niccolò fra- tello di Spinello. Un altro Forzore piú antico e parimente orefice, del quale parla il Vasari nella Vita d'Agostino ed Agnolo, visse nella metà del secolo xiv e fu figliuolo di Spinello di ser Forzore che esercitò la stessa arte. ^ * La Vita di Parri si legge nella Seconda Parte. ' Cosí anche il Baldinucci. Nella prima edizione di questa Vita era stato scritto 77. t La morte di Spinello accadde ai 14 di marzo del 1410, come si legge ne'registri de'morti delia Fraternita d'Arezzo, e la sua sepoltura fu nella chiesa di Morello, e non in quella di Sant'Agostino, come dice il Vasari. E crediamo piú probabile che egli fosse allora di 77, e non di 92 anni, perché assegnando la nascita di Spinello all'anno 1333 in circa, piuttostochè al 1308, meglio si ac- cordano i tempi del suo operare, che fu, seconde le memorie, dall'anno 1361 air anno 1408. * Né sepoltura né lapida si vede più. Seconde la prima edizione, fu posto alla sepoltura quest' epitaffio : Spinello Aretino yatri opt. pictorique suae aetatis nohiliss., cujus opera et ipsi et patriae máximo ornamento fuerunt, PU filii non sine lacrimis poss. Ma questo epitaffio se mai vi fu posto, dovette cortamente essore qualche secolo dopo la morte dell' artefice. t Non uno spinoso, ma un leone che nella parte inferiere del corpo termina in una coda spinosa, come si pud vedere nell'arme unita aH'Alberetto. E questa medesima arme si vedeva nella sepoltura degli Spinelli in Santa Felicita e in Santa Maria Novella. 694 SPINELLO ABETINO vecchio, }3rima che fusse rovinato. Furono le pitture di cestui dal 1380 insino al 1400/ ^ * Di una assai bella e grandiosa opera fatta da Spinello in Siena nella sala detta di Baila del Palazzo Pubblico, non ebbe notizia nè il Vasari nè il Baldinucci. Il pittore, seguendo una leggenda che a quei giorni correva, ma in molta parte falsa, rappresentô in sedici stûrie i principali fatti délia vita di Ales- Sandro III (Rolando Bandinelli Sánese). In una è quando egli veste Tabito cer- tosino; neiraltra, quando è coronato pontefice; in questa si vede, quando fug- gendo a Venezia travestito da pellegrino, è da alcuni riconosciuto: in quella si figura il doge Ziani, che riceve da lui la spada, allorchè va a combatiere contro Tarmata comandata da Ottone figliuolo di Federigo imperatore. Viene quindi la battaglia navale, e la vittoria de'Veneziani. Poi il giovane principe prigioniero ai piedi del pontefice; la edificazione di Alessandria; e il ritorno di Alessandro a Roma, servito alia briglia ed alia staífa dall'imperatore Federigo e dal doga Ziani. Omettiamo di descrivere le altre dieci storie, che per la maggior parte sono nelle lunette dalle pareti e dell'arco che divide la sala, non tanto per amore di brevità, quanto ancora perché oggi è difficile di bene intendere che cosa rap- presentino. Queste pitture che ora, con savio, ma tardo consiglio, si vanno as- sicurando da maggiori danni, furono allogate a Spinello ed a Parri suo figliuolo, nal 18 di giugno del 1407, pel salario di 44 fiorini d'oro al mese; ma non furono incominciate che intorno al marzo del 1408. Quelle delia volta sono di maestro Martino di Bartolommeo, pittore sánese, di cui abbiamo fatto parola nella nota 2, pag. 477, alia Vita di Pietro Laurati, o Lorenzetti. Furongli com- messe nello stesso giorno, mese ed anno che le altre a Spinello; il quale sap- pi^-mo che fin dal 1404, 20 d'agosto, si era allogato a dipingere, per 150 fiorini d'oro air anno, coll'Opera del Duomo di Siena; e che nel 17 di gennaio del- I'anno seguen te aveva incominçiato la pittura delia cappella di Sant'Ansano in quella chiesa. ALBERO Ser Forzore notaio morto nel 1326 degll SPINELLI Spinello oreflce. Viveva nel 1326 LUCA i 1352 Cola oreflce raoglie Niccoluccia di Bongianni viveva ancora nel 1362 SPINELLO pittore Niccola oreflce 1333 ? t 1410 moglie Rebecca di m.® n. Angelo pittore Baldassarre Parri pittore n. 1405 n. 1387 t 1452 Forzore oreflce Cola giojelliere Neri n. 1397 t 1477 n. 1384 t 1458 in Francia nel 1427 mogli; 1. Maddalena moglie Pippa 2. Ginevra d'Orlandino Buonaccolti piero Jacopo Niccolò Spinello n. 1433 pittore n. 1430 n. 1420 naturale n. 1431 moglie Quirico Zanobi Girolamo " Antonio Felice Lionardo naturale n. 1438 t 1497 poi n. 1419 4 1497 t 1345 Niccola oreflce legittimato mogli F rate Ales- coniatore di mogli medaglie il 4 maggio 1457 . Ñera Franceschi Sandro 1. i 1499 in Lagia Idone dasant'Antonino . Alessandra di ser 2. Maddalena I arcivescovo Antonio di Piero di Miniato di di Firenze da Panzano Stagio Dombnico Niccola 3. Alessandra oreflce oreflce di P'rancesco Girolamo Canacci n. 1465 - moglie Vaggia di Francesco di Zanobi di Francesco Oi CO OI 697 INDICE Prefazione Pag. i Lettera dedicatoria al duca Cosimo de'Medici » 1 Altra alio stesso » 5 Agli artefici del disegno » 9 Lettera di Giovambatista Adriani » 15 Proemio di txjtta l' opera » 91 Introdüzione alle tre arti del DiSEGXo. — DeU'Architettura » 107 Delia Scultura » 148 Dalla Pittura » 168 Proemio delle Vite » 215 DELLE VITE — Parte Prima Giovanni Cimabue » 247 t Alberetto dei Gualtieri o Cimabuoi » 261 Commentario alia Vita di G. Cimabue » ivi Arnolfo di Lapo » 269 Niccola e Giovanni, Pisani » 293 i Commentario alia Vita di Niccola e Giovanni, Pisani » 321 Andrea Tafi .". » 331 Commentario alia Vita di Andrea Tafi » 339 Gaddo Gaddi » 345 í Albero della famiglia Gaddi » 353 Commentario alia Vita di Gaddo Gaddi » 355 3330169781 C0MMENTARi;0 ALLA VITA DI ANDREA TAFI 341 340 COMMENTARIO ALLA VITA DI ANDREA TAFI cipali avevano i loro maestri di pittura, non è ammissibile che dappertutto da molti scrittori anche de' tempi nostri. E difatti, chi attentamente si si chiamassero dalla Grecia, quand'anche si vogliano credere migliori degli faccia a leggere il nostro scrittore, non solo si persuader^ che il Tafi non Italiani. Questa opinione di tener per greco tutto ció che fu fatto avanti fu maestro di Fra lacopo francescano; il quale dopo il Vasari fu spesso a Cimabue, e conseguenza del sistema Vasariano, che ormai è stato messo confuso con un supposto Fra lacopo da Torrita; ma forse potrebbe più da parte come un'arme spuntata. ragionevolmente congetturare che gli sia stato scolare. Ed invero, se il Ma dopo tutto questo, non possiamo lasciar di parlare di Fra lacopo Tafi nacque interno al 1250, e non nel 1213, seconde che pone il Vasari, senza condurre il nostro discorso sopra un' altra importantissima quistione ; come poteva esser maestro di Fra lacopo, il quale col musaico délia Tri- dalla quale se non verremo a svilupparci come dalla precedente, procu- buna di San Giovanni di Firenze si mostra gik artefice fatto nel 1225 ? ' reremo di schierare innanzi i principali argomenti che servano di stimolo a E quanto all'essergli stato discepolo, noi incliniamo più volentieri a cre- coloro, i quali, con armi più valide, vorranno scendere in questo arringo. dere che il Tafi, piuttostochè dal Frate francescano, apprendesse Farte del Non è forse punto nella storia dell'arte italiana che sia più oscuro, musaico da que' maestri che dopo di lui molti anni lavorarono in San Gio- e, per conseguente, più controverse di quelle che riguarda la persona e vanni di Firenze, tra i quali furono un maestro Francesco, un maestro Bingo le opere di Frate lacopo musaicista. E sebbene i passati scrittori cercas- e un maestro Pazzo nominati negli ultimi del secóle xiii, oltre quel maestro sero di portare qualche luce in materia avvolta da tanta oscurita, nondi- Apollonio che si vuole insegnasse ad Andrea Farte di cuocere i vetri e di meno pare a noi che in molta parte abbiano conseguito un effetto con- commetterl: sto artefice dû messa fatta dussero per ri- fuori la COI persuasione ed possa essere di questo ir ale, per altro, loro fatto ( ; e quelle che non sia esi in noi tale e prova, non intricatissimo E questi il le notizie che Vite del Yí F abate Luigi in un conti asari, il Frate Se dun^ medesima per- di dire chej intemperanza un maestr pve a sdegno il ' La is prosuntuosi da ne, ci sia dato istra intenzione agioni altrui, e istro che si sot- ii-ano e in quelli E ci fi I lacopo, Frater simo, ma .ina di San Gio- ma come col suppos MS.